Su Scandere ‘81-’82 Enrico Camanni scriveva:
“La letteratura di montagna ha ormai assunto una sua fisionomia ben definita. Perché il quadro di lettura possa essere completo, ci è sembrato interessante (tentativo in precedenza raramente intrapreso o comunque liquidato in termini eccessivamente sbrigativi) sondare il rapporto tra alpinismo e letteratura, o per meglio dire studiare alcuni personaggi chiave alla luce dei loro scritti. Sono così nate numerose domande a cui non sempre è facile rispondere. Come scrive l’uomo alpinista della sua epoca? Come incide con il suo stile e il suo pensiero sull’alpinismo degli anni in cui vive? Quali alpinisti scrittori hanno saputo lasciare una traccia più profonda? Una trattazione organica e approfondita avrebbe richiesto molte pagine a disposizione, nonché una preparazione specifica da parte nostra. Mancando entrambi questi presupposti ci si è limitati innanzitutto a un periodo storico e a un’area geografica ben definiti: l’Italia dal secondo dopoguerra a oggi.
Inoltre, più che analizzare compiutamente il linguaggio e le sue forme di espressione, ci si è accontentati di avvicinare alcuni alpinisti con la caratteristica comune di aver trasposto sulla carta la loro esperienza: abbiamo assunto questa caratteristica come elemento di conoscenza dei personaggi e della loro epoca storica. Ne è risultato il lavoro qui esposto, che potrà apparire accademico o pretenzioso, ma che potrà anche rappresentare un semplice e concreto punto di partenza per chi è interessato all’argomento”.
Walter Bonatti al campo base dopo la salita al Gasherbrum IV nel 1958
Spunti di letteratura e alpinismo – 1 (1-2)
(Il crepuscolo degli eroi?)
di Ulisse Jacomuzzi e Nanni Villani
(da Scandere 1981-1982)
“Un eroe non può essere un eroe se non in un mondo eroico (Nathaniel Hawthorne)”.
Nel 1948 un ragazzo di 18 anni entra a far parte della Sezione alpinistica di Monza: nemmeno otto mesi più tardi compirà la prima ripetizione italiana della via di Cassin sulla parete nord delle Grandes Jorasses. Quel ragazzo è Walter Bonatti, e la salita alle Jorasses rappresenterà il significativo ed emblematico avvio di una carriera alpinistica alla quale può essere accostata solo quella di un altro grandissimo, che lo stesso Bonatti aveva indicato quale prosecutore della propria esperienza, Reinhold Messner. I due possono essere avvicinati tra loro non tanto per somiglianza di carattere e di intenti ma, più idealmente, perché entrambi hanno saputo demolire il limite dell’”impossibile”, quale questo era stato individuato e determinato nelle rispettive epoche storiche (pur non lontane cronologicamente). Bonatti passa sulla Est del Grand Capucin dimostrando a tutti che anche sul granito si possono affrontare difficoltà e usufruire di tecniche quali quelle sperimentate sino ad allora unicamente sulle Dolomiti. Poi bivacca, sebbene involontariamente, ad ottomila metri sul K2, sconvolgendo le teorie sulla possibilità di sopravvivenza umana in condizioni estreme. Seguirà la salita sul Pilastro del Dru, dove per la prima volta difficoltà sconosciute e presumibilmente di ordine superiore saranno affrontate in solitaria. Infine, limite che forse non sarà più superato, Bonatti si ritira dall’alpinismo quando ancora è in piena attività, dopo aver affrontato con la Nord del Cervino quella che per un alpinista rappresenta il concentrato di difficoltà: diretta, solitaria, invernale. Lo stesso Bonatti indica quella che potrebbe essere la prosecuzione della sua opera, quando scrive «I limiti che ho raggiunto seguendo la tradizione sono stati descritti in queste pagine, ed io stesso, per portarli avanti (forse non brillo di modestia ma l’obiettività impone chiarezza), dovrei raggiungere una nuova dimensione: l’altissima quota. Bisognerebbe quindi che realizzassi sull’Himalaya ciò che ho fatto sulle Alpi, ossia dell’alpinismo a ottomila metri; incomincerei magari a scalare un colosso senza bombole d’ossigeno e senza campi prestabiliti da un’equipe ma con semplici bivacchi; tenterei poi lassù scalate solitarie; quindi solitarie e invernali insieme; infine solitarie e invernali ma per le vie più difficili (I giorni grandi, pag. 181)».
Con queste parole, Bonatti afferma senza mezzi termini che se a livello di difficoltà anche sulle Alpi molto resta ancora da fare, la sua scalata al Cervino ha posto termine, sulla catena alpina, alle possibilità nel campo dell’ideazione dell’impresa capace di aprire nuovi orizzonti alla pratica alpinistica. È quasi incredibile come Messner incarnerà, circa dieci anni dopo questo scritto, l’ideale già espresso da Bonatti, nel superamento dell’impossibile inteso non tanto quale limite tecnico, ma quale barriera nell’ambito dello sforzo fisico e della prova psicologica.
Come detto, lo scalatore monzese arriva all’alpinismo nell’immediato dopoguerra, e questo è dato biografico non privo di importanza, aiutando a capire meglio e in maniera più fondata l’ideale alpinistico di Bonatti. Sono gli anni della ricostruzione nei quali, dopo il tragico periodo bellico, si pensa con fiducia ed entusiasmo a un avvenire migliore.
Walter Bonatti nel suo studio a Courmayeur
Si creano storicamente le condizioni perché in tutto l’occidente il boom economico permetta un notevole salto qualitativo nel livello di vita, portando con sé un progresso illimitato. Dopo anni di privazioni e sofferenza i figli del dopoguerra mirano alla tranquillità economica, alla soddisfazione di necessità (o presunte tali) mai appagate precedentemente, e l’ideale generalizzato è quello di una vita agiata, garantita: ognuno sa ciò che vuole raggiungere (anche se, spesso, tale volontà si dirige verso oggetti e modelli imposti e imbellamente, acriticamente accettati, in un’euforia del “tutto è possibile”), ed è convinto di poter toccare la propria meta aiutato dalla propria forza e da una condizione in cui il progresso tecnico sembra promettere l’affrancamento dell’uomo dalla fatica e dalla sofferenza: la felicità è a portata di mano come mai prima di allora. Bonatti è partecipe di questa situazione, ma ne vive anche tutti i limiti e le contraddizioni: figlio di questa storia e di questa mentalità, se ne condivide il sostanziale mito progressista e ottimistico di spavalda sicurezza, di incrollabile fiducia in sé e nel mondo, Bonatti non accetta la acquiescienza, la rilassatezza, l’eccessiva meccanizzazione che spesso accompagna tale epoca d’oro, rifiuta la massificazione e lo stritolamento dell’individuo a cui spesso questa porta, facendo sua una mentalità tutto sommato “pionieristica”, dove i valori dell’ardimento e dell’osare servono, in contrasto con una quotidianità appiattita e banale, a giustificare una esperienza “limite”, autentica e volontariamente eversiva.
Questa mentalità trova la sua più evidente esplicitazione nella sua filosofia alpinistica, quando con sicurezza e a tratti netti, definisce quello che egli intende come vero alpinismo: «Anche se l’eccessivo e decadente virtuosismo di alcune scalate moderne può confondere e disorientare un po’ tutti, il vero alpinismo è ben altra cosa: soprattutto un motivo di lotta e conquista inferiore, di affinamento e godimento spirituale che ha quale magnifico e ideale campo di azione la montagna (Le mie montagne, pag. 8)».
Egli stesso poi giunge addirittura a stabilire con esattezza le specifiche imprese che possono (e dovrebbero) nobilitare una carriera alpinistica: «… considero l’incomparabile triade: Nord Grandes Jorasses, Nord Eiger e Nord Cervino come la massima prova di maturità alpinistica, il vertice dell’ardimento umano inteso nel senso alpinistico assoluto (Le mie montagne, pag. 11)».
Sicuro dei propri principi, Bonatti scrive ancora: «… c’è chi considera una profanazione piantare un chiodo nella montagna. Paul Preuss sarà un simbolo di questi moralisti (I giorni grandi, pag. 67)», senza però accorgersi di essere lui stesso altrettanto moralista quando, tracciando una breve storia dell’alpinismo, afferma: «La “meccanizzazione” segna infine la terza ed attuale tappa storica dell’alpinismo, e ne sono protagonisti molti degli odierni scalatori. Spesso infatti, nel bagaglio di questi atleti della montagna, figurano autentici attrezzi da costruzione: chiodi a espansione o a pressione, trapani, e poi amache… ancora una volta il tecnicismo ha sopraffatto l’uomo mortificandolo (I giorni grandi, pag. 68)».
Malgrado ciò l’azione di Bonatti sarà quasi rivoluzionaria nella sostanza rispetto ai convincimenti della società che lo circonda, ricercando valori che con la esasperata produttività e il cinico utilitarismo non hanno nulla a che spartire, ponendosi anzi in una posizione antitetica rispetto ad essi; come afferma nella prefazione a Le mie montagne: «L’alpinismo non ha e non potrebbe avere né platee né industrie che lo sorreggono, non si presta a nessun genere di facile sfruttamento commerciale, ma appunto per questo esso rifulge maggiormente nella scala dei valori umani (pag. 10)». In un articolo intitolato Ma non è pazzia?, lo scrittore Dino Buzzati raccoglie le reazioni della gente che incontra a Milano subito dopo la tragedia del Pilone Centrale: «Perché non si decidono a proibire imprese di questo genere? Che costrutto hanno queste pazzesche scalate? Che vantaggio danno alla collettività?». Domande e prese di posizione che lo porteranno a pensare che «In un mondo utilitaristico come il nostro, le audacie della montagna fanno spesso l’impressione di una cosa fuori tempo, inutile, assurda, inutilmente pericolosa». Ma proprio a partire dalla supposta gratuità dell’azione alpinistica, Bonatti viene a delineare un nuovo (o, comunque, inusitato) tipo di eroismo, del quale si erige a modello: «Svincolato ormai dalle strutture della moralità classica, l’eroismo assume un altro profilo. A provocarlo sono le frustrazioni di una civiltà tecnicistica e la ribellione a una società collettivistica, una società felice quasi di potersi confondere con tutti “gli altri” e soddisfatta di sembrare piuttosto che essere. E inoltre il rifiuto dei disinganni e delle bassezze a generare questa sorta di eroismo ed è anche il rigetto di quella sicurezza promessa dal progresso (I giorni grandi, pag. 66)». In realtà dell’eroismo classico sono conservati i tipici caratteri dell’eccezionalità, dell’unicità, della forza di carattere, della ferrea e incrollabile volontà, caratteri esaltati proprio dal dichiarato rigetto della sicurezza. Lo stesso personaggio «solitario» che Bonatti è, e che ha coltivato perentoriamente come immagine, rivela in questo aspetto una volontà di rivolta o, meno intensamente, di diniego di certi valori socialmente proposti (imposti): solitudine contro massificazione, dove il primo dei due termini è tuttora intriso di un significato di naturalità, di autenticità, di realizzata e piena umanità.
Si spiega in questi termini (di per sé interlocutori), da un lato l’assunzione di Bonatti a mitico eroe degli anni Sessanta (e di alpinista modello per la grande platea); dall’altro il difficile rapporto con una società fortemente condizionata dalla stampa e, in genere, dai «media», pronta tanto a innalzare sui massimi altari patrii quanto a distruggere il mito, ad abbandonare il personaggio. L’uomo della strada si immedesima con l’eroe, ne condivide le vittorie. Ma il rapporto è sempre di amore-odio: così può essere comodo e utile fare assurgere il personaggio a figura al di fuori della norma, assolutamente inimitabile e inattingibile, affinché il suo esempio non diventi scomodo, e possa, in fondo, essere in qualche modo cancellato. I giornali si fanno portavoce di questi atteggiamenti, e puntualmente accuseranno Bonatti, dopo ogni tragedia, di essersi salvato, lui in persona, dopo aver portato alla morte esseri miseramente umani, che avevano avuto la colpa di farsi trascinare in imprese disperate per un non-eroe!
La meschinità di queste accuse lo porterà ad accentuare sempre più il proprio già marcatissimo individualismo che diventa anche, sofferta solitudine. Nel 1961, in Le mie montagne scrive: «tolti i giorni di festa che regolarmente trascorro in montagna sia col bello che col brutto tempo, tutti gli altri furono per me ugualmente vuoti e insignificanti, fatti sempre e solamente delle solite cose, alle solite ore, nel medesimo modo e nell’immutabile ambiente. Quanto triste e inutile è per un uomo il vivere così! Se penso che la maggior parte del mondo ne è vittima, provo un grande senso di paura (pag. 50)». Dieci anni più tardi, ne I giorni grandi, il suo individualismo diventa ancora più disincantato (e drammatico), in parte inquinato dalle estenuanti polemiche: «Molti spiano in me soltanto il più piccolo fallo, il più piccolo peccato, la più sottile fessura in cui far leva per rendermi la vita amara. Forse agiscono così soltanto per provare a se stessi che io pure sono un essere umano. E lo sono, infatti, seppure nel mio modo di vivere sia solo, e spesso non capito (pag. 157)».
Ci pare inutile ripercorrere le tappe della carriera dell’avventura alpinistica di questo cavaliere solitario. Le più significative sono già state ricordate, ma in ogni caso molte delle imprese dello scalatore monzese (peraltro bergamasco di origine) segneranno momenti importanti nell’esplorazione delle pareti più impegnative di varie zone alpine ed extraeuropee, anche se l’azione di Bonatti si svolgerà principalmente nel massiccio del Bianco con tutta una serie di impegnativi itinerari tracciati spesso in compagnia del viareggino Cosimo Zappelli (Est e Nord del Pilier d’Angle, invernale Nord delle Grandes Jorasses). Per quanto paradossale possa sembrare se confrontato con quanto detto sinora, Bonatti non ama il rischio, o per meglio dire il rischio non calcolato. E così, in linea con questo atteggiamento, non solo si sottopone ad una meticolosa preparazione fisica e psicologica, ma nello stesso tempo studia attentamente le pareti che ha intenzione di attaccare, in particolare fotografandole quando queste, dopo le prime nevi, mettono maggiormente in risalto i loro rilievi, arrivando in certi casi, tramite opportuni ingrandimenti, quasi a valutare certi passaggi prima ancora di doverli affrontare. Ma tutto ciò non può certo sminuire il valore dell’avventura: Bonatti cercherà sempre il rischio massimo, mai il rischio eccessivo (e inutile). Walter Bonatti narra le sue vicende in due volumi: Le mie montagne e I giorni grandi. Se il personaggio Bonatti che esce dalle pagine dei due libri è lo stesso, o per meglio dire se chiara e coerente ne è l’evoluzione umana e alpinistica, assai diversa è la qualità dello scritto. Le mie montagne è un testo edito nel 1961, quando poco o nulla di interessante era stato pubblicato nel campo della montagna dopo la notevolissima opera di Giusto Gervasutti Scalate nelle Alpi. Bonatti, che risente in parte della concezione alpinistica del «Fortissimo», ne mutua involontariamente anche lo stile, sviluppandone in particolare più che certi toni enfatici o retorici, una prosa scarna ed efficace, sebbene spesso appesantita da una drammaticità in certi casi ossessiva.
Il tono drammatico
In Bonatti tutto è sempre e irrimediabilmente terribile, la fame, la sete, le difficoltà, le condizioni del tempo quasi sempre infernali: «… traverso a destra per circa quattro metri sino a raggiungere un buon posto di riposo, quindi, assicurata la corda ad un chiodo, mi abbandono ad essa in preda a una forte crisi nervosa in cui non mi è possibile contenere un pianto dirotto (pag. 15)». «La lingua è gonfia e ci da la sensazione che la bocca non riesca più a contenerla, e brucia, brucia maledettamente. Ad ogni tentativo di formare saliva, ne consegue un’irresistibile tosse che irrita ancor più la faringe; è certo che la nostra salita ha più le caratteristiche di un calvario che di una scalata di sesto grado (pag. 42)». E a proposito del Pilastro Rosso, descrivendo una fitta nevicata: «Credo che soltanto un condannato a morte potrebbe comprendere la tragedia da me vissuta quella notte… Mi vedevo ora appeso alle corde nel vuoto, su pareti impossibili e sbattuto dalla tormenta, ora travolto dalle valanghe, ora precipitato in un crepaccio… Quante volte nella notte fummo costretti a raspare via con le mani la neve dal terrazzino che in breve veniva colmato dalla tormenta sempre più furiosa! E quante volte nella notte scambiandoci le idee riuscimmo a malapena a trattenerci dal gridare tutto il nostro terrore! Poi venne l’alba lattiginosa ma la tormenta continuò serrandoci ancor più in una grigia ovatta. Accovacciati nei sacchi continuammo ad attendere non so che cosa, incapaci di prendere una decisione, forse pensando che per morire non c’è premura (pag. 233)». Bonatti riesce comunque a coinvolgere completamente, anche a distanza di venti anni dalla stesura del racconto, il lettore nella sua atmosfera, rendendolo partecipe degli stati emotivi, delle sensazioni provate. Non si può non avere il fiato sospeso leggendo le pagine dedicate alla salita solitaria del Pilastro del Dru. Bonatti arriva in una zona chiusa da strapiombi in tutte le direzioni, che non lasciano possibilità né di salita né di discesa; dopo un momento di totale abbattimento, lo scalatore inizia una serie di lanci di corda verso scaglie di roccia distanti da lui parecchi metri. Dopo moltissimi tentativi riesce nella manovra: «Ritento più volte, finché la piovra si aggancia di nuovo. Stavolta, tirando, resiste. Ma io dò strattoni laterali. Quando sarò appeso alla fune verticalmente sotto le scaglie, i nodi e gli anelli non si sfileranno dalla presa?… Un’ultima snervante esitazione, un’ultima intima invocazione di salvezza e quando un tremore incontrollabile incomincia a invadermi, prima che le forze mi vengano meno, chiudo gli occhi per un attimo, trattengo il respiro e mi lascio scivolare nel vuoto aggrappato con le sole mani alla corda. Per un istante ho la sensazione di precipitare insieme alla corda, poi il volo in avanti lentamente si smorza e quasi subito sento che sto oscillando indietro: l’ancoraggio ha tenuto! (pag. 128)».
L’alta drammaticità del racconto riesce a coinvolgere il lettore non solo per l’estrinseco carattere di difficoltà e di estrema pericolosità che rappresenta, ma per la valida e secca presentazione che riesce a farne l’autore, per la comunicatività che riesce a infondergli. Può essere interessante, a questo proposito, notare come Bonatti sbrighi in poche righe la descrizione di salite, seppure estreme, se queste non sono state, per così dire, nobilitate dal cattivo tempo. Ciò che non è difficile, precario, disagevole, comunque caratterizzato da elementi di esasperazione (e di disperazione) non interessa Bonatti: e ciò deriva direttamente dal suo credo alpinistico che pone la sofferenza come stato d’animo privilegiato. In un articolo comparso su La Stampa Bonatti, dopo aver descritto i patimenti e le privazioni a cui ci si deve sottoporre in una scalata, scriveva: «è dalla sublimazione di queste sofferenze, di questi dispiaceri, che scaturiscono quei valori ideali che formano la ragione, l’essenza stessa dell’alpinismo. Se vogliamo, il piacere di scalare è per lo più retrospettivo e potremmo anche chiamarlo piacere del trionfo, trionfo su noi stessi prima che sulla montagna, tanto più intenso quanto maggiori sono state le difficoltà superate».
Il Gasherbrum IV, una delle grandi conquiste di Walter Bonatti
Montagna scuola di vita
La vita è sofferenza, e poiché la montagna fa soffrire, diventa automaticamente, logicamente, una scuola di vita, dove l’uomo impara a lottare a sopravvivere; tutto ciò nelle sue stesse parole: «Io credo fermamente nell’insegnamento della natura, perciò sono convinto che la montagna con le sue bellezze, le sue leggi severe, costituisce oggi ancor meglio di ieri una delle più valide scuole del carattere: perché lassù si impara soprattutto a soffrire (Le mie montagne, pag. 7)». Affermazioni queste che d’altronde rientrano perfettamente in tutto un modello di letteratura alpinistica che da sempre assume questi caratteri di fortezza, di saldezza, di unicità, di epicità, di naturalità (non è un caso che molto spesso in bocca ad alpinisti, e pensiamo come esempio classico a Lammer, ma anche più vicino a noi, a Messner, si trovi il richiamo a Nietzsche, il filosofo del superuomo, del superamento della normalità, dell’esaltazione di una vita vissuta, pienamente, assunta con forza in tutti i suoi rischi e in tutte le sue incertezze). In queste parole in effetti, al di là della retorica che può ingombrarle, sta tutta la grandezza del personaggio, e la sua proponibilità come modello eroico, che trova la forza con l’azione alpinistica di reagire a una situazione esistenziale che vede l’uomo spaesato nel mondo, incapace di trovare direzioni e certezze dalle quali fare iniziare una azione significativa. Ma nello stesso tempo tali parole chiariscono anche i limiti di questo uomo, per il quale l’arrampicare rischia di diventare il mare nel quale affogare le proprie frustrazioni e delusioni, il luogo della rimozione, l’attimo in cui si è finalmente liberati dal pensare, fonte di ogni manifesta contraddizione.
Ma forse limite ancor maggiore è quello di non dare praticamente alcun valore a tutto ciò che nella vita non concerne, direttamente o indirettamente, il suo esclusivista rapporto con la montagna: la vita di tutti i giorni è vuota e priva di
qualsiasi stimolo (ma non sarà incapacità di vederli?), il rapporto con la donna non è mai neppure accennato (ma non è anch’esso natura?), il ricordo dei compagni di cordata ha sempre più l’apparenza di uno sforzato e dovuto omaggio che non quella di partecipe sentimento. Non si tratta forse tanto di uno studiato atteggiamento da super-uomo (Bonatti non ha mai cercato di contrabbandare, per compiacenza, una sua immagine costruita), quanto della drammatica incapacità di costruire e vivere rapporti diversi da quelli insoddisfacenti, superficiali, di cui molti si accontentano. Se Le mie montagne non vanno molto al di là dell’aspetto cronachistico, seppure curato, nel successivo libro pubblicato nel 1971 I giorni grandi, Bonatti dimostra di aver imparato a maneggiare la penna anche nell’espressione di idee e sentimenti, tanto che qualcuno malignamente vorrà insinuare che questo secondo testo sia per buona parte opera di Dino Buzzati. Se per certi versi, come si coglie in pieno nel capitoletto intitolato «Alpinismo» sorprendente è la capacità nello scrivere ed anche la preparazione culturale (non dimentichiamo che Bonatti a quindici anni lavorava già come operaio), nello stesso tempo riesce estremamente difficile credere che un uomo che accettò nella sua carriera alpinistica quasi esclusivamente compagni con funzione di secondi di cordata, possa poi essersi lasciato in qualche modo guidare da un altro sebbene in un campo che gli era senz’altro meno congeniale!
Per concludere ecco alcune considerazioni di fondo. Nella storia dell’alpinismo quasi sempre chi ha compiuto imprese di grande livello si è sentito giustificato nel trasporle sulla carta. I risultati nella maggior parte dei casi si sono dimostrati decisamente scadenti, perché è difficile improvvisarsi scrittori. Non solo, ma anche perché il rapporto tra l’alpinismo e la parola (la parola che lo racconta), non è un rapporto facile; e questo è forse dovuto alla natura stessa dell’esperienza alpinistica, che è in qualche modo un fatto limite, al di là di quella quotidianità spesso e, sempre più, piatta e disadorna, per la quale sembrano fatte le parole; esperienza che rifiuta ogni specifica definizione, che non può essere fissata in una immagine, in una espressione che trascende queste forme di narrazione, diventando “inspiegabile”. Bonatti fa spesso eccezione a questo e, come già affermato più volte, ha una vena piuttosto felice, riesce con una certa facilità a far presa, forse proprio perché, paladino di una attività come quella alpinistica assolutamente gratuita e «inutile», riuscirà a ricreare certe situazioni in un campo affine quale quello letterario, anch’esso votato all’inutilità, che non insegue guadagni e fini immediati, scopi dichiarati (forse più nella teoria che nella realtà). Ma al contempo, come tutti i parti letterari di origine alpinistica, le opere di Bonatti brillano sicuramente più per l’eccezionalità e la maestria delle imprese che narrano, che non per il raggiungimento di un reale valore letterario ed estetico: d’altronde non è forse nemmeno onesto chiederglielo. Resta indiscutibilmente il fatto che, anche grazie a tali pubblicazioni, Bonatti ha incarnato per lungo tempo l’ideale dell’alpinismo diventando l’alpinista per antonomasia, anche per un pubblico sino ad allora ignaro della montagna e avvicinatosi, forse superficialmente, ad essa grazie al “grande Walter”.
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Racconta la vecchia guida Bruno Detassis che, in occasione di un corso per guide tenuto nel Brenta, Cesare Maestri non fu trattato con i dovuti riguardi (o per lo meno, con quelli che egli reputava gli spettassero). Salito nottetempo in cima al Crozzon di Brenta, Cesare iniziò in mattinata a ridiscendere la difficile via delle Guide, armato solamente di una corda; arrivato all’altezza delle maggiori difficoltà, quale estremo e sprezzante segno di sfida verso coloro che, dopo averlo offeso, lo guardavano dal basso, Maestri si sfilò la corda che portava a tracolla e la lasciò cadere alla base della parete, cinquecento metri più in basso. In poche ore arriverà a riprendersela sul ghiaione sottostante.
Episodio, questo, emblematico di quell’atteggiamento di sfida (che diventa gioco e dimostrazione) che caratterizzerà sempre non solo la carriera alpinistica, ma tutta la vita di Cesare Maestri. Non sa praticamente che al mondo esista una montagna chiamata Cerro Torre, eppure decide di recarvisi appena uno sconosciuto gli scrive dall’Argentina: «Questo è pane per i tuoi denti. Pensa che il medico della spedizione francese, dottar Azéma, ha scritto del Torre: “II solo fatto di pensare di salirlo, è cosa vana e ridicola” (Arrampicare è il mio mestiere, pag. 57)». Sconfitto, tornerà per vincerlo con Toni Egger, e quando qualcuno dopo la morte di Toni e la mancanza di prove fotografiche affermerà più o meno velatamente che forse sulla Torre nessuno è mai salito, Maestri scriverà: «Mauri si aggrappa a quelle prove fotografiche, perché se io potessi dimostrare in modo inequivocabile la nostra vittoria lui dovrebbe ammettere che il Torre non è “impossibile”. Per non accettare la sua sconfitta, accusa me di un reato che offende tutta la mia vita alpinistica… Bene signor alpinista. Bene signor giornalista… Ritornerò sul Torre. Attaccherò la sua parete più difficile nella stagione più impervia (Duemila metri della nostra vita, pag. 11/12)».
La teatralità del personaggio
Da queste parole si evidenzia la peculiarità del personaggio Maestri (perché si tratta realmente di un personaggio): il gusto della teatralità del gesto, che si fa sempre aggressione, caparbia presa di posizione, simpatica (ma non sempre) spavalderia. Dopo un inizio quale attore, presto fallito (ma qualcosa deve essere rimasto di questa abortita origine), Maestri dà a volte la sensazione di voler recitare un atto unico, rappresentato dalla sua vita. Vuole essere il “più” in campo alpinistico, non gli interessa essere uno dei migliori, ed anche per questo le polemiche nelle quali si troverà coinvolto saranno sempre infuocate, a volte addirittura feroci; così, anche se assurgerà a una voluta e ricercata fama che lo rende familiare anche al grande pubblico, e non solo a quello alpinistico, diventando per tutti il mitico “Ragno delle Dolomiti”, nonostante ciò proprio per il tipo di gesta (a volte apertamente irritanti e scostanti) con cui alimenta la propria notorietà, non riuscirà ad offuscare la popolarità e l’immagine dell’eroe del suo tempo, Walter Bonatti.
Se in quest’ultimo non è difficile, malgrado tutto, trovare dei caratteri di piena rispondenza con quelli dell’eroe classico, solitario (perché unico), introverso (perché cosciente della propria unicità), combattuto tra mille drammi, Maestri costituisce un eroe non sostenuto dalla leggenda, eroe picaresco e spaccamontagne. Ciò perché Maestri è troppo sanguigno e scopertamente volitivo, facile all’esaltazione come all’abbattimento più assoluto, per certi versi troppo interessato alle cose di questo mondo: alle donne, alle automobili, alla polemica. Così l’impresa alpinistica viene a situarsi in un contesto di vita che, proprio perché già pieno e non monomaniacalmente aperto alla sola montagna, ne impedisce l’innalzamento a leggenda, rappresentando piuttosto uno dei momenti, certo privilegiato e saliente, di una vita che non è tragedia, ma commedia, ora drammatica e ora brillante, comunque esente da quelle connotazioni di terribilità, di “tremendum” che abbiamo visto essere termini adatti a qualificare l’esperienza bonattiana: l’eroe non sarà mai assoluto ma fondamentalmente caratterizzato dall’atto alpinistico puro, e se proprio di eroe occorre parlare, lo si può definire quale eroe sportivo (dove, per sport, si intende una attività che non raccoglie in sé, totalmente, tutta l’esperienza vitale, sia qualitativamente che quantitativamente).
Una prova di quanto affermato, seppure relativa, può esserci offerta dalla corsa scatenatasi intorno alla conquista del Torre. Per una coincidenza, che forse non è tale, due spedizioni partono contemporaneamente dall’Italia dirette verso l’Argentina: una è quella trentina guidata da Detassis e di cui uomo di punta è però Maestri, l’altra è quella di Bonatti e Mauri. Bonatti ne Le mie montagne scrive: «Eravamo circa a metà percorso quando ad un tratto apparvero sotto di noi due alpinisti che salivano nella nostra direzione: erano i trentini che, provenienti dal versante opposto al nostro, si accingevano a scalare anch’essi l’Adela. Cogliemmo l’occasione per fare insieme uno spuntino al riparo dal vento e parlammo di tante cose (pag. 210)». In tutto il capitolo dedicato alla Patagonia, esiste un solo altro breve accenno ai trentini. Nel libro di Maestri invece, ogni momento della spedizione patagonica è vissuto e raccontato sotto l’incombente minaccia rappresentata dalla presenza di Bonatti e Mauri «Tutto l’avvicinamento al Torre è tormentato da una angosciosa domanda: “Che cosa farà Bonatti?”… In fin dei conti noi facciamo la nostra spedizione, ed essi la loro. Facciano quello che credono. A noi non importa nulla. E invece importa a tutti. Il viaggio in queste condizioni diventa una tortura (Arrampicare è il mio mestiere, pag. 61)».
La parete est-nord-est del Crozzon di Brenta, teatro del “lancio della corda” di Cesare Maestri
Dell’incontro Maestri ricorda «… già assaporiamo il piacere di un’altra vittoria quando, a pochi metri dalla cima della Adela Centrale, vediamo due uomini salire veloci. Forziamo l’andatura e puntiamo sull’Adela Nord, ma i due hanno troppo vantaggio su di noi… Forzo l’andatura ma Luciano mi chiede ancora di riposare. Piangerei dalla rabbia. A pochi metri dalla vetta incontriamo Bonatti e Mauri che stanno scendendo. Ci salutiamo, ci scambiamo un po’ di viveri e ognuno di noi continua per la sua strada. Sulla vetta, vento e freddo, qualche latta vuota a testimonianza che sono già passati i vincitori. Ancora vento, freddo e tristezza (Arrampicare è il mio mestiere, pag. 84)».
Se evidente è la diversità di stato d’animo con cui è stata affrontata la medesima esperienza, si ha comunque la sensazione che oltre a essere più stizzoso, più portato al coinvolgimento emotivo, sino a rimanerne apertamente alterato, Maestri sia anche fondamentalmente più sincero, poiché Bonatti in tale occasione, pur essendo caratterialmente meno polemico, accentua in modo smisurato il distacco da una competizione che sicuramente lo tocca (sino ad assumere, quasi, tratti di inspiegabile e arida imperturbabilità).
Risaltano così i caratteri che non possono non rendere accattivante la figura di Maestri: sincero, spesso capace di profonda autocritica, non solo egoista e plateale ma piuttosto, in molte occasioni, profondamente altruistico e sensibile. Nei suoi difetti e nelle sue qualità Maestri è sfacciatamente evidente, non è uomo dalle mezze misure e non ammette ostacoli se non quello rappresentato dalla mancanza di volontà dell’individuo.
Scrive dopo la conquista di una cima inviolata in Patagonia: «Sono felice di questa vittoria, che mi ha ricordato che si vince sempre, quando la volontà è decisa. (Arrampicare è il mio mestiere, pag. 77)». Da qui la perenne sfida, preludio all’affermazione, maniera della clamorosità. E allora Maestri anche nella pratica alpinistica non sarà fermato da moralismi (ma questo non è un’accusa di immoralità) di alcun genere: tutto è sacrificato alla riuscita, comunque e dovunque, indipendentemente da una pretesa dichiarazione di purezza e naturalità dei metodi. Nella polemica sui mezzi artificiali, Maestri sarà nettamente dalla parte degli artificialisti a oltranza e sarà artefice, lui, capace di memorabili imprese in arrampicata libera, delle più incredibili «direttissime» con impiego spesso quasi esclusivo di chiodi a espansione. Sorge il dubbio, anche in base al tipo di scalate intraprese, che Maestri sia spinto più che da propri radicati convincimenti da una forza di volontà che trova alimento nella ricerca della spettacolarità eccezionale, o dell’impresa ritenuta valida unicamente perché rifiutata da altri; il che, naturalmente, non va discosto da un profondo amore e sincero attaccamento per quello che egli stesso chiama il suo mestiere.
A proposito della salita al piccolo Dain scrive: «Io per primo capisco che questa salita non ha nessuna importanza alpinistica e che si riduce a una esibizione puramente acrobatica. La cosa però non mi interessa. È una parete giudicata impossibile e non mi piace rinunciare sulla base di giudizi che vogliono essere verità assolute. Al mondo la parola impossibile non esiste e voglio dimostrarlo cominciando dal Dain (Arrampicare è il mio mestiere, pag. 91)».
L’alpinismo non è più, o non è principalmente, scuola di vita, ma campo di affermazione, su se stesso e, soprattutto, sugli altri (l’aspetto «dimostrativo» è preponderante in Maestri); e ciò nonostante, non mancano i dubbi, le perplessità circa la validità delle proprie imprese (quasi a scalfire, ad ammorbidire i contorni forse eccessivamente granitici e netti di quest’uomo, cui non sono estranei i ripensamenti e che, occorre sottolinearlo, ha sempre preteso da sé il massimo, senza risparmi, costruendosi con fatica). Descrivendo la vittoria con Egger al Torre: «Ma quale vittoria tengo in pugno? Una vittoria portata con risentimento, con rabbia, con il cuore gonfio di amarezza e di astio. Quanto diversa dalle mie vittorie solitarie, fatte di tecnica e di gioia di vivere. Che cosa mi ha spinto quassù? Uomini che dovrebbero difendere i nostri interessi alpinistici agendo in modo parziale mi avevano irritato e offeso; uomini che sfruttando un particolare momento volevano dimostrare una volta di più la loro bravura… Penso solo alla mia vita, perché Toni è un’entità a parte. Lui è un uomo prudente e ora si trova per caso in questa situazione pericolosa. Qui è la differenza: Toni, se avesse previsto il pericolo non sarebbe salito; io sì, sono voluto salire nonostante tutto! (Arrampicare è il mio mestiere, pag. 159)».
Ma Maestri, per essere soddisfatto, deve fare partecipe gli altri, deve avere vasta platea (è da sottolineare che la sua opera si svolge nel mondo, davanti al mondo), così l’affermazione per essere tale, deve essere sufficientemente pubblicizzata. Maestri si lancerà più volte in imprese che lo vedono torero in un’arena gremita, dove il rischio si fa innanzitutto spettacolo. Descrivendo sempre l’impresa sul piccolo Dain scrive: «Su questa parete è impossibile fare un solo metro di arrampicata libera. Sotto di noi, lo stradone che porta a Tione è un’immensa balconata gremita di spettatori. Una ventina di bambini sono seduti sul muretto e quando termina una filata di corda a loro parere difficile, esplodono in applausi fragorosi. Fatta da persone adulte mi darebbe un enorme fastidio, ma dai piccoli mi dà uno strano piacere (Arrampicare è il mio mestiere, pag. 97)».
Cesare Maestri in arrampicata artificiale
Maestri è innanzi tutto alpinista per scelta, ed è una scelta che ha dovuto farsi valere in circostanze non facili: spedito a Roma dal padre a tentare la carriera dell’attore, Cesare non ha fortuna e si deve arrangiare facendo i lavori più impensati. Infine la decisione di tornare in Trentino, alle montagne, di diventare guida: in breve tempo riuscirà nell’intento di salire quasi tutte le vie più impegnative delle Dolomiti (Detassis-Giordani al Crozzon di Brenta, Fox-Stenico alla Cima d’Ambiez, Solleder al Civetta e al Sass Maor, Oppio al Croz dell’Altissimo), spesso in solitaria e non di rado affrontandone anche le difficoltà in discesa. Apparso a molti l’erede di Preuss, Maestri cambia rotta e si lancia come già detto nella scalata di nuove pareti, con uso prevalente di chiodi a espansione. Nel frattempo dà vita alla sua guerra personale (un faccia a faccia prolungato, dove l’odio per il nemico diventa piano piano affezione, riconoscenza, amore) col Cerro Torre: fallisce la prima spedizione, ne conquista la cima con Egger nella seconda, vi ritorna una terza riportando una nuova vittoria, dopo che la precedente è stata messa in dubbio da molti. La carriera alpinistica del ragno delle Dolomiti si inserisce nel medesimo ambito storico già descritto a proposito di Bonatti: i due sono coetanei, ed è interessante notare che dopo anni di esperienze arriveranno a pubblicare entrambi la loro “opera prima” entro il 1961, anno in cui esce per la Garzanti Arrampicare è il mio mestiere di Maestri, e, addirittura nello stesso mese di novembre, per la Zanichelli Le mie montagne di Bonatti. In realtà nel caso di Maestri si tratta dell’opera che contribuisce a farlo conoscere al grosso pubblico, mentre già alcuni anni prima la vera opera prima del trentino, Lo spigolo dell’infinito, era passata praticamente inosservata).
Il lavoro di Maestri è, per la verità, di non elevatissimo valore, e questo non solo per una modesta perizia descrittiva, ma per una incapacità di usare toni adatti per le singole e specifiche situazioni, indulgendo a volte a un registro discorsivo o ammiccante che non raggiunge il suo scopo, creando dei fastidiosi squilibri formali ed espressivi. Caratteristica è la caduta in una retorica fastidiosa, che non può non suscitare una sensazione di superficialità (ma, sia ben chiaro, non si vuole mettere in dubbio la sincerità di chi scrive, ma puntare l’attenzione sulla inadeguatezza dello scritto). Un esempio per tutti rimane la descrizione fatta del recupero in parete della salma di Giulio Gabrielli amico di Maestri: «”Ecco Giulio, sono arrivato. Devi avere ancora un po’ di pazienza. Ormai sono qui da te e non ti lascierò ancora qui solo”. Ora posso toccarlo, ha i capelli bagnati, le mani gonfie, gli occhi chiusi, come se non volesse vedere la sua morte e solamente ora capisco quanto sia morto, capisco quanto valeva per me la sua amicizia e accarezzandogli il capo gli sussurro: “Senti Giulio, se mi sei amico fammi cadere con te, fa che la corda si stacchi lassù dove l’hai ancorata, fa che io cada con te, che muoia per te” (Arrampicare è il mio mestiere, pag. 192)».
Lo spirito polemico
La validità dello scritto è perciò essenzialmente da ricercare nel valore di testimonianze del pensiero dello scalatore trentino, nonché dello spirito che anima buona parte delle imprese alpinistiche degli anni Sessanta, spirito che permea in particolare la furiosa polemica tra artificialisti e puristi. Se non altro più smaliziato è il più recente Duemila metri della nostra vita, già nell’ideazione che vede all’atto della stesura affiancati i commenti di Maestri e della moglie alle varie fasi della terza spedizione al Torre. Ancora polemiche, ancora chiodi a espansione e in più un compressore di circa 150 chili da trascinare sulla parete; ancora momenti di arrampicata alternati a momenti di vita «comune», spesso pensieri e considerazioni che fanno ampia luce sul mondo di Maestri e sulle leggi che lo reggono. Sicuramente fastidiosa può risultare invece a molti l’impostazione stessa del tentato romanzo con l’eroe in lotta con la montagna e la moglie in lacrime, che lo attende. La qualità di questo libro sembra essere fortemente condizionata, è una semplice sensazione, dal fatto che Maestri, e con lui moltissimi altri autori di montagna, scrivano essenzialmente per poter devolvere i proventi delle pubblicazioni al finanziamento delle proprie imprese, senza preoccuparsi eccessivamente della validità del testo.
Conferma parziale si ha analizzando i contenuti dei due testi Lo spigolo dell’infinito e Arrampicare è il mio mestiere. Quest’ultimo è scritto utilizzando quasi due terzi del primo, a cui si aggiungono i racconti sul Cerro Torre e delle ulteriori imprese dolomitiche: tecnica che scopertamente ne indica i fini commerciali. Lo spigolo dell’infinito, prima esperienza letteraria di Maestri, viene a rappresentare il testo forse più interessante perché più completa e scoperta ne appare la figura dell’alpinista dolomitico. Ai capitoli di arrampicata sono interposti dei brevi capitoletti di immagini e riflessioni da cui traspare appieno un Maestri ingenuo, vagamente romantico, pieno di voglia di vivere, sempre teso verso l’impresa in grado di qualificare e giustificare l’esistenza : «Chi vegeta non ha il diritto di vivere, chi vive ha il diritto di morire (pag. 201)». E d’altronde embrionalmente appaiono già tutti i principi che costituiscono i capisaldi della filosofia di Maestri, sia quando scrive «… se in questo momento facessi il pescatore, vorrei pescare una balena con una lenza ed un verme. Così, perché nessuno l’ha mai fatto (pag. 195)», sia quando prende a prestito come epigrafe un breve brano tratto dall’antologia di Spoon River: «… dare un senso alla vita può condurre a follia / ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio / è una barca che anela al mare oppure lo teme».
Bisogna comunque puntualizzare che tanto i libri di Maestri quanto quelli di Bonatti, con tutti i loro limiti, vengono a trovarsi rispetto allo scenario della letteratura alpinistica italiana, in ben modesta compagnia se si pensa che uno dei pochi testi cui si può fare riferimento è quel La conquista del K2 che rappresenta semplicemente l’asettica e più o meno fedele cronaca della spedizione italiana del 1954 guidata da Ardito Desio, autore del testo appena citato.
Altri alpinisti scrittori
Gli alpinisti dell’epoca non amano cimentarsi con la penna, e il solo Cassin si sforzerà, ma questo già verso il finire degli anni Settanta, di stendere i propri ricordi nel volume Cinquant’anni di alpinismo. Nel frattempo, a partire dai primi anni Settanta, fanno la comparsa una serie di pezzi in cui il personaggio-alpinista e l’impresa vengono ad assumere una funzione marginale rispetto alle idee e alle sensazioni che lo scritto è in grado di trasmettere. Queste tendenze assumono inizialmente una propria fisionomia tramite due articoli apparsi sulla Rivista Mensile nel 1972: sono I falliti di Gian Piero Motti e Il più grande arrampicatore del mondo di Bernard Amy; seguiranno tanto interi testi assai apprezzati anche dal grosso pubblico, quanto tutta una serie di articoli (spesso tradotti dal francese ma ancor più dall’inglese) apparsi sempre sulla Rivista Mensile ma ancora più sulla più recente Rivista della Montagna.
Proprio Amy rappresenta oggi il più significativo esponente della letteratura alpinistica francese, a cui erano già appartenuti una serie di personaggi che caratterizzarono l’alpinismo d’oltralpe nel medesimo periodo di Bonatti e Maestri, quali Gaston Rébuffat, René Desmaison, Lionel Terray.
Se Rébuffat si segnala essenzialmente per meriti fotografici, raggiungendo spesso dei livelli qualitativi indicativi non solo di grande perizia tecnica ma anche di un profondo senso estetico emblematico dell’alpinismo del grande arrampicatore marsigliese, è invece Desmaison ad assumere maggior peso in campo letterario, in particolare con 342 ore sulle Grandes Jorasses. È questo un testo che riesce a reggere senza problemi la struttura del romanzo: la narrazione è scarna ed efficace, gli eventi si susseguono con un incalzare che difficilmente lascia posto a momenti di caduta di tensione o interesse nel lettore. Valida anche l’opera di Terray, così come sono assai apprezzabili gli sforzi letterari dei rappresentanti, essenzialmente Hermann Buhl e Kurt Diemberger, di un altro grande polo alpinistico, quello austriaco. Buhl, morto nel ’57, appartiene pienamente come mentalità al “periodo eroico” dell’alpinismo, mentre Diemberger verrà a segnare un punto di passaggio verso una sensibilità più variegata, più aperta a esperienze anche molto lontane tra loro.
È chiaro che queste affermazioni, assolutamente superficiali e frammentarie, andrebbero giustificate, e sarebbe inoltre estremamente interessante scoprire quali siano state le reciproche interferenze e influenze nel campo dell’azione e del pensiero tra le diverse correnti createsi in campo alpinistico europeo, delle quali fondamentale è la scuola anglosassone, qui neppure citata, ma in realtà condizionante a fondo l’etica alpinistica anche continentale. Problemi di spazio e capacità impediscono al momento attuale la possibilità di un tale approfondimento. Resta un’ultima puntualizzazione. Le considerazioni da noi proposte in queste righe, hanno come presupposto irrinunciabile il dato della storicità del giudizio in esse implicito: guardare le cose, tutte le cose, da una lontananza temporale (e dal ’60 ad oggi è forse passato più tempo di quanto i venti anni cronologici vogliono fare intendere), se da un lato permette di vedere meglio i contorni, di analizzare con maggiore certezza le prospettive, dall’altro ha il grave difetto di mantenersi in una pretesa oggettività che non rende giustizia agli stati d’animo, alle sensazioni, alle motivazioni più profondamente umane e personali che hanno determinato il clima di un’epoca. Nello sguardo di insieme va perduto il particolare, nella generalità di uno sguardo freddamente storico si dissolvono quelle ragioni d’essere che ormai il cronista non riesce più a fare proprie, e che rischia di giudicare negativamente perché estranee al suo mondo. Così, ciò che appare retorico, ridondante, falsamente ingenuo è spesso segnale, certo difficile da seguire e ancor più da giustificare, di un’autentica esperienza, di un globale atteggiamento di fronte alla realtà che non va respinto in nome di criteri di giudizio che possano essere considerati validi per qualsiasi epoca storica; pretendere questo è come dire di avere la verità in tasca, e richiudersi in un pericoloso dogmatismo. E questo tanto più per un oggetto come la letteratura alpinistica, sempre pericolosamente in bilico tra l’autobiografia (ma il dato nudo e crudo spesso non riesce a soddisfare chi legge) e l’epopea (ma l’autoesaltazione e la “favola bella”, o anche la semplice analisi introspettiva del proprio modo di essere, rischiano di attirare dure critiche): chiedere quindi a questo oggetto di essere nel giusto mezzo, è probabilmente atteggiamento sbagliato già sin dall’inizio, se è vero, come è vero, che proprio l’alpinismo rivendica per sé termini come “limite”, “sbilanciamento”, “irripetibilità”.
Fare dell’azione alpinistica una testimonianza anche scritta è così un fatto rischioso: un altro rischio, dove nulla è garantito. Non è un caso.
Note bibliografiche
Le mie montagne di Walter Bonatti – Zanichelli, 1961;
I giorni grandi di Walter Bonatti – Mondadori, 1971;
Lo spigolo dell’infinito, di Cesare Maestri – Arti grafiche R. Manfrini – Rovereto;
Arrampicare è il mio mestiere, di Cesare Maestri – Garzanti, 1961;
Duemila metri della nostra vita, di Cesare e Fernanda Maestri – Garzanti, 1979;
La conquista del K2, di Ardito Desio – Garzanti, 1954;
Cinquant’anni di alpinismo, di Riccardo Cassin – Dall’Oglio, 1977.
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Una delle cose piú interessanti letta su questo blog.
Un Grazie..”Alessandro “..per questa pubblicazione, interessante
ma difficile per un giudizio , su questi grandi Alpinisti..comunque
una buona lettura…! Saluti..G.C.
Grazie ad Alessandro per questa pubblicazione.L’argomento è gigantesco, ma Camanni lo affronta con chiarezza e modestia e soprattutto con la solita capacità di analisi e sintesi lucide…
@ Paolo.
C’è chi diventa un personaggio, sulla bocca di tutti e chi invece no. Anche se non è che sia meno bravo.
Alcune piccole domande.
Perché qui si dice che il grande Walter, aggiungo con Oggioni, ha fatto la prima ripetizione italiana alla “Lecco”, la Cassin alla Walker?
Che bisogno ha Lui di questo riconoscimento?
Proprio ora che chi l’ha fatta per primo è morto da poco?
Però magari io la storia come viene raccontata oggi non la conosco.
Sarebbe meglio dire che i due ragazzi erano insieme agli altri.
Non toglierebbe nessuna gloria a nessuno, ma aggiungerebbe un po’ di verità storica.
Faccio sempre casino, scusate.