Flussi ghiacciati è il volume, ancora fresco di stampa, che raccoglie quasi tutte le cascate delle valli di Lanzo, Orco, Soana e Chiusella che, con il gelo dell’inverno, si trasformano in flussi di ghiaccio. Gli autori, Elio Bonfanti, Marino Cuccotto e Giorgio Montrucchio, hanno voluto dedicarlo al loro maestro, Gian Carlo Grassi, precursore dell’arrampicata su ghiaccio in Italia con moltissime prime salite fra cascate e goulotte, dal fondo valle all’alta montagna.
«Ho iniziato ad arrampicare verso la fine degli anni ’70, sulla coda del movimento del Nuovo Mattino» racconta Bonfanti «ed essendo cugino di Guido Morello ho avuto modo di conoscere molti dei personaggi di spicco di quel periodo. Giancarlo Grassi lo conobbi invece grazie a dei corsi di perfezionamento che lui teneva per un negozio di articoli sportivi di Torino. Dopo poco tempo» continua Bonfanti «venne a sapere di un mio progetto al Monte Plu, nelle valli di Lanzo, e immediatamente mi chiamò e mi disse: “Facciamo società?”. Da quel momento grazie a lui e con lui ho potuto prendere parte alla prima fase esplorativa dell’arrampicata sulle cascate di ghiaccio» (Redazione altitudini.it).
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Un’attesa che non paga
di Elio Bonfanti
(già pubblicato il 25 ottobre 2018 su altitudini.it)
Istinto e programmazione sono alla base di ogni realizzazione
Perché, quando si è sotto alla grande parete, dentro a quella piccola capsula creata dalla bolla di luce della frontale, siamo soli e nudi davanti alle forme spettrali che i raggi di luce si divertono a disegnare per inquietare ancora di più il nostro spirito e per minare maggiormente le nostre certezze di riuscita.
Quello è il momento topico, quello in cui le incertezze lasciano il posto all’azione, e il ritmo del cuore distrae la mente dall’oggettività del momento. Ci si spegne un attimo e tutto appare più chiaro: la linea bianca che si dispiega verso il cielo si presenta chiaramente e ci sancisce che salire è esattamente la cosa per cui siamo qui.
Chissà Gian Carlo Grassi quante volte li ha dovuti fare questi conti prima di scrollarsi di dosso l’aggettivo di Calimero e di poter essere seriamente preso in considerazione come alpinista.
Una lunga gavetta per diventare “qualcuno”
Gian Carlo dovette fare quella che si dice una lunga gavetta e a poco gli valsero le grandi classiche dell’epoca inclusa la Walker a 23 anni, per diventare “qualcuno” dovette inventarsi un nuovo mondo, fatto di ricerca, di attese, di lunghe ombre e di defilati profili che celavano quelle linee bianche pregne di dubbi ed inquietudini.
Con una poco attenta lettura, si potrebbe dire: “Quante ore di marcia, quanta fatica e quale prezzo ha pagato per diventare un punto di riferimento?”
Sicuramente se da una parte, Gian Carlo, voleva riscattarsi dalle facili ironie fatte sul suo modo di essere e magari anche sul suo aspetto, dall’altra non aveva certo un premeditato disegno per cercare di diventare “qualcuno”.
Lui andava e faceva, guidato da una sorta di demone che presiedeva la sua passione e che, solo in un secondo tempo, gli permetteva di voltarsi indietro e di vedere lo spessore delle sue realizzazioni.
Per lui qualsiasi salita era un’impresa che conteneva del bello e del giusto e battezzava ogni itinerario con dei nomi significativi atti a dare alla salita un corpo e una identità ben definita. Uno di questi molto significativamente fu: Un’attesa che non paga e in questo c’era tutto lui, tutto il suo spirito, le sue insoddisfazioni e insieme alla sua ritrosia subalpina, un’iniziale consapevolezza di aver segnato in modo indelebile venticinque anni di alpinismo.
Un precursore assoluto in tutto
La sua traccia collega molteplici esperienze vissute e lette con il fanciullesco occhio del poeta. E’ in questa chiave che il suo lungo e solitario rientro dal tentativo alla cresta ovest dell’Everest, come pure l’osservare il lento cristallizzarsi dell’acqua, diventavano ricchi momenti di analisi ed interiorizzazione che lo avvicinavano maggiormente all’essenza stessa dell‘uomo. La sua poliedrica attività di ricerca lo portava a trattare con lo stesso spirito e quindi ad avvicinare le grandi salite in giro per il mondo alle falesie dietro casa, le cascate di ghiaccio con il boulder in un’entusiastica commistione senza soluzione di continuità. In questa sua traccia se si fosse fermato un attimo avrebbe potuto chiaramente vedere di essere un precursore assoluto in tutto.
Tuttora, e soprattutto all’estero, Gian Carlo è ricordato per le imprese compiute su ghiaccio, elemento questo che gli era certamente più congeniale. Ma nella sua carriera di alpinista non dobbiamo dimenticare che fu uno dei primi italiani ad andare in Yosemite e che data addirittura 1982 il libro che, in seguito ad un meticoloso lavoro di ricerca e “ripulitura”, pubblicò sul sassismo. Attività che, a 25 di anni distanza, è diventata, per noi, popolo ormai di lingua inglese, Boulder e in cui i vecchi materassi di allora, si chiamano Crash pad.
Gian Carlo Grassi. Archivio: Vincenzo Pasquali
Formò cordate straordinarie e incrociò carriere inimitabili
Ai suoi tempi o meglio a quei tempi, l’avventura era ancora totale anche a due passi da casa. Non eravamo ancora nell’epopea dell’informazione quasi preventiva: senza telefoni cellulari era difficile comunicare con Tecnocity (come aveva battezzato lui Torino). Quindi, in caso di ritardo, una sia pur difficile salita nelle valli di Lanzo poteva assumere toni di drammaticità assoluta. Le tecniche di scalata poi erano ancora del tutto da sancire, catalogare e affinare. Paolo Caruso aveva forse le braghe corte, per cui chi era dotato arrampicava meglio di chi lo era un po’ meno mentre quelli proprio scarsi arrampicavano su ghiaccio. Il tooling poi, molto o poco dry che fosse, nelle goulotte era il pane quotidiano. Non esisteva una scala di difficoltà mista e quindi gli attuali M4, M5 erano valutati con un “M… amma mia sono passato!”. Ma basta rimandare la memoria a quanto scrissero lui e Gianni Comino di ritorno dalla prima salita all’Ypercouloir delle Jorasses per capire a cosa mi riferisco in merito al tooling (Grassi scrisse che Comino con gesti funambolici vinse una stalattite di ghiaccio, cariato e putrido, appendendo le staffe ad una piccozza e usando l’altra per agganciare delle asperità sulla roccia).
Grassi, formò cordate straordinarie ed incrociò carriere inimitabili come quelle di Casarotto, di Gabarrou o di Damilano. Scalò con i migliori del suo tempo, dal già citato Comino a Motti, da Bernardi a Manera per incrociare nel magico periodo del Nuovo Mattino lucentissime meteore come Danilo Galante che purtroppo non ebbero il tempo di esprimersi appieno. Pur non avendo un carattere facile, non era assolutamente affetto dalla sindrome del primo della classe e scalava volentieri sia con i clienti che con gli amici. E, aprendo vie nuove sia con gli uni che con gli altri, riusciva in qualche modo a far sì che fossero loro a sentirsi davvero i primi della classe.
Gian Carlo Grassi. Archivio: Vincenzo Pasquali
Bivacco Lampugnani-Grassi e Cima Grassi
Finalmente dopo tanti anni di lavoro il gruppo degli amici più vicini è riuscito nel 2011 a far sì che la memoria di questo uomo e alpinista fosse ricordata come merita e il Club Alpino Accademico a seguito della sostituzione del bivacco Lampugnani al colle Eccles ha voluto co-dedicargli questa nuova struttura intitolandola Bivacco Lampugnani Grassi. Ogni progetto ha un inizio e una fine, e il suo progetto lo ha finalmente riconosciuto grande tra i più grandi collocando il suo nome a guardia di uno dei luoghi più romantici del Monte Bianco, dove tanti altri alla luce delle loro frontali inseguiranno quella sottile linea bianca che si dispiega verso il cielo.
Anche l’idea di dedicargli una cima ha trovato compimento. La Cima Grassi si trova sul versante Italiano del Monte Bianco nel bacino di Rochefort a 3095 metri, proprio su quella cima innominata che vide Gian Carlo aprire la sua ultima via nel gruppo del Bianco. Rimane il rammarico che per la Regione Valle d’Aosta si tratta di un toponimo non ufficiale in quanto la Regione non intende modificare i toponimi, mentre l’Istituto Geografico Centrale sulle proprie carte ha indicato la Cima Grassi.
Attualmente tutti gli scritti di Gian Carlo Grassi, le fotografie, il materiale alpinistico a lui appartenuto, sono stati donati dalla famiglia al Museo Nazionale della Montagna di Torino, ed è in preparazione la sua biografia.
Finalmente ripensando a lui e a Un’attesa che non paga sono felice di dirgli che aveva torto e che l’attesa paga, talvolta tardivamente, ma paga.
Elio Bonfanti
Nato a Torino nel 1961 è Istruttore Nazionale di Alpinismo ed Istruttore di Arrampicata libera. Libero professionista e quindi alpinista soltanto nel tempo libero, arrampica dal 1978 e ha all’attivo vie nuove sia su roccia che su ghiaccio, alcune delle quali aperte con l’indimenticabile Gian Carlo Grassi. Ha scalato anche in Norvegia, Giordania, Madagascar, Canada e nelle Ande peruviane.
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“Doccia Fredda” ispirato dalla sua guida dei massi della Val di Susa , è il nome che abbiamo dato nel 1985 una delle più importanti nostre realizzazioni.
Grazie Giancarlo.
Grazie Elio.
Bravo Elio, grazie per aver rinnovato le emozioni che ancora suscita in noi la figura di Grassi.
Ricordo con piacere quanto mi ha concretamente ispirato il suo discorso carico di misticismo nel 1980 durante la serata sua e di Comino su quel “Ponte di Cristallo” che come disse lui “unisce la terra al cielo” e di come ho poi seguito, come stregato da quella percepibile passione che sapeva trasmettere con i suoi scritti, il suo agire sui massi della Val Susa e sulle sue difficili cascate nelle valli torinesi.
Non mi piace quando grazie all’alpinismo si vuole “diventare qualcuno”… qualcuno inutile, dato che è un “conquistatore dell’inutile”.
Mi sembra che per questa gente la spinta principale per fare alpinismo sia un senso di incapacità e di frustrazione che pervade la propria vita.
E tanti alpinisti famosi nelle cronache moderne sono così, mentre quelli molto bravi come Grassi dimostrano continuamente di avere principalmente altre spinte molto più belle.
“Va’ dove ti porta il cuore.”