Separare i terreni del dry tooling e dell’arrampicata
Per la gran parte delle persone di questo mondo alpinismo e arrampicata sono attività innaturali: noi che ci siamo dentro pensiamo al contrario a quanto è naturale la scalata di qualunque terreno.
Ben avevano visto gli umoristi della Settimana Enigmistica quando disegnavano l’alpinista non attaccato alla roccia con le mani, bensì tramite la piccozza.
Con il dry tooling abbiamo non solo realizzato il sogno degli umoristi, l’abbiamo anche raddoppiato, visto che gli attrezzi sono due, più i ramponi, puntuti davanti, sotto e perfino dietro al tacco.
Drytooling in Valle Spluga, Fabio Salini sul Candelino della Condotta forzata, via di sinistra (M7)
Guardando arrampicare con questa tecnica, che evidentemente risolve una gran parte di terreno fino a qualche anno fa trascurato o impossibile, si ha l’impressione di assistere a uno spettacolo di raffinata bravura, di eleganza, direi anche di grande novità.
La tecnica del dry tooling, nata sugli strapiombi ghiacciati di falesie prima solo repulsive, trasportata poi sulle grandi montagne alpine ed extraeuropee, ha portato a uno sviluppo incredibile delle capacità umane di fare performance veloci, efficaci, risolutive di problemi neppure immaginabili nel secolo scorso.
Eppure… provate a pensare alla punta affilata della piccozza che più o meno delicatamente viene inserita alla radice di una tacca rocciosa, in un fessurino, in un buchetto. Davvero si pensa che il ripetuto passaggio non provochi un significativo allargamento della sede? E’ evidente che le micro-rotture sono da mettere in conto.
Nello Yosemite alla fine degli anni ’60 il ripetuto inserimento dei chiodi da roccia nelle fessure provocava dopo anni il vistoso allargamento delle stesse. La fessura dello Shield, inizialmente da attrezzare con rurp, alla fine, del tutto deturpata, accettava chiodi di ben maggiori dimensioni. Quando infine ci si accorse dei danni ci fu la rivoluzione dei nut, stopper ed excentric, accompagnata dalla filosofia dell’hammerless.
Yosemite: fessura visibilmente deturpata dall’inserimento ripeturo di chiodi
Dato che il dry-tooling, come abbiamo visto, presenta gli stessi problemi, quale potrà essere la soluzione?
Sulla via dello Shield al Capitan (Yosemite Valley)
Non c’è solo il problema ambientale della mutazione della superficie rocciosa, c’è anche quello dell’alterazione delle difficoltà, e quindi delle graduazioni. Se una tacca, sotto le ripetute e taglienti pressioni, si rompe e scompare è probabile che la difficoltà del tiro aumenti; se invece un buchetto viene letteralmente allargato o approfondito quando aggredito dalle punte, è probabile che la difficoltà diminuisca.
La prima misura, direi urgente, per andare incontro a un’etica oggi trascurata dai più (ma per fortuna presente al fondo della coscienza collettiva se non di quella individuale), è la decisione, la presa di posizione riguardante i settori dedicati al dry tooling. Credo che sia evidente a tutti che una stessa via non possa servire all’arrampicata libera e sportiva e nel contempo al dry tooling, come giustamente denuncia Paolo Caruso.
E’ solo un primo passo, ma è necessario. Come si sta facendo strada la divisione tra i settori trad e i settori sportivi in arrampicata, allo stesso modo dobbiamo dividere i settori adatti alla libera da quelli adatti agli attrezzi.
postato il 1 maggio 2014
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Favresse, buon per lui, è un tipo invidiabile. Certo non deve avere l’assillo del lavoro per campare. Quindi si può concentrare anche su certe bischerate.
Caro Maurizio, è vero che spesso capiti da queste parti, ma probabilmente ti sfugge la morfologia dell’ambiente, come ti sfugge il motivo della sterile ed inutile polemica di Favresse che per arrampicare può pure andare in altri siti visto che non mancano.
La falesia “incriminata” è nata per il dry-tooling e vi fu svolto anche un meeting (2004-2005… non ricordo più con precisione…). E’ un muretto largo poche decine di metri spesso bagnato, dove chi arrampica ogni giorno (da queste parti e no) ci viene solo per cercare un posto qualunque da abbandonare dopo una settimana di ferie. Si era creato uno spazio che fino ad allora nessuno avevea assolutamente pensato di dedicare all’arrampicata, visto che le falesie ad Arco non mancano e spesso sono tappezzate di tiri che il 99% dei climber non solo fa fatica a pensare di arrampicare ma sui quali mai metterà le mani…
Oggi, dopo un decennio, dove questa attività che sembrava un’innovazione si è rivelata un fuoco di paglia che conta pochissimi adepti, la falesia in questione è stata trasformata per l’arrampicata con le mani, vista anche la difficoltà di fruizione a causa del proprietario del terreno adiacente che spesso (a me è capitato due volte) creava problemi al passaggio delle persone nei pochi metri che danno accesso alla parete.
Ora, per la serenità di Favresse che ripeto può sempre andare nell’Oregon a cercare qualcosa d’arrampicare visto che impegni di altro tipo non lo assillano, dopo un momento di gloria, questa parete risentirà come tante nei dintorni dell’abbandono e del disinteresse, visto che strapiombi da 15 metri da salire ce n’è a bizzeffe da queste parti…
Qualche anno fa il famoso arrampicatore belga Nicholas Favresse aveva passato un po’ di mesi ad Arco ed era capitato in una falesia che veniva utilizzata in inverno dai dry-tooler. Indignato aveva scritto una lettera. Parlandone insieme (stavo realizzando un’intervista per un magazine) gli avevo chiesto il permesso di pubblicarla su un noto forum di montagna, pensando di sfondare una porta aperta. Mi sembrava una cosa talmente ovvia separare gli ambiti…. Invece si era scatenato un putiferio, una specie di rissa mediatica dove io chiaramente difendevo le ragioni di Favresse e altri, anche persone di cui avevo sinceramente stima, che prendevano le parti opposte. Evidentemente da noi molte cose che sembrerebbero ovvie non lo sono affatto. La vicenda mi aveva procurato molta amarezza, incrinando rapporti di amicizia con persone con cui avevo arrampicato e vissuto delle belle giornate. Al punto che mi ero chiesto se valesse la pena battersi per degli ideali come quando avevamo 20 anni…