Metadiario – 246 – Sciabole di luce (AG 2002-007)
Da Levanto, in Liguria, a St. Gallen in Stiria, quasi Alta Austria, con il traffico d’agosto e in un’auto stipata il viaggio è davvero lungo. Nelle ultime decine di chilometri, ormai quasi sera, il cielo era azzurro e le pareti di calcare del Tennengebirge e del Dachstein erano riscaldate da una luce tiepida che poteva solo essere preludio di un tramonto infuocato. Mentre i due gatti (Tarantola detta Tara e Mumu) miagolavano nelle loro gabbiette e quando ormai la resistenza di Elena e Petra era al limite, malauguratamente decisi di accelerare e fare qualche sorpasso in più. Sognavo di fermarmi a Weng, poco dopo Admont, e ammirare la gloriosa parete dell’Hochtor, il cuore roccioso del massiccio del Gesäuse. Senza un valido preavviso, distrutta da un giorno intero di viaggio e con lo stomaco inverso per la mia guida agitata, Elena vomitò sul finestrino chiuso, con risultato disastroso. Con raccapriccio dovemmo fermarci, chi si occupava della bambina, chi tentava di rendere agibile l’auto, chi cercava di dare una ripulita al Mumu, chi doveva fare anche pipì. A tre o quattro metri da noi il traffico turistico continuava indifferente al nostro piccolo dramma.
Con quel ritardo e in quelle condizioni igieniche, fermarsi a Weng per la fotografia all’Hochtor sarebbe stato davvero irriguardoso e foriero di sicura tensione. Così, anche se Elena ormai stava benissimo, tirai diritto. Ma mi piangeva il cuore, anche perché sapevo quanto quelle luci siano sempre rare e preziose. Le cime erano tutte visibili, su un cielo purissimo e nitido, lo spigolo Dibona al Grosser Ödstein era una fuga di roccia ineguagliabile, i basamenti di rocce meno verticali e cosparse di mugo erano selvaggi piedistalli a vere opere d’arte della natura.
Quando Dio volle arrivammo a St. Gallen. Quelli dell’ufficio del turismo ne erano addolorati ma non erano riusciti a piazzarci subito nell’appartamento che ci avevano riservato. Così fummo costretti ad entrare con due gatti nascosti in una gasthof.
– Mi raccomando, Elena. Alla reception, se un gatto miagola mettiti a fare miao miao anche tu con Petra, così non capiscono cosa abbiamo sotto le giacche…
Il mattino dopo pioveva, era domenica e fu difficile farsi capire da quelli dell’albergo: volevamo qualche straccio e almeno un prodotto detergente per l’auto che era in condizioni pietose. Non parlavano inglese, Guya si mise ad imitare Elena che vomitava mentre io ripetevo “Auto… sauber machen”. Dopo la pulizia sommaria potemmo finalmente rinascondere i gatti e partire alla volta del nostro appartamento, dove ancora una volta fummo costretti a ripetere la scena dell’occultamento animali.
Cercammo di entrare in confidenza con la padrona di casa, Rosemarie Loidl, che abitava sotto di noi, una signora d’età indefinibile che non poteva passare inosservata. Allorché l’appartamento ci fu presentato, vedemmo che era tenuto con igiene maniacale, in un ordine vagamente nazista. Pensammo a come due gatti avrebbero ridotto quell’ambiente dove si poteva tranquillamente mangiare per terra. Ma non vedevamo soluzione. E infatti già il giorno dopo Rosemarie si era accorta della presenza di Mumu e Tara. In nostra assenza era entrata nell’appartamento e possiamo solo immaginare il suo orrore… Ricevetti una telefonata dall’ufficio del turismo: ci avvisavano che Rosemarie aveva sostanzialmente chiesto il nostro allontanamento e che ci stavano cercando un’altra sistemazione. Frau Loidl ci accolse molto freddamente, al contrario del nipotino, che era presente alla scena e manifestava evidente interesse per le disabilità di Tara. Per sgelare la situazione Guya si mise a parlare in italiano con il bambino, manifestando simpatia e affetto per lui. Nel frattempo magnificava la casa così bella e la capacità della padrona di tenerla così perfetta. In più, dopo l’offerta di un primo assaggio, regalò loro l’intera confezione di canestrelli, i dolcetti liguri dei quali prima della partenza da Levanto la nonna di Petra ed Elena ci aveva gentilmente omaggiato.
Tanto piacquero i canestrelli a nonna e nipote che già la sera seguente Frau Loidl ci fece dono di una torta squisita fatta da lei, cui fecero seguito altre nei giorni dopo, fino alla nostra partenza. Nessuno fece più cenno al nostro cambio di abitazione, anzi al momento dell’addio ci fu da entrambe le parti il sincero dispiacere che la settimana assieme fosse purtroppo finita.
Ma in quella domenica 4 agosto, sul lato meteo, eravamo solo all’inizio di una settimana di previsioni sconfortanti, altrove perfino tragiche. E continuò per il giorno intero, fino a che alla sera non tornò qualche raggio di sole, in un’atmosfera di arcobaleni e piogge in carico. Ci precipitammo a Weng, nella speranza di avere la grazia di assistere allo stesso spettacolo perduto la sera precedente. Il cielo sembrava impazzito, ancor più le nuvole che correvano a coprire il sole e scoprirlo. Sciabole di luce fendevano l’aria lucida d’umidità, ora era il paese ad essere illuminato, ora una parte di prati, talvolta per qualche momento perfino i basamenti rocciosi della grande parete: che però, nella parte sommitale, rimaneva ostinatamente dietro una cortina di spessa nube grigia, che mai giungeva ad illuminarsi, neppure per poco. Un’attesa vana.
Poi per altri quattro giorni non vi fu speranza. Ci dedicammo a quel poco turismo che si può fare sotto la pioggia. Nel frattempo facevo la conoscenza di Sepp Unterberger, vivace omone, guida alpina, e davvero simpatico. Andai a trovarlo nel suo ufficio di Weng, futura sede del nuovo Parco del Gesäuse. Chiacchierammo, assieme al fotografo Niko Polner e al futuro direttore del parco. Questi, al mio nome, si animò tutto dicendo di aver ripetuto la mia via sulla Sud della Marmolada. La conversazione divenne ancora più piacevole: loro erano interessati al perché mai io mi trovassi tra montagne così lontane che però da tempo sognavo, io ammiravo l’entusiasmo del loro team per il progetto-parco e facevo un sacco di domande. Non fu l’unica visita che feci, anche perché continuavo a ronzare come un moscone attorno a Weng in attesa delle sciabole di luce, come un gatto che aspetta agitando la coda.
La sera del giovedì 8 agosto ero felice, il tramonto prometteva d’esserci e in più per il giorno dopo davano bel tempo, così ci eravamo messi d’accordo con Sepp di andare a scalare da qualche parte. Non vedevo l’ora. Verso le 19.30 le mie preghiere furono esaudite. Mi trovavo nei pressi della Gesäuse Eingang Station, la piccola stazione ferroviaria proprio all’inizio delle gole che l’Enn si è faticosamente scavato alla base dell’Hochtor. Sbrendoli di nebbia danzavano veloci su zoccoli di mugo, rincorrevano ed erano rincorsi. Con uguale affanno le cime della cresta sommitale un po’ si stagliavano contro un cielo blu elettrico, un po’ si celavano, e mai tutte assieme, dietro a qualche nuvola più insistente. Sapevo che quella era la volta buona, bastava attendere: e il momento glorioso ci fu.
Mi ero comprato le 832 pagine della guida Gesäuseberge, di Willi End. Nelle giornate piovose avevo avuto modo di sfogliarla, alla ricerca dell’itinerario più significativo, che non fosse però quello di Angelo Dibona. E siccome la guida era del 1988 ne comprai un’altra, un aggiornamento con le vie moderne. A quel punto mi perdevo, la fantasia si sbizzarriva ormai senza più aggancio con la realtà e con la concretezza di una settimana di pioggia che aveva reso la parete nord uno specchio viscido e sgocciolante. Avrei voluto salire la classica Nord del Dachl, la via del 1931, ma assieme a Sepp decidemmo che non era il caso. Il venerdì mattina un mare di nebbia fantastico invadeva il fondovalle mentre salivamo le serpentine del sentiero per la Buchsteinhaus. Avevamo ripiegato su una più difficile via moderna, chiodata a spit: le rocce più verticali e strapiombanti della parete sud del Grosser Buchstein davano una buona garanzia di rapida asciugatura. La via König Löwenherz si rivelò un’ottima scelta, anche per il grado di allenamento di entrambi, non perfetto. La via era stata aperta da Mario Strimizer e Andi Hollinger tra l’agosto 2000 e il maggio 2001.
Prendendoci il tempo per fare delle fotografie, salimmo a comando alternato sulla parete tutta per noi, senza preoccupazioni, serenamente e perfino in libera arrivammo alla croce della vetta in un tempo assai veloce. Intanto le prime nuvole cominciavano ad invadere la visuale: io mi godevo il momento seduto, erano almeno 33 anni che desideravo essere su queste montagne e, anche se non avevo appena salito la via dei miei desideri, ugualmente ero felice di essere lì, con un compagno di cui avevo la piena fiducia e che mi stimava.
In quel momento, senza rumore, sbucò alle mie spalle una ragazza che, da sola, aveva appena salito lo spigolo ovest, la via Pfannl, II e III con un passo di III+. Era carina e sorridente: dopo averci salutato, si dedicò a dare lunghe sorsate alla sua borraccia. Tornati ai nostri zaini, che avevamo lasciato più in basso all’uscita della via, ci preparammo per scendere lungo la via ferrata che, traversando in diagonale tutta la parete sud, riportava in basso fungendo da via normale. Sepp e la ragazza incominciarono a chiacchierare tra di loro, mentre scendevamo velocemente. Lei era agile, sembrava non accorgersi neppure di fare evoluzioni in piena esposizione. E rideva, alle battute di Sepp. Mi sembrò anche che questi fosse un po’ troppo interessato a lei. Così feci loro una foto, sorridenti: subito dopo dissi che l’avrei spedita alla moglie di lui. La risata fragorosa di entrambi ebbe l’effetto di far accettare anche me nella nuova comunità, e così durò fino al rifugio e oltre, nelle ore che aspettai per un altro eventuale bel tramonto (che non ci fu). Poi lei se ne andò a valle, non prima di aver dato il suo numero di telefono a Sepp, il quale già vagheggiava di portarla a scalare chissà dove. Io invece pensavo al giorno dopo (10 agosto), quando avrei salito da solo nelle prime ore del bel mattino verso l’Ennstalerhütte e la vetta dell’erbosa e panoramica Tamischbachturm 2035 m. Ancora una volta l’Hochtor e il Gesäuse sarebbero stati là ben visibili, alla portata della mia fantasia incessante.
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Allora, andiamo per ordine: nel maggiolino di mio zio Giorgio, io e mia cugina Roberta vomitammo più volte nell’incavo del finestrino con effetti devastanti. D’altronde, ancora oggi, se salgo su una Volkswagen, sento quell’odore e mi si allertano le budella, nonostante abbia avuto un Caravelle T3, che però si era impregnato dell’odore di cipolla che avevano lasciato due autostoppisti polacchi che avevo caricato dal rifugio Auronzo a Misurina nell’agosto 1990. Dopo la caduta del muro le Dolomiti erano state prese d’assalto, tanto per cambiare, dai neo-liberi alpinisti ed escursionisti dell’est che arrivavano perlopiù a piedi o con sgangherati bus, in cui dormivano sui passi, oppure con le sempre rotte Trabant a due tempi. Che tempi! Ripetizione voluta.
Poi l’atteggiamento di Frau Liodl che da nazista diviene latino è un chiaro segno che noi viviamo meglio anche se non puliamo casa con il panzerfaust. Che uccide tutti i germi, esseri umani compresi. Che sono i più grossi.
Poi ancora la canoa Grabner, stessa marca di quella che usiamo con Lorenzo Nadali per attraversarci tutta la Patagonia. Viva la figa!