Nell’era di Google maps e degli smartphone con Gps, perdersi sembra impossibile: un puntino azzurro indica costantemente la nostra posizione su una mappa digitale, e l’evoluzione della tecnologia va di pari passo con la regressione del nostro senso dell’orientamento.
Franco Michieli, geografo ed esploratore, 20 anni fa ha capito che la tecnologia rischiava di uccidere il gusto per l’esplorazione. Da allora organizza spedizioni nelle terre più selvagge orientandosi esclusivamente a vista: niente mappe, niente strumenti, e nemmeno un telefono satellitare per chiedere soccorso. E arriva a destinazione, dimostrando che l’uomo possiede un senso dell’orientamento innato, che puó essere affinato semplicemente grazie a un’attenta osservazione del territorio, dell’orografia, del paesaggio.
Perdersi per ritrovarsi: come imparare a camminare senza mappe né strumenti: è tra gli scopi di Movimento Lento (https://www.movimentolento.it/it/) che dal 6 all’8 ottobre 2017 ha tenuto un seminario dedicato a chi ama “navigare a vista”. In questo, è stato Franco Michieli a condividere le sue esperienze e le sue competenze.
Lettura: spessore-weight***, impegno-effort**, disimpegno-entertainment***
Orientamento senza mappa
di Linda Cottino
(già pubblicato con il titolo Il senso di orientamento non ha bisogno di mappe su In movimento, settembre 2017)
Franco Michieli è geografo, esploratore e scrittore. Si è dedicato alla conoscenza delle montagne e della natura d’Europa, in particolare della Scandinavia e di altre regioni nordiche, e di aree montuose extraeuropee, con predilezione per le Ande. La sua attività più originale e significativa è costituita dalle lunghe traversate a piedi su terreni difficili, tenendo la rotta senza far uso di mappe, bussola, orologio o altri strumenti. Di questo parla il suo film La via invisibile (2004). Tra i suoi libri Huascaran 1993, verso l’alto, verso l’altro, vincitore del Premio Gambrinus «Giuseppe Mazzotti» 2014, e La vocazione di perdersi, piccolo saggio su come le vie trovano i viandanti (Ediciclo, 2015).
Cosa ti ha spinto, sin da giovanissimo, ad attraversare territori estesi: le Alpi, i Pirenei, la Norvegia, l’Islanda?
Quando partii per la traversata delle Alpi da Ventimiglia a Trieste, alla fine della Va liceo, sentivo forte il contrasto tra la vita urbana a Milano, dove abitavo, e la dimensione della natura alpina, che conoscevo fin da bambino. Volevo scoprire se un ragazzo di città potesse vivere da viandante; e se nei mesi di cammino e di scalate quella natura mi avrebbe rivelato qualcosa di sé e di me che ancora non conoscevo. Scelsi di dormire all’aperto, solo col sacco piuma, rifornendomi di viveri nei villaggi, con amici che si alternavano. La libertà del cammino mi ha aperto nuove dimensioni e regalato enorme fiducia nel rapporto possibile con la natura. E’ questa dimensione psico-fisica che mi ha stimolato a ripartire molte volte per nuove lunghe traversate.
Ti muovevi con bussola e cartina?
Da ragazzo avevo limitato i mezzi da portare, ma non immaginavo che si potessero eliminare anche le cartine, o l’altimetro e la bussola. Ho imparato moltissimo dal continuo interpretare mappe per dedurre le forme reali dei territori e dunque le possibilità di passaggio: la morfologia di molti ambienti è divenuta parte di me, tanto da capirla a colpo d’occhio. Finché guardare una mappa, anche di un posto selvaggio, ha cominciato a rivelarmi troppo, a diventare banale.
Arrivavano i gps e tu eliminavi tutto!
Proprio quell’improvviso abbandono delle facoltà umane nel scegliere come muoversi sulla Terra mi ha dato una sorta di sveglia, facendomi balenare un altro punto di vista. Alpinisti ed esploratori che si erano battuti, per esempio, contro l’uso di ossigeno nella scalata degli 8000, trovavano invece buona cosa farsi guidare dai satelliti del Pentagono. Allora ho capito che ciò che consideriamo indispensabile spesso dipende da nostri preconcetti. Il vero riferimento è la natura. E siccome veniamo da lì, e per centinaia di migliaia di anni esseri umani della nostra specie hanno esplorato e popolato tutto il mondo fuorché l’Antartide senza alcun bisogno di cartine e bussole, ho intuito che le capacità per farne a meno dovevano essere ancora vive dentro di noi, solo un po’ addormentate.
Il tuo primo esperimento qual è stato?
Gli oltre 500 km degli altopiani disabitati della Lapponia norvegese, attraversati da est a ovest senza cartine, né orologio, né strumenti per l’orientamento o le telecomunicazioni. Con un amico veterano delle traversate ci siamo basati solo su una mappa mentale, cioè uno schema delle forme principali della regione appreso prima di partire su un semplice atlante stradale, e sui riferimenti naturali: la posizione del sole, la direzione del vento, il persistere di nubi che indicano alture, l’incontro coi fiumi. La relazione intensa col territorio ci dice tutto il necessario. Sia chiaro: dopo decenni di preparazione per risvegliare una capacità di ascolto. Dovremmo dedicarci a fare un po’ i vagabondi, anche vicino a casa, osservando, ascoltando, mettendo in relazione tutto ciò che anima l’ambiente. Presto s’impara, e il mondo ritorna grande.
Cos’è davvero una mappa mentale? Serve senso dell’orientamento?
Le mappe interiori, o mentali, sono da alcuni decenni tra le frontiere più interessanti della geografia e della psicologia. Sono le rappresentazioni contenute nella nostra memoria degli ambienti che conosciamo; non abbiamo bisogno di mappe per andare da casa al panettiere, o al lavoro. I nostri antenati cacciatori e raccoglitori, così come le ultime popolazioni native della Terra, possedevano rappresentazioni di terre e di mari su distanze anche superiori a 1500 km. Per utilizzarle non è necessario possedere un gran senso dell’orientamento innato, ma dedicarsi alla relazione diretta col mondo, anziché farsi guidare da vocine esterne e app.
Come definiresti questo tipo di esplorazione?
Anni fa la definii «esplorazione inversa»: anziché conquistare nuove terre, o cime, o poli, si riconosce l’infinità della vita di un luogo, che nessun individuo o cultura può comprendere per intero. Come dice lo scrittore Barry Lopez, il rispetto per un luogo dipende dall’aver coscienza che la maggior parte del suo mistero resta sempre inesplorato. L’esplorazione che m’interessa è quella che porta a casa un mistero più grande, anziché l’illusione di aver svelato un luogo.
Quando hai smesso di esplorare solo per te stesso e hai deciso di condividere l’esperienza con altri?
Persone e associazioni interessate a capire il mio approccio mi hanno invitato a tenere seminari, sia teorici sia sul campo, e mi sono reso conto che oggi nella società c’è un vero bisogno di ritrovare simili dimensioni. Così, da una quindicina d’anni, dedico parte del mio tempo a condividere queste esperienze con chi desidera imparare un modo nuovo e antichissimo di muoversi nella natura.
Come si svolge un’esplorazione-tipo con un gruppo?
Lo scopo è stimolare ciascuno a diventare guida di se stesso. Si parte dal leggere i riferimenti naturali più importanti, il sole primo fra tutti, e poi la geomorfologia, la rete dei corsi d’acqua, le alture, le piante, il vento, la luna e le stelle, e a mettere gli elementi in relazione. Ci si muove anche in ambiti semplicissimi – colline, prati, boschetti – creandosi una mappa mentale del luogo, che si arricchisce lungo la giornata. Se per esempio il terreno ha una particolare geome tria, dovuta alla storia geologica, quella diviene una sorta di bussola naturale per rientrare alla base per una nuova via, o trovare un luogo lontano su cui abbiamo solo poche informazioni. Questo schema può essere ampliato fino a comprendere ambiti vasti centinaia di chilometri.
Con i giovani peruviani formati alla professione di guida sulle Ande hai utilizzato le stesse tecniche?
Sì. Dal 2002, per una dozzina di volte, assieme ai ragazzi dell’Operazione Mato Grosso, nati campesinos ai piedi dei grandi nevados e divenuti guide alpine, abbiamo esplorato nuovi itinerari in quota attraverso intere cordigliere ghiacciate. Una grande esperienza formativa per loro e ancor più per me, che ho trovato compagni foltissimi e amici indimenticabili. Ne sono nate alte vie di varia difficoltà, che contribuiscono al lavoro di questi giovani e li aiutano a non lasciare la montagna per fuggire nelle favelas.
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Il problema sta proprio nel concepire “indiscutibili” i cosiddetti vantaggi.
La tecnologia diviene così da servizio a valore assoluto e dogma.
Ovvero base d’appoggio di noi stessi.
E come il territorio crea la nostra immaginazione, così credere la tecnologia definitivamente un bene, la nostra castrazione creativa.
Penso che per Franco Micheli, affrontare un percorso senza strumenti tecnologici , possa essere anche un gioco, una sfida che ti porta a provare emozioni diverse.
Un pò come andare in una falesia e ripetere i tiri assicurandasi solo con materiali ad incastro. Facendo finta che gli spit non ci siano. Fregandosene della loro indiscussa facilitazione.
Ultimamente mi sto divertendo a farlo. C’è gente che mi guarda strano, commentando: che senso ha visto che li c’è lo spit? Ma a me diverte. E il senso c’è . Lo stesso tiro salito tante volte da sensazioni diverse, che vanno oltre la pura difficoltà tecnica di scalata. Bisogna tirare fuori altre energie.
Alberto, è proprio questo il senso del mio pensiero anche se volutamente espresso in modo da sembrare più oltranzista. Con il progresso e lo sviluppo della tecnologia in genere, stiamo perdendo l’uso dei nostri sensi e questo non è un bene, ma da quì a rinnegare gli indiscussi vantaggi che ha portato per il genere umano (in tutti gli ambiti) mi sembra eccesivo.
“ma da questo a rifiutare o rinnegare ciò che la tecnologia e il progresso ha prodotto è come rifiutare/rinnegare lo strumento stesso che ora stò usando per comunicare e condividere con il mio pensiero.”
non credo che Franco abbia inteso dire questo. Non credo che voglia rinnegare la tecnologia. Caso mai il il nostro diventarne schiavi, il delegare tutto alla tecnologia. Perdendo così la nostra capacità di adattamento, d’istinto, di ragionamento, di orientaento. Se in queste attività ti eserciti: le amplifichi. Se le deleghi: le perdi. E diventi schiavo di un oggetto, di una tecnologia (….anche in mano di altri) che ti condiziona la vita.
In diversi mi chiedono: come? vai in montagna senza il cellulare, e come fai??? Ma sei matto?
Come ho sempre fatto. Con le gambe, braccia e la testa. Poi è chiaro che il cellurare mi può essee anche di grande aiuto. Ma non è l’elemento determinante. Anzi a volte può essere l’elemento fuorviante.
I catalizzatore per riuscire a fare certe cose. Non è la tecnologia ma la nostra capacità di lettura della natura, il nostro istinto. La capacità e la riuscita di creare un rapporto con un essere vivente, sia esso un animale o un’altra persona non può avvenire solo attraverso una tecnologia. Ci deve essere la voglia di incontrarsi. La tecnologia può essere un mezzo, un aiuto. Ma non il fine.
Franco piange la perdita della relazione con la Terra, con la Natura, piange la mortificazione dell’intelligenza del sentire e dell’ascolrare.
Piange la ricerca di saperi e l’accumulo di esperienze, come premesse definitivamente necessarie alla propria autostima.
Piange la mortificazione della frugalità per opera della rincorsa all’opulenza.
Piange la rinuncia alla creatività a favore della standardizzazione.
Il culto, la cultura, della tecnologia, come valore assoluto;
la delega alla tecnologia come inequivocabile vantaggio;
la perdita della consapevolezza delle umane potenzialità;
di questo parla Michieli.
Per carità bell’articolo, ma rinnegare o rifiutare i progressi in campo tecnologico che aiutano e semplificano nella vita di ognuno di noi è come rituffarsi nel passato. Quanti ora arrampicherebbero senza le pratiche “scarpette” o preferirebbero vecchie corde in canapa; chi è propoenso a fare semplici operazioni matematiche senza calcolatrice, chi sarebbe disposto a curarsi solo con le piante (per chi le conosce), rifiutando i moderni medicinali e cure sviluppate con la tecnologia.
Sono ben conscio e favorevole (io per primo) che ognuno deve essere in grado di “cavarsela con le propie possibilità e conoscenze” in qualunque ambito e quindi almeno le conoscenze basilari le deve conoscere; ma da questo a rifiutare o rinnegare ciò che la tecnologia e il progresso ha prodotto è come rifiutare/rinnegare lo strumento stesso che ora stò usando per comunicare e condividere con il mio pensiero.
“ci siamo basati solo su una mappa mentale, cioè uno schema delle forme principali della regione appreso prima di partire su un semplice atlante stradale”
Già lo stesso Michieli con questa sua dichiarazione parte già dal fatto che ha “visualizzato” la mappa del territorio da percorrere, ma questa mappa come e da chi è stata disegnata? quale tecnologia è stat impiegata per rediggerla?
Il proporre di vivere al passato per dire che l’uomo deve tornare ad essere l’elemento centrale con le proprie abilità e capacità, non vuol dire ritornare anche alle stesse condizioni di vita che il progresso e la tecnologia ha portato.
Perdersi consapevolmente ogni tanto ha dei vantaggi non indifferenti..in fondo è un divertimento poco costoso, che ci sottrae alla schiavitù dell’orologio e ci fa scoprire le cose in modo inatteso…Senza mappa poi si vedono almeno il doppio delle cose.
“Una volta che si sia trovato sé stesso, bisogna essere capace di tempo in tempo di perdersi – e poi di ritrovarsi: presupposto che si sia un pensatore. A questo è infatti dannoso essere legato sempre a una stessa cosa.”
Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, 1878
Frase meravigliosa “L’esplorazione che m’interessa è quella che porta a casa un mistero più grande, anziché l’illusione di aver svelato un luogo”. In un mondo in cui se non conquisti anche solo la posizione migliore al banco salumi non sei nessuno, la ricchezza che reca un mistero più intimo è un messaggio da diffondere.
Molto interessante e rivoluzionario il rapporto naturale che ha Franco Micheli con l’ambiente. L’evoluzione, anche alpinistica, credo sia nel cercare un ritorno, il più possibile, alla semplicità con un’uso minimale della tecnologia, in modo da sviluppare il più possibile gli istinti e le capacità umane. Questo per favorire un’incontro con la natura e non un dominio.
Perchè come dice Michieli: ” e il mondo ritorna grande. “
E come mi sembra abbia anche scritto Alessandro Gogna: “è bello perdersi per poi ritrovarsi.”