Le Isole Lofoten

Metadiario – 160 – Isole Lofoten (AG 1991-003)

Nell’anno 1991 l’operazione Aquila Verde, la “goletta verde” delle Alpi, sempre in accordo con il settimanale L’Espresso e sponsorizzata da So.Ra.Ro. spa di Milano e dal CRC srl di Brescia, svolse tre indagini scientifiche di grande interesse per l’ambiente montano: l’analisi della variazione delle caratteristiche chimiche di ben quindici ghiacciai alpini, lo studio dell’impatto ambientale di quindici rifugi di montagna e lo studio dell’impatto ambientale degli impianti di innevamento artificiale in quattro stazioni sciistiche invernali.

I risultati di tutte e tre le indagini furono pubblicati in tre riprese sul settimanale l’Espresso.

La traccia che sale al Mont Blanc du Tacul e al Col Maudit

Il primo progetto, realizzato in collaborazione con il Comitato Glaciologico Lombardo, consentì di evidenziare le variazioni chimiche occorse nel corso degli ultimi decenni alle precipitazioni solide e di mostrare l’inizio di inquinamento della nostra maggiore riserva di acqua dolce.

Gli altri due progetti volevano invece portare alla luce due aspetti dell’utilizzo dell’ambiente montano che si svolgevano in totale assenza di regolamentazione; in accordo con la caratteristica propositiva dell’operazione, si cercò di individuare quali potevano essere le linee di intervento per migliorare la gestione del territorio per quanto in oggetto, al fine di superare la logica di aggressione fino ad allora perseguita.

Alba in cammino per il Col Maudit

Se per l’innevamento artificiale ormai il grande danno era stato fatto (canali e gallerie di gronda costruiti in tutta fretta ed emergenza per captare le acque necessarie), c’è da dire che l’operazione rifugi è indubbiamente servita per ottenere nel tempo una gestione diversa. Anche grazie a questa nostra prima indagine nel giro di quindici anni pian piano le cose sarebbero cambiate fino all’attuale situazione, tesa alla progressiva realizzazione degli standard previsti.

Come si può intuire, il programma di Aquila Verde era assai complesso: nel passato inverno c’erano state le uscite per la neve artificiale, tutte condotte da Giovanni Rosti che di volta in volta si serviva di compagni diversi, non avevo partecipato ad alcuna di esse.

Chi vuole può scaricare da qui il documento finale della ricerca sulla neve artificiale nelle quattro località (Sestrière, Courmayeur, Bormio e Moena), in base ai prelievi e i rilievi dell’inverno 1990-1991.

Dentro un grande crepaccio sotto al Col Maudit

Ci fu un bel weekend in Val di Mello dove, come si sa, l’arrampicata sportiva non è proprio di casa. Il sabato 6 luglio 1991 arrampicai con Giovanni Sicola alla Placca Romboidale (combinazione di Pom pin, 1a L, VI+ seguita dalla via di Hassan, 2a L, VII-) dove mi riconfermai ben poco adatto ai lunghi runout senza protezioni sulle placche lisce. Pom pin è una via aperta da Jacopo Merizzi, Cristina Zecca e Luca Verri. Il giorno dopo Popi Miotti mi portò allo Schenun, in Valle dei Bagni: qui salimmo le quattro lunghezze di una via aperta da Enrico Fanchi e compagni, Passata di Pomodoro che, assai logica, si sviluppa proprio al centro della struttura. Il problema ci fu al terzo tiro (6c+), dove addirittura volai (la solita maledetta aderenza).
Nel pomeriggio mi feci assicurare da Bibi sul monotiro di 40 m di Moghy Dick (6a+), sulla struttura della Bregolana.

In discesa dal Mont Blanc du Tacul verso il Col du Midi

La prima uscita per Aquila Verde cui partecipai fu quella impegnativa al Col Maudit 4029 m. Dopo un pernottamento alla cabane des Cosmiques, Giacomo Casartelli, Marco Milani ed io partimmo alle prime luci del 9 luglio per la via normale del Monte Bianco. Giacomo era uno dei più fidati volontari di cui poteva disporre Antonio Galluccio, il medico allora direttore del Comitato Glaciologico Lombardo. Questo gruppo operativo non era ancora costituito come associazione, ma era alla fine di un periodo di collaudo durato sette anni (dal 1985) all’interno del Comitato Scientifico Centrale del Club Alpino Italiano. Nel 1982 si sarebbe costituito come Servizio Glaciologico Lombardo (SGL), un’associazione scientifica no-profit con scopi di ricerca e monitoraggio in ambito glaciale alpino, di divulgazione dei dati e delle ricerche svolte. Nel 1991 la bella rivista di glaciologia Terra glacialis non esisteva ancora. Giacomo si dimostrò subito di estrema utilità per la sua esperienza. Giunti al Col Maudit ci fermammo per individuare un crepaccio significativo ove fare i nostri prelievi e rilievi.

Salendo al Pizzo Stella dal Lago di Lei

Nel pomeriggio, riscesi a Chamonix, ci trasferimmo a Courmayeur. Lì avevo un incontro, procurato da Marco Milella, con il conte Giovanni Battista Titta Gilberti (1913-1995). Industriale, appassionato alpinista e sciatore, era tra i principali promotori dello sviluppo turistico di Courmayeur. Era il degno successore di un altro ingegnere, Dino Lora Tutino. Costui aveva fatto costruire l’impianto funiviario Entrèves-rifugio Torino durante il periodo bellico (poi bombardato da aerei francesi, quindi ripristinato e inaugurato nel 1948), poi aveva anche finanziato il primo tratto del traforo del Monte Bianco. Titta Gilberti, proprietario di alberghi, nel 1957 aveva acquistato da Lora Tutino le azioni della Società Monte Bianco, che gestiva la funivia, e ne era divenuto presidente. Di fatto Gilberti fu il progenitore dell’intera “funificazione” del Monte Bianco con la costruzione, contestata da noi di Mountain Wilderness, della tratta funiviaria Aiguille du Midi-Punta Helbronner (la cosiddetta Funivia dei Ghiacciai).

Alessandro Gogna al Pizzo Stella, al lavoro per Aquila Verde

Gilberti era dunque il dominus di Courmayeur, ma anche vecchio alpinista. Marco Milella sapeva quanto le nostre idee fossero opposte e per questo motivo aveva concepito quest’incontro. A seguito dell’inevitabile stretta di mano conseguente alle presentazioni (se non ricordo male all’Hotel Royal) ci sedemmo su comodi divani per parlare. Entrambi esprimemmo le nostre idee, del tutto divergenti, sul tema dell’avvicinamento alle montagne di alpinisti e turisti. Io sostenevo che da parte di costoro doveva sempre esserci un elemento di fatica, Titta invece che le funivie erano un elemento di “democratizzazione”. In quel colloquio non ci fu alcuna aggressività, ma neppure il minimo segno di avvicinamento. Ci lasciammo con vaghi progetti di realizzare sullo stesso tema un dibattito pubblico.

Sulla Vedretta dello Stella, con i campioni raccolti. Da sinistra, Alessandro Gogna, Giuseppe Miotti e Giacomo Casartelli.

Ricordo però che gli feci firmare la cartolina per l’istituzione del parco internazionale del Monte Bianco. Quella era una delle tante iniziative di Mountain Wilderness che stavo seguendo: a quel proposito quell’estate furono raccolte circa 13.000 cartoline “per il Parco del Monte Bianco”, firmate anche da personaggi illustri come il presidente della repubblica Francesco Cossiga, Fulco Pratesi (presidente WWF Italia), ecc. Le cartoline furono poi consegnate ai ministri per l’ambiente Italiano e Francese… E il parco ha ancora da essere istituito adesso (2023).
Il 16 luglio andammo alla Vedretta dello Stella, con partenza dalla diga svizzera del Lago di Lei. Oltre a Giacomo, questa volta c’era anche un suo collega, Gaetano Carcano. Completava il gruppetto il nostro Popi Miotti. Ne approfittammo per concederci una salita fino in vetta al Pizzo Stella 3163 m, una delle più importanti montagne della catena Passo Spluga-Passo Maloja, che tra l’altro rientrava nella guida che stavo facendo con Angelo Recalcati (che in quel periodo trascuravamo molto, per la verità). Completammo il nostro lavoro tramite una prassi che nel frattempo avevamo affinato e che avremmo applicato a tutti gli altri ghiacciai presi in considerazione. C’era un preciso numero di campioni da prelevare, a varie profondità.

La Vedretta dello Stella nel luglio 1991

Il 18 luglio salimmo con le macchine il più in alto possibile lungo gli sconnessi tornanti che portano a una conca sotto al rifugio Éntova-Scerscen 2957 m. Posteggiato nei pressi della teleferica che serviva il rifugio, ci avviammo sul sentiero che sale alla cresta sommitale, per affacciarci finalmente sulle Vedretta di Scerscen Inferiore. Salendo con mezzi meccanici in quel modo si limitava il cammino a soli 45 minuti. Con la scusa che eravamo lì per lavoro, non ci passò neppure per la testa di dare il buon esempio e andare a piedi con partenza almeno dai Prati della Costa 1600 m. La nostra numerosa compagnia era composta da Nella Picco (la socia Montana), Giuseppe Popi Miotti, Marco Milani, Gian Luca Maspes e Giovanni Rosti: accanto a quello che possiamo definire “lo staff”, era il grande nume della glaciologia italiano, il prof. Claudio Smiraglia. Tutto questo dispiegamento di forze era dovuto alla presenza della troupe di Jonathan, la famosa trasmissione diretta per sette anni dall’amico Ambrogio Fogar. C’eravamo attivati per suscitare il loro interesse ad Aquila Verde: e c’eravamo riusciti. Assieme a Fogar era anche Franco Zardini, lo storico e fidato cameraman che lo accompagnava sempre in giro per il mondo, oltre alla segretaria di produzione, Elena Caputo. Per fare scena, oltre a un’altra persona che non ricordo, c’erano anche cinque guardie forestali.

Salendo al Pizzo Stella

Il rifugio era gigantesco, una vera e propria cattedrale nel deserto. Di proprietà privata, ci chiedevamo chi mai poteva aver avuto l’idea di costruire lassù un albergo così sproporzionato. Già allora si sentiva la fine che gli era riservata: la chiusura definitiva. Dopo una discreta cena, verso le 20 andai fuori per assistere alle ultime luci e soprattutto attendere l’altro amico e socio di Montana, Luca Moro, che sapevamo arrivare tardi. Verso le 21 vedemmo arrivare al posteggio un’auto e quindi la luce di una pila frontale salire pian piano verso di noi. Ero un po’ preoccupato perché sapevo che l’esperienza escursionistica di Luca non era certo esagerata. Ma quando vidi che la lucina saliva lentamente ma con sicurezza i tornanti, decisi di limitarmi a fargli qualche segnale luminoso. Alla fine ci raggiunse: per fortuna avevamo tenuto da parte un po’ di cena per lui.

Al lavoro in un crepaccio della Vedretta di Scerscen Inferiore: Franco Zardini, diretto da Ambrogio Fogar, sta filmando Giovanni Rosti e Alessandro Gogna.

La mattina dopo ci recammo tutti in una non lontana e adatta zona del Ghiacciaio di Scerscen Inferiore, ciascuno con la sua funzione. Ovviamente ci fu richiesto di ripetere alcune volte le riprese dell’operatività più spettacolare, quindi discesa nei crepacci e altre acrobazie. Tutto funzionò regolarmente e ne uscì un documentario pregevole che, non ricordo più dopo quanto, fu mandato in onda.

Il 22 luglio, in formato squadra ben più ridotta, salimmo al rifugio Gnifetti. Il giorno, legati in cordata, Giacomo Casartelli con Popi Miotti, Claudio Smiraglia con me, salimmo fino al Colle del Lys. Poi perdemmo un po’ di quota e scegliemmo una location operativa al di sotto dell’ampia spianata del colle, con un enorme salto verticale di ghiaccio che risalimmo a jumar e scendemmo più volte.

Al lavoro sotto al Colle del Lys

Il 26 luglio ci spingemmo, con Antonio Galluccio e Popi Miotti, all’Hochjochferner in Val Senales, il ghiacciaio su cui ancora oggi si pratica lo sci estivo. Ho memoria un po’ scialba di queste uscite, legata più che altro alle foto che feci, che però riescono solo a far rimpiangere la mancanza di veri ricordi. Ma, come per tanti altri misteri che riguardano la natura umana, non ci è dato di comprendere in base a quali meccanismi un ricordo si imprime indelebile nella nostra mente. Certo non è una scelta cosciente.

Di mattina, le saracinesche del Tombon de san Marc sono chiuse. E’ all’angolo tra via San Marco (a sinistra) e via Montebello, Milano.

L’atmosfera lavorativa in via Montebello 14 era di qualità. Denaro ne girava sempre poco, ma con qualche salto mortale riuscivo sempre a pagare tutti. Lunedì 29 luglio, giorno del mio compleanno, chiudemmo l’ufficio un po’ prima del solito. Era venuto a trovarci Luca Crepaldi. Fatte poche decine di metri di strada a piedi, eravamo all’angolo tra via Montebello e via San Marco, Luca, Giovanni ed io, decisi ad entrare nel mitico pub El Tombon de san Marc per festeggiare con un bel Negroni. Io praticavo questo locale già dai tempi in cui abitavo nella vicinissima via Castelfidardo 8, nel lontano 1969. Ultimamente El Tombon era stato teatro di allegre sessioni di happy hour, che però non ci concedevamo così spesso. Faceva abbastanza caldo, ma all’interno la temperatura era gradevole, pur senza aria condizionata. Conoscevamo il padrone e tutti i ragazzi del bar, che chiamavamo per nome. Il Negroni ci fu servito con abbondanza di patatine e altri appetizer e l’atmosfera, già carica prima del nostro ingresso, non tardò a diventare elettrica, con gli annessi discorsi che tre maschi possono fare quando non c’è alcuna compagnia femminile. Il livello di becera idiozia era già al di sopra del livello di guardia. La pesantezza di certe esplicite affermazioni e sguaiate boutade era alleggerita solo dal dilagante e irresistibile umorismo. Saranno state le 19 quando ordinammo un secondo giro, che di solito riusciva a determinare in breve tempo lo stato di leggera ubriachezza che ci piaceva tanto.

Il profilo del Presten

Ma quella sera esagerammo e, con la massima determinazione e unanimità, decidemmo di finirci con il terzo giro, rimproverando l’amico barista perché secondo noi ce l’aveva confezionato più leggero: non era vero, ma ci andava così per massacrarci dal ridere. Sappiamo che il Negroni può essere più o meno carico a seconda di quanti centilitri a pari dosaggio di Martini, Campari e gin contenga. Ma, vi assicuro, al Tombon erano sempre stati generosi. La sbornia allegra montava, ma si era fatto tardi. Io, prima di tornare a casa in corso Vercelli, dovevo andare con i mezzi pubblici al garage di via Piero della Francesca, vicino al mio appartamento in corso Sempione, per prendere la Passat che mi sarebbe servita la mattina dopo, non so più per cosa, visto che eravamo in partenza per la Norvegia.

Franco Ribetti su West Pillar Direct al Presten, 31 luglio 1991.

Salutati i due soci di perdizione, del viaggio in autobus ricordo assai poco: ho un vago flash del mio ingresso in quello che non so più se era un’autorimessa o un box. Poi, il buio assoluto durante il mio guidare fino a corso Vercelli, con almeno una quindicina di semafori fatti in trance totale. Posteggiata l’auto alla meno peggio, barcollando salii al secondo piano: durante questa azione un po’ faticosa nel mio stato, cominciavo a riavere coscienza delle mie azioni. Misi la chiave nella toppa dopo qualche tentativo. Saranno state circa le 21 e non vedevo l’ora di abbracciare Bibi e di mangiare qualcosa. Fui accolto dalle urla della festa a sorpresa che lei aveva organizzato, con una ventina di amici e amiche vocianti: tra i quali erano anche quei due bastardi di Giovanni e Luca che, a dispetto dell’evidente stato di alterazione, erano stati capaci di tacere… La serata finì assai tardi, nella più completa incoscienza.

Finora non ne ho ancora parlato ma, contemporaneamente all’operazione sui ghiacciai, si svolgeva quella presso i rifugi. In effetti non partecipai personalmente e mi limitai a coadiuvare Giovanni Rosti nello svolgimento del programma. Giovanni effettuò parecchie uscite, in genere affiancato da Marco Milani, Popi Miotti e Paolo Romanini, in ordine sparso.

Marco Milani sulla seconda lunghezza di West Pillar Direct (Galileusweg) al Presten

Il problema dei rifugi
I rifugi alpini hanno una storia che meriterebbe di essere raccolta e raccontata su vasta scala. I pochi eccentrici personaggi che per hobby sportivo o per motivi di studio vagavano tra ‘700 e ‘800, nelle remote zone di montagna, Sir e Lord inglesi o meticolosi cristallografi svizzeri e italiani, gradirono sicuramente l’edificazione di quei modesti ricoveri in pietra, piccoli fabbricati dove “andarsi a rifugiare”, tra le crode e i ghiacciai della catena alpina. Quell’élite dell’alpinismo aristocratico e/o accademico promosse e vide sorgere nelle parti alte delle valli i primi rifugi, la cui vera e propria origine è addirittura fatta risalire al 1785 con la capanna Vincent, sul versante meridionale del Monte Rosa, seguita poi nel 1851 da un ricovero al Colle Indren, adibito ad osservazioni scientifiche.

Franco Ribetti sulla 7a lunghezza di Galileusweg al Presten

Altro nobile e memorabile “rifugio”, delle cronache alpine color seppia, è un modesto locale di pietra fatto completare da Horace-Bénédict de Saussure nel 1792 al Colle del Teodulo, vicino al Cervino, sul quale venne progressivamente costruito un edificio più grande, che dopo numerosi interventi e passaggi di proprietà venne acquisito nel 1891 dalla Sezione di Torino del Club Alpino Italiano per l’erezione di un vero e proprio rifugio a 3317 metri di quota.

Il CAI fece poi edificare nel 1866 e nel 1867 altri due rifugi: l’Alpetto al Monviso e la Balma della Cravatta al Pic Tyndall sul Cervino. E’ invece del 1868 il primo rifugio austriaco nel massiccio del Grossglockner, la Stüdlhütte, seguito poi nel 1875 dalla Rudolfshütte. Nell’anno di fondazione del Club Alpino Svizzero, il 1863, nasceva invece sulle Alpi elvetiche la Grünhornhütte am Todl.

Franco Ribetti sulla 5a lunghezza di Galileusweg al Presten

Queste strutture di ricovero, molto spartane e sobrie, in pietra e legno, erano l’immagine più classica del rifugio di montagna, luoghi di fascino antico che fecero scrivere a Guido Rey “… l’arrivo ad un rifugio è una delle più dolci emozioni della vita alpina…”. Ma il rifugio di montagna è ai giorni nostri un’altra cosa.

I numeri dell’esplosione “demografica” dei rifugi sulle Alpi sono tali da costituire una delle più grandi “catene alberghiere” del mondo, sicuramente quella situata più in quota. Si pensi solo che negli anni Novanta il volume totale complessivo di presenze turistiche annuali nei rifugi dei club alpini ammontava a 12 milioni circa, con una media di circa 4 milioni di pernottamenti per un giro d’affari ragguardevole, stimato intorno a 140 miliardi di lire.

Marco Milani (assicurato da Glauco Dal Bo) sulla 8a lunghezza di Galileusweg al Presten

Solo sulle montagne italiane il “patrimonio rifugi” del CAI era progressivamente cresciuto fino a raggiungere il ragguardevole numero di 462 installazioni custodite di cui l’80% sulle Alpi, con un numero di posti letto prossimo alle 24.000 unità.

Ai rifugi del club alpino si affianca poi un elevato numero di rifugi privati: per una semplice stima, e sempre rimanendo agli anni Novanta, si pensi che sul migliaio complessivo di rifugi del Tirolo, solo 180 appartenevano ai club alpini, un rapporto che consentiva di calcolare per l’intera regione alpina un totale tra rifugi e basi di altro genere pari circa a 10.000 unità.

Glauco Dal Bo in arrampicata al Presten. Foto: Marco Milani.

Nel frattempo l’alpinismo e l’esplorazione delle Alpi, da attività per pochi eletti, erano diventati sport di massa. Un tempo sintesi di vita ed esperienze, le Alpi erano ormai terreno di gioco, a volte palestra multi uso.

E il rifugio alpino si è adeguato, ha progressivamente cambiato ruolo e destinazione d’uso: da nido di aquile, spartano campo base per la salita alla vetta, santuario dell’avventura, si è trasformato in un centro di accoglienza turistica capace di offrire servizi molto variati, a volte in un albergo vero e proprio. Da cattedrale della montagna ad avamposto del degrado, vistoso e gastronomico, self service d’alta quota; da anello estremo del rapporto uomo-montagna a roccaforte dello sfruttamento.

Alessandro Gogna all’uscita di Galileusweg al Presten, 31 luglio 1991.

Già allora, strudel caldo con crema di vaniglia, Gatorade, lenzuola linde e doccia calda, erano le “portate” di un menu sfizioso e banalizzante.

Da elemento focale dell’immaginario alpino in più casi a vero e proprio avamposto dell’urbanizzazione, un terminale turistico nevralgico, dove la realtà dei grandi numeri si scontra con la cultura dell’immagine di una montagna pura, silenziosa e naturale. Il rifugio, inteso come dispensatore di servizi, ha dovuto sopportare un sovraccarico di frequentatori che hanno provocato l’esplosione di vari tipi di problemi gestionali e ambientali: energia, rifiuti, carichi di reflui organici, ecc. In poche parole un sito ad elevato impatto ambientale. E che allora non esisteva ancora il problema della scarsità di acqua…

Bibi con lo sfondo del Geitgaljen

Tale degrado si manifestava in prossimità dei rifugi, sui sentieri d’accesso agli stessi, nei crepacci dei ghiacciai situati in prossimità delle strutture più in quota, dove si convogliavano rifiuti e scarichi liquidi.

L’equazione del degrado ambientale era già semplice allora: il comfort di un rifugio è direttamente proporzionale alla disponibilità di energia. Più energia significa più servizi e dotazioni e contemporaneamente l’aumento dei problemi della depurazione e dello smaltimento dei rifiuti. Più comfort, più adeguamento ad un modello gestionale di tipo alberghiero, per soddisfare in ogni modo l’esigenza dei clienti, creano impatto e degrado ambientale.

Il Geitgaljen 1085 m è una specie di Petit Dru (chiamato anche Geitgaljartind) che si erge al fondo dell’Austpollen (Austnesfjorden), a sommità del selvaggio massiccio del Trolltindan.

Fornire i servizi è assai oneroso dal punto di vista ambientale. A titolo di esempio, uno studio del DAV, il club alpino tedesco (Deutsche Alpenverein), ha calcolato che per preparare un litro di acqua calda in un rifugio non raggiunto da mezzi meccanici il costo era di 10 marchi tedeschi.

Nel corso dell’indagine di Montana del 1991 sono stati verificati, mediante appositi audit, i vari parametri ambientali connessi alla gestione delle diverse strutture ed è poi stato compilato un report tecnico di dettaglio dell’indagine. Dallo studio si è potuto evincere che il “problema rifugi” era un mosaico di situazioni articolato e molto vario. Nel campione di 15 rifugi sono state riscontrate situazioni molto diverse tra un rifugio e l’altro, con casi in cui gli impatti sull’ambiente sono risultati minimi e controllati, al contrario di altre situazioni in cui il degrado ambientale era macroscopico. In alcuni casi sono stati osservati veri e propri scempi dell’ambiente montano nella zona circostante al rifugio, con presenza di scarichi fognari a cielo aperto o nei torrenti, di discariche selvagge, di rumore e cattivi odori dei generatori elettrici con motori a scoppio.

Nel canale di accesso alla parete sud-ovest del Geitgaljen, 2 agosto 1991

In verità alcuni club alpini avevano cominciato ad affrontare il problema, a creare regolamenti di gestione, strategie di miglioramento dell’eco-efficienza dei rifugi. I problemi però non erano di facile risoluzione. Gestire un rifugio con i suoi problemi non era infatti semplice ed era costoso, tanto più in quota esso si trovava. Certi temi erano praticamente insolubili o di costosa risoluzione, come l’approvvigionamento eco-compatibile dei rifugi, la realizzazione di efficaci impianti di depurazione delle acque, la produzione di energia eco-compatibile… Soprattutto in Italia, più indietro rispetto al mondo svizzero e austriaco, mancavano anche precise leggi e normative.

Si stavano affinando alcuni punti fermi irrinunciabili: la realizzazione di efficaci impianti di depurazione delle acque reflue, la riduzione della produzione di rifiuti, la loro selezione e smaltimento, la produzione di energia con fonti rinnovabili come quella solare, l’autonomia di approvvigionamento. Anche se, in quest’ottica di eco-efficienza, ogni rifugio era un caso a sé.
Apparve chiaro che l’unico vero progresso possibile era il ritorno alla semplicità.

Quarta lunghezza sulla parete sud-ovest del Geitgaljen. Alla Sosta 3 sono Franco Ribetti e Glauco Dal Bo.

Già allora era evidente che il rifugio doveva essere, se non spartano, almeno sobrio. Accoglienza e atmosfera non potevano essere assimilabili a quelle di una linda pensione con menu a la carte o ad una gasthof con sauna e bagno turco. Meno tavola calda, più baita di montagna. Quel “genius loci”, quell’atmosfera unica insostituibile e inestimabile, dovevano essere conservati e tutelati, a scapito delle comodità.

Ci voleva quindi una disponibilità di principio dell’alpinista e dell’escursionista ad accettare un rifugio semplice, privo di acqua calda e docce, magari nelle singole stanze.

In arrampicata sulla parete sud-ovest del Geitgaljen.

Eravamo agli inizi di un lungo percorso. Con il crescere della sensibilità su questi argomenti e con la nascita della norma ISO 14000 per la certificazione dei sistemi di gestione ambientale, applicabili anche al settore turistico ed alberghiero e quindi anche ai rifugi, ci si stava avviando alla gestione ambientale dei rifugi. In Italia è stata la Valtellina, grazie alla lungimiranza dell’avv. Angelo Schena, la capofila di un rinnovamento verso una “nuova cultura della montagna”.

Marco Milano sulla sesta lunghezza della parete sud-ovest del Geitgaljen, 2 agosto 1991

Viaggio alle Lofoten
Fu un luglio molto impegnativo, non avevo tempo per andare a scalare. A questo riguardo registro solo un weekend in Svizzera con Umberto Villotta. Il 13 luglio allo Schafberg scalammo il Süd-west Pfeiler (5 lunghezze fino all’VIII-, 1 resting) e le tre lunghezze di Luftschloss (anche qui VIII- e resting vari). Il 14 luglio, lo spigolo di Thomykante a Flaesch (2 lunghezze, V e VI), la prima lunghezza di Mistral (VII-), la L1 di Menschenfresser (male, VIII) e la L1 di Hoselotteri (VII).

I membri della spedizione torinese Polarsirkel ’67: da sinistra, Dionisio Zavadlav, Ennio Cristiano, Alberto Marchionni, Enrico Pulini e Paolo Rattazzini.

E finalmente il 30 luglio, partenza per le Lofoten! Per l’occasione si era ricostituita la squadra di Meteora, ma a Franco, Marvi, Bibi e me si era aggiunta la compagnia discreta di Glauco Dal Bo. Volo per Oslo, poi direttamente a Svolvaer, dove incontrammo all’aeroporto Marco Milani e Luisa Raimondi che si erano fatti il viaggio da Milano con il mio furgone arancione. Dopo una rapida sistemazione a Henningsvaer in uno dei numerosi appartamentini in affitto, la mattina dopo noi quattro maschietti ci buttammo alle vicine pendici del Presten 590 m (Il prete), la struttura più vicina ma anche più famose delle Lofoten. Lì salimmo una combinazione di vie, con attacco diretto del Westpillar (VI) + continuazione con Klokkeren (VII-) +uscita diretta con il Westpillar (VI). L’arrampicata era ciò che più genuinamente oggi chiameremmo trad, dunque non siamo esattamente in grado di capire se la nostra combinazione avesse dei tratti mai percorsi. In totale 13 lunghezze, dove incontrammo anche del VII. La chiamammo Galileusweg, ma di sicuro nessuna monografia successiva del Presten ha mai tenuto in conto questa prestazione italiana. Perché “Galileus”? Perché scherzosamente Bibi ed io chiamavamo il nascituro (ormai all’inizio del sesto mese) con il nome altosonante ma un po’ buffo di “Galileo”.

Spedizione torinese Polarsirkel ’67: da sinistra, Ennio Cristiano, Alberto Marchionni e Paolo Rattazzini.

Dopo un 1° di agosto passato in ricognizione, fummo attratti dalla forma slanciata del Geitgaljen 1085 m, una specie di Petit Dru (chiamato anche Geitgaljartind) che si ergeva quasi al fondo dell’Austnesfjorden, a sommità del selvaggio massiccio del Trolltindan. Allora internet non c’era, e a nostra memoria e ricerca quella granitica parete sud-ovest sembrava proprio ancora da scalare. Il 2 agosto partimmo molto presto (ricordo che in questa stagione alle Lofoten c’è sempre luce) dal fondo del sottofiordo dell’Austpollen. Non ci aspettavamo sentieri e in effetti non ne trovammo alcuno. Però arrivare alla base del nostro pilastro non fu difficile, forse impiegammo due ore per circa 700 m di dislivello. L’ultima parte dell’avvicinamento si svolge in uno stretto canale di neve. La parete era fin da subito impegnativa, ma lo diventava sempre di più di mano in mano che salivamo: purtroppo già alla sosta del primo tiro incontrammo dei chiodi e dei cordini molto vecchi. Continuavamo a salire, nella speranza che queste tracce antiche sparissero, ma invece ogni tanto trovavamo qualche chiodo arrugginito, qualche cuneo di legno marcio e soprattutto le soste. Franco ed io eravamo davanti, seguivano Marco e Glauco che si premuravano di arricchire le soste con un chiodo a pressione. Io ero contrario, ma non potevamo certo metterci a litigare in un posto simile…

La parete sud-ovest del Geitgaljen in aprile

Dopo una traversata a sinistra molto impegnativa, ci impegnammo nell’ultima serie di diedri e fessure, spesso strapiombanti. Alla fine, dopo dieci lunghezze tutte assai tirate e mai inferiori al VI+, raggiungemmo un piccolo pulpito orizzontale sullo spigolo ovest, anch’esso dotato di vecchia sosta. Erano le 21.30 e fino a lì avevo scalato tutta la parete in libera, a dispetto del fatto che occorresse proteggerla. Uno sguardo sopra di noi ci spense l’entusiasmo. Uno stretto risalto di liscio granito difendeva gli ultimi 20-25 metri prima dell’acuminata vetta! Non c’era alcuna possibilità di chiodare, neppure con i rurp. E non c’era verso di passare, né a sinistra né a destra. Eravamo increduli e molto delusi, tanto da non tentare di salire, neppure con una possibile piramide umana. Il pulpito era a picco sul profondo canale nord-ovest di questa montagna, una specie di via normale. Sarebbe bastato scendere una trentina di metri in doppia, risalire gli ultimi 40-50 m di facile canale e quindi afferrare il blocco sommitale.

La parete sud-ovest del Geitgaljen con il tracciato di Trolls meet Latinos (2013). Sembra che questi italo-sudamericani nella parte alta siano confluiti da destra nella via degli Italiani, con l’accortezza però di evitare l’ultimo tiro, in modo da puntare direttamente alla vetta.

Ma a quel punto eravamo così incazzati che decidemmo di scendere a doppie la via appena salita, senza raggiungere la vetta con quel sistema di seconda scelta.

Una volta tornati in Italia facemmo qualche ricerca per capire chi fossero mai quei misteriosi primi salitori: risalimmo a una spedizione del CAI Torino del 1967 (Polarsirkel ’67), con i nomi ben noti di Paolo Rattazzini, Ennio Cristiano e Alberto Marchionni. Ma in seguito non ci preoccupammo di contattare alcuno di loro (anche se Franco, da torinese, avrebbe potuto farlo facilmente). Soltanto oggi, navigando su internet, ho scoperto l’articolo che racconta tutta la storia, anche con foto e un filmato. Tanto di cappello a Cristiano e Marchionni, una prestazione-capolavoro per quei tempi. Sia nel racconto che nel film non si vede come la cordata ha raggiunto la vetta. Si vede solo una ripresa dei due che arrivano in cima fatta dall’operatore Dionisio Dioni Zavadlav: lui era arrivato in vetta assieme a Paolo Rattazzini seguendo il canalone nord-ovest. E’ perciò evidente che Marchionni e Cristiano per raggiungerli hanno dovuto calarsi nel canale, proprio come avevamo pensato di fare anche noi.

Marco Milani ha appena attaccato la parete est-nord-est del Solbjorn, quella che dopo pochi giorni diventerà la via Sea Breeze. Alla S0 sono Franco Ribetti e Glauco Dal Bo.

La discesa non fu propriamente banale, arrivammo al furgone più o meno alle 4 di mattina. Da lì guidammo per circa 100 km di curve prima di raggiungere il nostro chalet di Å, il villaggio di pescatori più a sud delle Lofoten.

Dopo un giorno di riposo totale, comprensivo della dormita necessaria, il 4 agosto con Franco e Glauco andiamo a salire la Svolvaergeita, per la storica via Forsida dello spigolo sud-ovest. La Svolvaergeita è quella guglia bifida in genere fotografata con lo sfondo della cittadina di Svolvaer e con un alpinista che compie un acrobatico e spettacolare salto da una punta all’altra della vetta. Ma quel giorno non c’era il tempo di stare lì a ripetere quello scatto.

Marco Milani ha appena raggiunto la S1 della parete est-nord-est del Solbjorn, oggi nota come Reinevaet.

Poi ci fu del brutto tempo con pioggia forte e qualche interruzione. Approfittando di quelle ore senza precipitazioni, con Bibi andammo due volte a pescare in mare. Lei buttava una lenza con cinque ami senza alcuna esca e dopo pochi secondi recuperava 5 pesci di media dimensione (non so se merluzzi o altro). In pochi minuti avevamo riempito due grossi secchi che erano in dotazione alla barchetta e cominciavamo a invaderne il fondo, rischiando di calpestarli. Lei pescava, mentre Marco, Glauco ed io eravamo addetti alla mattanza per non far soffrire più di tanto le nostre vittime. Una scena surreale. Un pomeriggio andammo anche ad un laghetto d’acqua dolce, ma lì (pur utilizzando esche varie) non pescammo assolutamente nulla… Meno male, perché ormai non ne potevamo più di fare ogni sera delle scorpacciate di pesce, a rischio di doverlo buttare!

In arrampicata sulla parete est-nord-est del Solbjorn (prima ascensione), oggi nota come Reinevaet.

L’8 agosto, durante una giornata molto grigia, andammo a un grande sperone che avevamo adocchiato. La montagna era il Solbjorn, a circa 10 km a nord del villaggio di Reine. Lì aprimmo un bellissimo itinerario sulla parete est-nord-est, il cui attacco è da una lastra appoggiata alla parete, a 5 metri di distanza dalla strada carrozzabile. Sono 355 m di placche lisce appena solcate da qualche fessura, con difficoltà di aderenza affrontabili perfino da me, che sono un brocco su quelle cose. Mai avremmo potuto immaginare che pochi giorni dopo l’americano Ed Webster e il norvegese Thorbjørn Enevold avrebbero ripetuto la nostra via: non si peritarono di fare alcuna ricerca e la diedero per prima ascensione, con il nome di Sea Breeze. La via diventò in seguito una classica delle Lofoten, molto ripetuta. Anche il nome del Solbjorn non fu mai usato, perché Webster nella guida che pubblicò nel 1994 chiamò quelle placche Reinevaet.

In arrampicata sulla parete est-nord-est del Solbjorn (prima ascensione), oggi nota come Reinevaet. 8 agosto 1991.

Il giorno dopo Glauco ci lasciò e prese l’aereo per Milano. In sei andammo a Fiskebol e prendemmo il traghetto per Melbu, quindi ci ritrovammo privi di auto sul meraviglioso arcipelago delle Vesterålen, ben distanti dalle masse dei turisti. Ci avevano detto che quello era il luogo ideale per praticare il whale watching, cioè andare a vedere le balene. Il soggiorno fu un disastro, sei giorni di pioggia ininterrotta, durante i quali non solo non si poteva andare a vedere i cetacei, ma neppure fare una passeggiata per raccogliere funghi.
Dopo due giorni Marco e Luisa decisero di tornare a Fiskebol per riprendere il furgone, diretti al percorso di trekking svedese del Kungsleden (il sentiero del Re).

Bibi in canoa su acqua dolce

Rimasti in quattro nella noia della pioggia, Franco ed io eravamo ben contenti di avere a disposizione parecchi numeri arretrati della Settimana enigmistica: compilavamo a matita, cancellavamo e poi ci scambiavamo i cruciverba, i rebus e quant’altro. Il tutto cercando di battere l’avversario: nel rispetto reciproco era comunque una lotta senza quartiere. L’unica variante fu la visita al locale museo di Melbu, abbastanza misero ma orgoglioso.

Isole Vesteralen

Ritornati a Svolvaer, finalmente con un po’ di sole, Franco ed io il 17 agosto tornammo alla Svolvaergeita dove, dopo un tentativo inglorioso a The Vegeterian, scalammo la fessura est, chiamata Highway to Heaven.

Raggiunta la vetta, mi feci calare da Franco fino alla base, mi spostai al luogo dove si poteva ripetere lo scatto della foto famosa. Franco, prima di spiccare il salto, ci pensò bene: lo fece solo per farmi piacere, comunque assicurato alla sosta di vetta.

Alessandro Gogna sulla via Forsida allo spigolo sud-ovest della Svolvaergeita

Lofoten, il granito in riva al mare
di Marco Milani

“Beh, i vecchi leoni non hanno ancora perso tutti i denti”, pensavo mentre mi trovavo a riposare con l’ennesimo resting su di un friend che Alessandro aveva piazzato con apparente scioltezza nella fessura strapiombante mentre si reggeva sulle nocche incastrate della mano sinistra. Appena lo raggiunsi in sosta dissi “Bel tiro!”, due parole il cui significato recondito era “Durissimo, ne esco stravolto e, grazie a dio, manca poco alla fine”; dopo poco più di un’ora mi accasciavo con la lingua fuori sul terrazzino dove terminava la parete sud-ovest del Geitgaljen.

Marvi Ribetti
Bibiana Ferrari e Glauco Dal Bo diretti alla mattanza di pesci nel Kjerkfjorden (sullo sfondo il Breiflogtinden).

1085 metri più in basso il mare disegnava un fiordo blu, in riva al quale al mattino avevamo lasciato il furgone. Dieci tiri di sesto e settimo, la prima ripetizione di una via aperta 25 anni prima da arrampicatori torinesi in tre giorni di scalata in buona parte artificiale.

Il sole delle undici di sera, basso sull’orizzonte, arrossava il cielo e noi quattro sul terrazzino. In agosto alle isole Lofoten, oltre il circolo polare artico, la notte non esiste; il sole si limita a scomparire per poche ore sotto l’orizzonte, ma il cielo continua a rimanere luminoso, più che sufficiente per arrampicare o camminare.

La salita della Sud-ovest del Geitgaljen ci impegnò parecchio, con una non stop di circa 20 ore, tra avvicinamento, salita e discesa. Un itinerario impegnativo, che ci strappò espressioni di ammirazione nei confronti degli italiani che a colpi di cunei di legno e scarponi avevano salito queste fessure negli anni Sessanta.

Al bar di Å. Da sinistra, Glauco Dal Bo, Bibiana Ferrari, Marvi Ribetti e Franco Ribetti
Sul traghetto Fiskebol – Melbu: Luisa Raimondi e Franco Ribetti (in completa paranoia per via della nausea)

Il nostro soggiorno arrampicatorio nelle isole norvegesi non si limitò alle ripetizioni. Il primo contatto con il granito in riva al mare avvenne il 31 luglio; in base alle indicazioni fornitemi da Antonio Longo e Ferruccio Avelli che avevano già percorso alcuni tiri del Westpillar, attaccammo il pilastro Presten, 400 metri di roccia splendidamente fessurata. L’itinerario che ne risultò può essere paragonato alle migliori vie del granito svizzero di Grimsel o del Furka. Dalla vetta si gode di un panorama unico, trovandosi sulla sommità di una catena montuosa al largo della costa norvegese: all’orizzonte la catena delle montagne della penisola scandinava, costellate di ghiacciai, formava un’enorme muraglia al di là del mare. Alla base del Presten i fiordi disegnano i contorni frastagliatissimi dell’isola, e isolotti di granito rosso emergono qua e là dall’acqua di una trasparenza tropicale.

Jennestäd (Vesterålen): Alessandro e Franco
Franco, Marvi e Bibi sulla spiaggia di Hovden (Vesterålen), in una rara schiarita.

Nell’isola di Moskenesöya, protesa nel Mare del Nord, esistono vaste possibilità di nuovi itinerari. I ghiacciai durante il loro ritiro hanno lavorato con energia, modellando le rocce in placche enormi e vallate ad U. Le placche di granito sorgono praticamente dalla strada costiera, una meta fin troppo ovvia. Un simpatico itinerario di aderenza di dieci tiri fu il risultato della nostra esplorazione.

Lofoten. Foto: Damiano Levati.
Lofoten. Foto: Damiano Levati.

Arrampicare alle Lofoten, e, presumibilmente, anche nel resto della Norvegia, è un’esperienza sconcertante: da un lato si gode di tutte le comodità che qualunque paese occidentale offre, dall’altro, appena si abbandona una strada, si entra in una dimensione completamente selvaggia. Questo significa aree dove è difficile incontrare altri escursionisti o alpinisti, una quasi totale mancanza di sentieri, e, naturalmente, la pressoché assenza di relazioni o guide riportanti itinerari di arrampicata. Pertanto la scalata, considerando anche il fatto che non si può contare granché su di un soccorso in parete, assume ancora dei connotati di vera avventura, oramai scomparsi nelle Alpi.

Il clima è in genere meno cattivo di quello che normalmente ci si immagina pensando ai paesi scandinavi. Le Isole Lofoten, in particolare, godono di una posizione privilegiata, trovandosi favorite dalla corrente del golfo apportatrice di tempo stabile e spesso assolato.

Alessandro Gogna sulla fessura di Highway to Heaven alla Svolvaergeita
Franco Ribetti spicca il salto tra le due punte della Svolvaergeita. Sullo sfondo è Svolvaer.

Raggiungere le Lofoten in auto oggi non è affatto un’avventura ma è soltanto noia: i 4.000 km circa da Milano (400 circa su statale, il resto praticamente su autostrada) sembrano non finire più e quando si spegne il motore in riva al Mare del Nord si tira un bel sospiro di sollievo. Però, vi posso assicurare, arrampicare al sole di mezzanotte al di sopra di un fiordo cristallino vi farà capire che ne valeva la pena.

Come ormai di consueto per questo periodo, ecco un filmato, che definire artigianale è più che eufemistico, su un momento di pesca alle Isole Lofoten.

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Le Isole Lofoten ultima modifica: 2023-12-16T05:09:00+01:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “Le Isole Lofoten”

  1. Emanuele hai ragione!
    Però anche la disonesta’lascia segni e ben peggiori che un chiodo salvavita.
    Ciao

  2. Per A.G. ma sul Solbjorn non avevate lasciato nessun segnavia …soste o chiodi intermedi? Tutto con protezioni veloci? 
    Peccato! Il ratto (nel senso di pantegana)delle vie già aperte è sempre affamato.

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