Alcuni temi di scuola – 4 (4-4) (AG 1963-003)
Tema 1) L’intelligenza nelle sue graduazioni: aristocratica, che è anche saggezza, del mondo cortese, intelligenza acuta e pratica del ceto borghese, furberia grossolana del ceto plebeo. E’ presente in alcune (almeno 10) novelle del Boccaccio (1963, liceo scientifico).
Abbandonate le severe speculazioni intellettualistiche e moralistiche dell’età precedente, il Boccaccio volge la sua attenzione alla vita terrena e all’uomo in particolare “in quanto intelligenza viva e operante (Giuseppe Petronio)” preannunziando più degli illustri suoi predecessori l’avvento dell’Umanesimo.
E’ quindi soprattutto realista: la vita, svincolata dalle assillanti preoccupazioni religiose, e concepita terrenamente, come trionfo dei sensi, delle passioni e soprattutto dell’intelligenza dell’uomo, trova nel Boccaccio il suo più mirabile cantore e il suo migliore interprete, tanto che il Decameron può essere definito il “poema dell’intelligenza (Umberto Bosco)”.
Uno dei motivi dell’opera è il “celebrare poeticamente il prorompere delle nuove forze mondane: furbizia, abilità, saviezza e, se necessario, anche la cialtroneria, contro la semplicità, la rozzezza, la credulità (Luigi Russo)”.
Giovanni Boccaccio: novella di Cisti il fornaio
Sempre vi sono state l’aristocrazia, la borghesia e la plebe. L’aristocrazia è la nobile società del mondo cortese, cui appartengono anche uomini di profondo pensiero, che nella vita rispecchiano l’elevatezza dei loro sentimenti: è il mondo dei grandi e dei saggi; la borghesia è la società degli arricchiti, gente astuta che si è procurata il denaro con abili traffici, sia onestamente che disonestamente; e infine il popolino è la classe delle persone semplici, né ricche né nobili, che perseguono i loro scopi o lavorando alacremente o giocando di furbizia, spesso grossolana, a danno degli sciocchi.
Nelle novelle del Decameron, la saggezza, l’astuzia e la furbizia, graduazioni dell’intelligenza, sono presenti nei caratteri così abilmente delineati dall’Autore: ogni figura ha individuali caratteristiche che permettono di inquadrarla perfettamente nella sua classe sociale, nella sua spirituale idealità o nella sua miseria morale, nella sua nobiltà o nella sua viltà, nel suo eroismo o nel suo peccato.
Re Carlo e Re Pietro d’Aragona assurgono a simbolo di magnanimità, di lealtà, di generosità e delle migliori virtù sulle quali riposa la nobiltà di un mondo teoricamente ancora ideale, ma in realtà cortesemente umano. Il re Carlo “vecchio vittorioso, d’una giovinetta innamoratosi, vergognandosi del suo folle pensiero, lei e una sua sorella onorevolmente marita”. L’Autore vuole rimarcare quanto sia stato saggio l’agire di Carlo: infatti fa parlare il padre delle due giovinette, Neri degli Uberti, e gli fa esporre quanto grave e iniquo sarebbe stato per un re ormai vicino alla vecchiezza soggiacere a simili desideri; poi egli stesso sottolinea la liberalità e la magnificenza del re dicendo: “saranno forse di quei che diranno piccola cosa essere ad un Re l’aver maritate due giovinette, e io il consentirò; ma molto grande e grandissima la dirò, se diremo un Re innamorato questo abbia fatto colei maritando cui egli amava, senza aver preso o pigliare del suo amore fronda o fiore o frutto”.
In quanto al Re Pietro d’Aragona “ci è presentato come un uomo che in ogni circostanza si diporta con una superiorità, una sicurezza, un’affabilità non affettata, da grande signore. Notevole soprattutto il tono indovinato con cui parla alla giovane, trova le parole che confortano senza lusingare, fa sentire con umiltà e con umanità che l’amore di Lisa lo ha colpito; cerca delicatamente di trarre da quell’affetto l’unico bene possibile per la giovane”.
Nella considerazione finale il Boccaccio elogia il re Pietro, esaltando le sue qualità: “Così adunque operando si pigliano gli animi de’ subgetti, dessi altrui materia di bene operare, e le fame eterne s’acquistano. Alla qual cosa oggi pochi o niuno ha l’arco teso de lo ‘ntelletto, essendo li più de’ signori divenuti crudeli e tiranni”. Federigo degli Alberighi è l’esempio della devozione e della costanza. Il centro della novella, il punto in cui si scorge il grande amore che Federigo porta per la donna, è nelle parole in cui rivela il sacrificio del falcone: nel discorso “è espresso un sentimento forte e profondo con quel decoro e quella dignità di tono, di cui s’improntano tutta l’atmosfera e l’ambiente cavalleresco di questo racconto. E perciò la tristezza, che traspira da queste parole, riesce tanto più commovente, quanto più la si avverte dominata e tenuta a freno da una consuetudine di riserbo signorile e di aristocratica elevatezza (Natalino Sapegno)”. In questa novella riaffiorano i temi del dolce stil novo, trasportati però in un mondo più concreto e reale.
A parte devono essere considerati Giotto e Guido Cavalcanti che “dice con un motto onestamente villania a certi cavalieri fiorentini li quali soprapreso l’avevano”. Tutto il libro sesto è dedicato a coloro che, stuzzicati o molestati, si rifanno con detti arguti o pungenti risposte di una cortesia mordace. il Boccaccio sottolinea anche i meriti di questi due “grandi”: Giotto aveva riportato alla luce quel tipo d’arte di stile classico che per tanti secoli era rimasto sepolto e da nessuno curato, e poi dipingeva così bene che i dipinti parevano veri. Guido invece è descritto come filosofo, oratore e grande studioso estraneo al mondo.
Cisti con “popolana gentilezza” del suo dire si rende amico messer Geri Spina. Tutta la novella è volta a dar rilievo singolare a quelle espressioni che suggeriscono la finezza e la lindura del fornaio signore: il “farsetto bianchissimo”, il “grembiule di bucato”, il “piccolo orcioletto… nuovo”, i “bicchieri che parevan d’ariento”. Vi sono però espressioni tolte dal linguaggio borghese: “ch’egli ne avrebbe fatta venir voglia a’ morti”. Cisti è la tipica figura del lavoratore arricchito per merito della sua operosità e intelligenza che, quantunque non ne abbia bisogno, continua a esercitare la sua arte per quella laboriosità che è innata nelle persone equilibrate. Anche il Boccaccio dà rilievo alla sua intelligenza pratica e attiva ma nello stesso tempo garbata: specialmente quando vuole invitare a bere del suo buon vino messer Geri pur non volendo embrare presuntuoso di fronte alla sua personalità. E allora si studia che messer Geri stesso si inviti. Il Sapegno a questo proposito dice: “Qui si rileva la delicatezza d’animo e il garbo discreto e l’innato senso delle distinzioni di Cisti; nell’immaginare con modo grazioso di far sì che Geri e gli altri si invitino da sé si manifestano un’intelligenza arguta e sottile e un umor gaio e cordiale”.
Largamente fornito d’astuzia è il celebre frate Cipolla che si dà alla ciarlataneria per salvare la propria buona fama. Egli è uno di quei “questuanti famigerati che girando per le campagne si prevalevano della semplicità dei contadini per fare ricca preda (papa Gregorio IX)”. Si nota che il Boccaccio ha in simpatia questo suo personaggio e insiste soprattutto sulla sua prontezza di parola e sulla maniere gaie di costui piuttosto che sulle sue intenzioni fraudolente. Infatti non è solo un furfante, è anche un birbone. Lo si vede dal discorso che fa all’uditorio: prima cerca di trarsi d’impiccio, ma poi di mano in mano prende coraggio e si beffa degli ascoltatori profferendo spropositi a non finire, espressi con parole scelte con arte, in modo che abbiano un suono illusorio, qualcosa di solenne, misterioso e ambiguo, non facile a capirsi al primo momento. All’ultimo poi aggiunge il tocco finale: con tono solenne assicura che chi toccherà quei carboni potrà essere sicuri di non essere arso dai fuochi infernali. Lo scaltro frate, infatti, sa benissimo che effetto faccia alla moltitudine ignorante parlare di indulgenze. Questa è astuzia di ladro incallito.
Appena gli è detto da Guido degli Anastagi che ogni venerdì egli passa per quel luogo nella pineta e fa strazio della sua donna, Nastagio degli Onesti intravvede immediatamente i vantaggi che egli potrebbe avere se invitasse la donna amata a vedere quello spettacolo: di qui si vede che soprattutto l’intuizione è necessaria all’astuto. Uno che manca d’intuizione e che non è abile a prevedere, non è scaltro. Grande poi è l’accortezza di Ghino di Tacco che sa trarre largo profitto da una situazione dalla quale un altro masnadiero avrebbe forse tratto solo del denaro. Egli infatti, da brigante che era, è diventato cavaliere e possessore di terre, benvoluto dal papa.
Andreuccio da Perugia è invece una figura a parte. Non è un balordo, bensì un provinciale goffo ed è, sebbene dotato d’istintiva prontezza (infatti si sa togliere abbastanza bene d’impaccio), poco fornito di quella prudenza che occorre per stare fra persone astute ed esperte. Che non sia del tutto stolto egli lo dimostra quando risponde alle parole della commediante: dice certamente ingenuità, ma con buon senso. Alla fine chiede perfino come ella sappia che egli era lì a Napoli. Bisogna anche notare l’espediente di Andreuccio per uscire dalla camera mortuaria. Evidentemente Andreuccio ha capito alla fine tra che gente è capitato e non fidandosi più di nessuno, ma soltanto di se stesso, aguzza l’ingegno e trova subito la soluzione.
Ciacco è il tipico ghiottone che, dotato di una certa abilità di linguaggio, di sfacciataggine e furbizia, mangia e beve in casa dei signori.
Biondello è una personcina leggiadra, maliziosa però, e beffarda. Perciò vi è differenza tra le due beffe. La burla di Biondello è molto tenue e povera d’inventiva, quindi superficiale; invece quella di Ciacco è forse più grossolana, ma è costruita con la furbizia popolana, con un gusto arguto e violento.
Cecco Fortarrighi è il tipico furbo senza scrupoli: prima giura all’Angiulieri di smettere di giocare e di ubriacarsi, poi si rivela cinico disinvolto sprezzando tutti quei giuramenti, così senza rimorso. Poi ancora deruba l’amico, e si beffa di lui non lasciandolo partire per Ancona. Qui si rivela il vero carattere del Fortarrighi, impassibile lestofante, abile a creare, a suo vantaggio, una situazione equivoca e ad approfittarne con la disinvoltura d’un commediante consumato. Ma quando all’ultimo, dopo che l’Angiulieri è stato derubato e spogliato, le sorti sembrano invertite, e il ladro sembra il derubato e il derubato sembra il ladro, la burla sconfina nell’offesa, nella grossolana beffa di gusto alquanto volgare: il che rileva il carattere fortemente triviale della scaltrezza del Fortarrighi.
Bibliografia: Scrittori d’Italia, di Natalino Sapegno; Disegno del Decamerone, di Giuseppe Gigli.
Tema 2) L’umorismo di Cecco Angiolieri (1963, liceo scientifico).
Il motivo fondamentale e generatore delle opere di Cecco Angiolieri è la sua prepotente inclinazione a guardare la vita, senza serietà morale, in una costante deformazione parodistica. Si tratta però di un motivo molto generalizzato. Infatti non si può dire ch’egli sia un comico, oppure un poeta satirico; non si può dire se la sua poesia sia motteggio, scherzo, burla, canzonatura o beffa. Tutti questi gradi e qualità del comico sono presenti nei suoi sonetti, ma nessuno può esserne assunto a elemento dominante. Egli è quindi un umorista, perché l’umorismo non è una qualifica letteraria, ma di carattere.
Il suo umorismo è caratterizzato dalla materia della sua poesia e dalle qualità del suo spirito; l’una ristretta alla cerchia materialistica del suo mondo biografico esterno e interno; le altre caratterizzate dalla grossolanità elementare e dalla superficialità popolare del sentire e del pensare, dalla mancanza di idealità culturali, morali, politiche, religiose, dalla brama vivace di vita spendereccia e allegra, dall’insofferenza di privazioni e ostacoli.
I componenti della vita sono per lui da una parte l’istinto e gli appetiti, dall’altra la fortuna. Lo spirito di Cecco, che si potrebbe dire fanciullesco se avesse l’incanto dei sogni e l’ingenuità profonda della vita infantile, è angusto e materialista in relazione ai sentimenti crudi, scomposti e volgari che lo dominano. Tale spirito e tale materia circoscrivono l’umorismo di Cecco Angiolieri a forme prive di cultura, di idealità e di sentimento non alimentate da contrasti drammatici tra un mondo interno di una certa elevatezza morale e mondo esterno, o tra diversi aspetti e forze del proprio animo, né nutrite da seria contemplazione delle vicende, dei costumi, dei vizi, delle contraddizioni, degli errori e delle debolezze del vivere umano.
L’unico contrasto ch’egli avverte, in modo comune ai più semplici individui, è tra gli opposti modi del suo vivere e voler vivere nell’ambito della materialità sensibile e in relazione ai suoi appetiti corporei. E i suoi drammi sono quelli di voler possedere una donna e non poterlo, di desiderare denaro e non averlo, di sperare d’ora in ora di raccogliere l’eredità paterna e vedere il padre stare saldo e vegeto, e via di seguito.
Circoscritto in quest’ambito, l’umorismo di Cecco assume pur’esso una forma elementare che, non appuntandosi ai valori delle cose e dei fatti, si volge al semplice manifestarsi dei casi, delle persone e degli avvenimenti comuni, ai gesti che si fanno, alle parole che si dicono e agli atti che si compiono, in tutto cogliendo il comico, il buffo, il bizzarro, a cominciare da se stesso. Cecco infatti esercita il suo umorismo soprattutto su di sé e sui propri casi e rapporti con gli altri e col mondo, sì da incarnare il tipo comico dello sventurato. In effetti il personaggio più vivo dei suoi sonetti, nonostante il rilievo delle figure del vecchio Angiolieri, di Min Zeppa, di Becchina, della madre e di altri, è lui stesso, Cecco, col suo carico di guai, di miseria, di sfortuna e di appetiti insoddisfatti, vittima perenne del prossimo, delle circostanze e della sorte; maschera comica e non tragica, perché le sue contrarietà e sventure non sono vissute e rappresentate con serietà, ma viste negli scorci più ridicoli, a grandi tratti impressionistici e profilate appena in disegni grotteschi.
Nona giornata, quarta novella: “Fortarrigo perde al gioco i soldi suoi e di Cecco Angiolieri. Dopo averlo accusato di furto, lo lascia in camicia e per la via”. Miniatura tratta dal ‘Decameron’ (codice del XV secolo), Bibliothèque de l’Arsenal, Parigi.
Oltre a questi caratteri, qualità peculiare dell’umorismo di Cecco è quella di rappresentare anche il suo sentimento nelle manifestazioni caricaturali, per cui esso è oggetto e non soggetto dell’espressione; il suo umorismo è perciò un gioco d’immaginazione, di carattere figurativo e impressionistico. Questo gioco d’immaginazione si svolge essenzialmente in due modi, dei quali l’uno è di sfigurare la realtà, esagerandone i modi di essere, caricandone i caratteri e deformandone gli aspetti; l’altro, spesso immedesimato col primo, è il gusto dei contrasti, delle antitesi, colte con arguzia ingegnosa tra cose e fatti più disparati tra loro, per cui l’immagine è espressa in forma di paragone, di similitudine. L’uno e l’altro modo sono in Cecco manifestazione spontanea del suo temperamento, però sono sempre elaborati da un’attenta disciplina: infatti Cecco non si abbandona quasi mai all’immagine spontanea, ma la lavora. Entrambi costituiscono la peculiarità della poesia di Cecco che, se mancano questi, si fa fredda e impersonale. L’immagine è senz’altro il modo in cui Cecco scopre la sua vena umoristica, a volte ispirata a motti popolari abilmente rifatti e condensati, a volte abbandonata al libero estro inventivo. Ed ecco alcuni esempi.
La tristezza assidua che gli ha fatto dimenticare il ridere è figurata con un’azione di pignoramento: “Per sì gran somma ho ‘mpegnate le risa, / che io non so vedere come possa / prendere modo di far la rescossa: / per più l’ho ‘n pegno, che non monta Pisa (XCI)”.
La propria costanza e dedizione di fronte alla volubile mutevolezza altrui diventa una relazione di aritmetica: “Io feci di me stesso un Ciampolino, /
credendomi da lui esser amato; / ed eravam, di du’, un dal meo lato / e dal su’ Pier e Giovanni e Martino; (CXXV).
Il ridursi delle sue sostanze è materializzato in un assottigliamento che dà trasparenza: “I’ son sì magro, che quasi traluco, / della persona no, ma de l’avere (LXXXII)”. Un’azione che non approda a nulla e come battere l’acqua nel mortaio. Per far vedere quanto gli stiano a cuore i quattrini li sostituisce ai familiari e anzi sostiene che sono loro i veri parenti: “quei son fratelli carnali e lei cugini, / e padre e madre, figliuoli e figliuole / quei son parenti, che nessun se dole, / bei vestimenti, cavalli e ronzini: / per cui t’inchinan franceschi o latini, / baroni cavalier, dottor di scuole (LXXIV)”.
Le sue immagini sono continuate, eppure Cecco è sempre originale, non perde mai freschezza; ed è la sua grande vena umoristica che glielo permette. Nella sua mente è tutto un susseguirsi di accostamenti, alimentati dal suo vivace e canzonatorio brio. Come esempio finale riporto l’intero scritto XCI, nel quale si nota quanto la sua vena umoristica sia personale: lì riesce spesso a ravvivare e rinnovare immagini consunte e spente dalla consuetudine. Uno dei modi di dire più comune è quello di chiamare figlio del dolore e della miseria lo sventurato che non ha mai un momento di bene, come se la sfortuna gli fosse connaturata e congenita. Questo effetto non è comico, perché vecchio, non originale, comune. Eppure Cecco Angiolieri vi ha intessuto il sonetto XCI, uno dei più famosi:
La stremità mi richèr per figliuolo,
ed i’ l’appello ben per madre mia;
e ‘generato fu’ dal fitto duolo,
e la mia bàlia fu malinconia,
e le mie fasce si fur d’un lenzuolo,
che volgarment’ha nome ricadìa;
da la cima del capo ‘nfin al suolo
cosa non regna ‘n me, che bona sia.
Po’, quand’i’ fu cresciuto, mi fu dato
per mia ristorazion moglie, che garre
da anzi dì ‘infin al ciel stellato;
e ‘l su’ garrir paion mille chitarre:
a cu’ la moglie muor, ben è lavato,
se la ripiglia, più, che non è ‘l farre.
(Per analisi e commenti completi al sonetto vedi qui, NdR).
Qui è riassunto il temperamento umoristico di Cecco. Assume a materia del suo dire la storia della sua vita intessuta fin dalla nascita di miseria e di guai e vuole darcene la sintesi, ma il suo vero intento è di suscitare riso e non compassione, sì che in effetti quella triste materia invece che soggetto del componimento è spunto e pretesto per immagini che rappresentino la maschera comica dello sventurato.
Tema 3): Catullo e Virgilio: due diverse concezioni della vita e della poesia, ottobre 1963, prof. Antonio Mor:
Virgilio e Catullo sono poeti di uno stesso secolo, ma tra loro vi è molta diversità; non soltanto questa si riscontra nella loro poesia, ma anche nella loro concezione della vita. Nelle opere di Virgilio noi vediamo i sentimenti altamente religiosi, morali e patriottici di questo poeta; la sua poesia ha dei fini particolari, uno istruttivo, uno epico e uno idilliaco. Le Georgiche sono volte ad istruire gli agricoltori, eppure l’erudizione non soffoca la poesia, ma anzi la vivifica, perché nel suo profondo del cuore Virgilio vorrebbe essere contadino egli stesso: vorrebbe trascorrere una vita pacifica in mezzo ai campi, lavorando e componendo nella quiete idillica dei suoi luoghi natii. L’Eneide è volta all’esaltazione di Roma e di Augusto e tende a richiamare il mondo romano a quella vita serena e a quel modo di sentire il dovere proprio degli antichi: quindi anche l’Eneide ha, nella sua epicità, un fondo istruttivo. Virgilio è un po’ come Dante: quest’ultimo infatti sente che il mondo si allontana da Dio e con i suoi versi pieni di ardore ed entusiasmo vuol riportare l’umanità al Suo rispetto. In Catullo niente di tutto questo. Egli non ha grandi problemi, come del resto nessuno della scuola neoterica. In Catullo vi è il solo e puro sentimento dell’arte. La prima particolarità che si mostra evidente nei suoi carmi è la limpidezza aggraziata del verso ripulito e levigato, che dimostra quanto Catullo fosse artista. E anche in un carme come Le nozze di Peleo e di Teti, si sente che Catullo a quel mondo non ci crede, eppure lo fa suo, lo rimaneggia, con assoluta padronanza della materia, con quella incontentabilità propria dell’artista. La vita per Catullo è fatta solo per essere vissuta. A lui non importano niente la patria, la morale, la religione: è troppo occupato nell’amore per Lesbia, che è il suo cruccio e la sua speranza. Virgilio, grande poeta, si addolora per la decadenza dei costumi romani e spera nel puer che verrà a riportare il mondo alla sua primitiva e beata serenità. Catullo, grande artista, si addolora che Lesbia non sia tutta per lui e spera soltanto che alla fine ella si conceda solo a lui. Di qui si vede quanto profonda sia la diversità fra i due poeti: l’uno volto ai beni e piaceri terreni, l’altro aspirante nientemeno ad una rinnovazione del mondo. Catullo ha una concezione della vita propriamente pagana, Virgilio è quasi un profeta cristiano.
Bibliografia: La Musa bizzarra di Cecco Angiolieri, di Fernando Figurelli; Orientamenti culturali, volume V (Letteratura italiana, i Minori), di AAVV.
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Senno non val a cui fortuna è cònta,
né giova senno ad omo infortunato;
né gran savere ad omo non sormonta,
s’a fortuna non piace e non è a grato.
5Fortuna è quella che discende e monta,
ed a cui dona ed a cui tolle stato;
fortuna onora e fa vergogna ed onta,
fa parer saggio un folle avventurato.
E spesse volte ho veduto venire
10che usare senno è tenuto en follia,
ed aver pregio per non senno usare.
Ciò ch’a fortuna è dato a provvedere,
non pò fallir, e mistier è che sia:
saggio il tegno chi sa temporeggiare.
Grande Cecco!
Saluti