Volontariato, passione, partecipazione esclusiva: ecco i maggiori connotati delle scuole di scialpinismo del CAI. Circa 70 anni fa fu fondata la prima di queste scuole, la SUCAI di Torino. Dopo ne vennero altre, grandi e piccole, un proliferare di corsi che oggi raggiungono la novantina. E venne l’esigenza di uniformare insegnamenti, metodi e strutture organizzative. In una società dove il professionismo avanza sulla via del non ritorno, l’insegnamento dello scialpinismo resta ancora oggi una pratica curiosamente amatoriale.
Tutti in fila come fanti, uno dietro e l’altro avanti
di Paola Mazzarelli
(pubblicato su Alp n. 6, ottobre 1985)
Sullo spiazzo innevato sotto le prime baite del paese stanotte è passata la lepre vagabonda. Le tracce si perdono sul ghiaccio della strada e ricompaiono più in là, tra gli alberi dietro la fontana. Chissà dove andava? Cielo bianco d’inverno. I tre scaricano gli sci dall’auto e cominciano a preparare i sacchi. Giornata ideale. Le cince vanno e vengono tra i rami dei larici.
Arriva un pullman, dice il primo.
E’ il torrente, dice il secondo tarando l’altimetro. Silenzio. Le baite guardano a valle e sogghignano. Pullman, dice il terzo. Ed ecco, il pullman esce dall’ultima curva sbuffando. Oddio, sono due. O sono tre? No, quattro sono. L’ultimo però un poco più piccolo. Nooooo! La SUCAI! All’improvviso lo spazio brulica di gente, sci sbattuti qua e là, voci, grida, un clamore d’inferno. Ci saranno duecento persone. I tre si guardano intorno: proprio qui dovevano venire? E, carta alla mano, cominciano a studiare un altro itinerario. Oppure (ma proprio qui?) partono di corsa, sperando di lasciare indietro la massa urlante e confusa. Ma la discesa, la discesa bella, la discesa solitaria silenziosa, la discesa nella neve leggera recente segnata da tracce di lepre… discesa rovinata. Duecento su quegli ampi pendii nel rado del bosco sfregiano tracce infinite. E figurati in cima, pianteranno un casino…
La SUCAI, maledizione di ogni sciatore alpinista che non le appartenga, amore appassionato di ogni suo figlio convinto, casa, famiglia e chiesa. La SUCAI, nel frattempo, si sta organizzando. Uno dei gruppetti che si vanno formando tra grandi richiami è pronto a partire. Anzi, è già partito veloce, all’inseguimento, si direbbe, dei tre. È il gruppo di apertura. Gli altri seguiranno le loro tracce: una lunga fila che si snoda su per il monte. Tutti in fila come fanti, uno dietro, l’altro avanti. Ogni istruttore, con i cartellini degli allievi in mano, va urlandone i nomi per lo spiazzo. Giovanni Mariniiiii! Teresa Sanpietrooooo! lolan-daaaa! Ignazioooooo! Mille lireee! Mille lire al pezzooo! Donneee, oh donneeee!
Stessa scena tutte le domeniche, e se non è una valle del Cuneese, sarà sulle Prealpi Lombarde… dovunque arrivi una scuola di scialpinismo del CAI, anche se nessuna raggiunge le dimensioni di quella torinese quanto a numero di allievi e di istruttori. Chi ha detto che lo scialpinismo è l’andare per solitudini e silenzi, lento camminare tra i boschi, lepri, cince e baite abbandonate? Per chi frequenta una scuola del CAI lo scialpinismo è altro, o meglio, è anche altro: una domenica sì, una domenica no, è festa di gruppo. E il gruppo tu lo puoi denigrare, rinnegare, accusare, lo puoi magari fin disprezzare, ma se sei sullo spiazzo stamani ad incollare le pelli, non puoi non amarlo. Ché il gruppo sei tu. Una domenica sì, una domenica no, per tutto l’inverno gli impresti la tua anima. E capita spesso che quasi senza accorgertene tu gliela impresti per anni… Eri allievo, due anni, tre anni di gite fedeli, poi ti hanno dato il distintivo e voleva dire: ecco hai imparato quello che c’era da imparare (più o meno s’intende), vai per la tua strada… E tu, che pure ci vai per la tua strada e per altre montagne, invece ritorni, una domenica sì, una domenica no, a seguire la fila. Chissà come mai?
Si registrano, nelle scuole del CAI, strane sparizioni temporanee e ancor più strani ritorni, insistenti attaccamenti, devozioni che a volte durano tutta la vita. Se ve ne allontanate per qualche tempo, tornando trovate che, sì, la maggior parte degli allievi ha facce nuove, ma tanti di quelli che c’erano allora sono ancora lì. A partecipare da istruttori. O da “distintivati”, ruolo senza obbligo alcuno, altro che quello della comune passione. Non tutte le scuole ammettono i “distintivati” e non a tutte le uscite. Pure sono loro, aggregati non importa se per entusiasmo, amicizia e piacere della compagnia, o per abitudine, o forse per incertezza di altre montagne, a tenere le fila della coesione del gruppo. Ed infatti, per quanto le persone possano cambiare nel tempo, che strano, a voi sembra siano sempre le stesse. Come si avvicendano le generazioni, ma è sempre la stessa famiglia: il sangue lo abbiamo in comune.
Una scuola del CAI è come uno di quegli essere mitologici che si riproducono e si perpetuano da se stessi e se anche gli tagliate la testa, e questo inevitabilmente succede in tutte le storie, loro ne sfornano un’altra uguale alla prima, ma più adatta alle nuove circostanze, e incredibilmente ricominciano a parlare e ad andare in giro per boschi e montagne. E viene da pensare, allora, che ci sia un’anima dentro le istituzioni e che gli uomini non siano che la sua incarnazione temporanea. Infatti…
Infatti, circa 35 anni fa, fu fondata la prima di queste scuole all’interno di una sottosezione del CAI di Torino, la SUCAI appunto, Sottosezione Universitaria che aveva «il compito di promuovere l’attività alpinistica tra gli studenti medi e universitari…» Dati i tempi, la connotazione sociale era precisa. Del resto lo sci era allora ancora attività d’élite. Dopo la prima ne vennero altre, grandi (chi non ha sentito nominare la Righini di Milano o la Gilardoni di Como?) e piccole, un proliferare di scuole e corsi che oggi raggiunge la novantina. E con le altre venne l’esigenza di uniformare insegnamenti, metodi e strutture organizzative. Ci furono incontri e riunioni, vennero stesi e migliorati i regolamenti, introdotte novità, istituiti corsi e uscite di aggiornamento per istruttori. Gli istruttori oggi non sono più nominati dalle singole scuole, come accadeva all’inizio, ma vengono formati ai corsi regionali e nazionali tenuti dalla Scuola Centrale di Sci alpinismo del CAI. Tuttavia essi provengono sempre dalle file degli allievi di ogni singola scuola e in essa restano, di solito, per tutto il tempo in cui svolgono l’attività. Rarissime e spesso infelici sono le immissioni di “sangue nuovo” e non perché non ci siano in giro sciatori alpinisti in grado di insegnare nelle scuole del CAI, ma perché la competenza tecnica è solo uno, e forse neppure il più importante, dei requisiti di un istruttore. Come potrebbero gli altri sciatori alpinisti, quei tre che stamani si avviano felici alla loro splendida montagna solitaria, di punto in bianco decidere: veniamo con voi, oh che bella compagnia! Questa di riprodursi da se stesse è la forza che tiene in piedi oggi le scuole del CAI e costituisce la loro natura di “mostro” vagamente preistorico, apparentemente inconcepibile eppure misteriosamente vitale. Unico, anche, nel suo genere. Infatti per il momento altre scuole di scialpinismo in Italia non esistono. Che le guide, con le associazioni e le cooperative che in questi tempi si vanno formando, e le altre istituzioni pubbliche e private che si stanno affacciando al mercato della montagna sembrano per ora interessate ad altri aspetti dell’alpinismo e se di scialpinismo si parla, si tratta sempre di “gite” mai di “corsi”. Ma una scuola nonostante l’atmosfera da ritrovo sociale che pervade ogni uscita, non è solo una successione di gite organizzate e ciò che vi si insegna, a ben guardare, non è solo la competenza tecnica.
Quando sorse la prima scuola in Italia, doveva esserci, nel gruppetto fondatore, un gran desiderio di ricominciare, dopo la parentesi di disastro e di inattività della guerra, ad andare in montagna e soprattutto la voglia di ricostruire quanto in quegli anni era andato distrutto. O di costruire ex novo. E poiché il gruppo, pur annoverando buoni alpinisti, si era dedicato prima della guerra soprattutto allo sci, fu a una scuola di scialpinismo che essi pensarono. Cominciava allora il boom dello sci di discesa e forse ci fu, fin dall’inizio, il desiderio e il piacere di sfuggire alla massa che anno dopo anno più vorace e onnipresente andava invadendo le montagne. Ma certo ci fu soprattutto la passione, non solo di sciare su o giù per pendii, ma anche di fare, organizzare e dare forma al mondo. Che la prima scuola uscì non a caso, dalle mani e dalla testa della borghesia imprenditoriale del Nord. Il termine va inteso in senso lato, non tanto riferito al censo, amianto allo spirito che animava il gruppo, il piacere di fare, la necessità di costruire, quel riconoscersi nell’azione che è stato la molla di tutta una parte della borghesia ottocentesca e che ancora freme dentro le strutture delle scuole di oggi. Passata al vaglio, s’intende, della storia contemporanea. Perché è certo che queste scuole non potrebbero esistere se non andassero, almeno un poco, al passo con i tempi. Ma i tempi sono poi tanto diversi? Così venne fondata la scuola. A tenerla in piedi c’erano i saldissimi pilastri di cemento armato del volontariato, anima a tutt’oggi delle scuole e di quasi tutte le attività del CAI. Anima piena di vita, appassionata ed entusiasta, che affonda le radici nell’antico, fertile terreno della filantropia ottocentesca: tempo libero e impegno sociale uniti al servizio dell’ottimismo riformista. E insieme al volontariato c’era, incrollabile, a giustificare la scuola, la concezione della montagna non come bene di consumo (ah, la massa!), ma come apprendistato, esperienza e perciò conoscenza. Dai padri ai figli passa la conoscenza, da istruttore ad allievo, dall’anziano al giovane. All’interno di ogni scuola esistono i “maestri”, figure che ne costituiscono il nucleo interno ed essenziale, intorno ai quali si coagulano tutte le energie e la cui competenza viene universalmente riconosciuta non tanto in base ad eventuali qualifiche ufficiali, quanto per doti morali, personalità ed esperienza. Quando il corso brancola nella nebbia fitta e il “volo strumentale” diventa reale necessità e non più esercitazione, o quando una qualsiasi situazione di emergenza si profila all’orizzonte, i ruoli vengono automaticamente e tacitamente ridistribuiti e non necessariamente secondo le gerarchie ufficiali, che servono, piuttosto, per l’esterno e alle quali compete essenzialmente lo sforzo organizzativo. È la configurazione di un gruppo sostanzialmente a carattere spontaneo.
E così spontanea e poco organizzata, può apparire a un occhio distratto la folla che si incanala su per il monte, prima nel bosco e più su per gli ampi pianori, allargandosi un poco a ventaglio, ma senza deviare mai troppo dalla traccia segnata dal gruppetto di apertura. Qui e là lungo il percorso qualche istruttore, preso dall’improvviso desiderio di far sperimentare agli allievi la gioia dei percorsi alternativi, timidamente va zigzagando deviazioni lungo il pendio. Ma sempre tiene d’occhio la fila. Fila filera una pecora nera… inevitabili intasamenti ai punti obbligati. E non pestarmi le code! Dall’altra parte del vallone i tre si rallegrano di aver genialmente evitato le processionarie e guardano la cima del colle su cui “quelli” vanno addensandosi. Blu è il colore del cielo sopra le cime. Quel giorno abbiamo visto il mare dalla vetta del monte e lontano lontano, sembravano nuvole, i picchi innevati della Corsica azzurra. Poi arriva anche il gruppetto di chiusura, trascinando gli ultimi scoppiati. Io il gruppo zero non lo voglio più! E alla prossima riunione la direzione si scervella; a chi io diamo questo famigerato gruppo zero? A turno gli istruttori improvvisano pazienza: ancora un passo e siamo arrivati. Quanto manca? Manca poco, già si vede il colle. Passano cinque minuti. Quanto manca? Poco, quasi ci siamo. Quanto manca? Poco, non fermarti. Camminare diventa un’esercitazione: un passo dopo l’altro senza fermarsi mai. Si dice di Toni Gobbi che riuscisse a portare chiunque dovunque col suo lentissimo passo costante.
Dedizione di padre. Dai padri ai figli passa la conoscenza, E i figli diventeranno padri e i giovani diventeranno anziani. E gli allievi, istruttori. Quanto manca?
Sui libretti degli allievi, che ogni istruttore riceve all’inizio della gita, sono segnate, oltre alle capacità individuali, espresse in voti o giudizi, le esercitazioni del giorno, No! Di nuovo l’accoppiatore! Che palle, il “gommone”, l’avrò fatto cento volte! Il cuneo di slittamento? Ma che cuneo vogliono che si faccia se non c’è un filo di neve?… E invece, in discesa, eccoli tutti a eseguire esercitazioni. Con impegno. Spesso all’avanguardia, la scuola di Torino ha introdotto nel corso degli anni una serie di innovazioni, poi riprese dalle altre scuole: anni fa fu il “gommone”, slitta gonfiabile studiata appositamente per le esigenze della scuola che il gruppo di chiusura tiene a disposizione di eventuali infortunati. Piuttosto maneggevole e di rapido montaggio, rappresentò allora un notevole passo avanti rispetto al tradizionale e infinitamente più scomodo accoppiatore, che tuttavia, per ragioni di peso, viene preferito nelle gite private. Poi vennero gli ARTV (apparecchi di ricerca travolti da valanga), comunemente detti “pieps”, dal modello allora in uso, sulla cui adozione non ci fu nulla da discutere. L’ARTV è come le pelli e gli sci: se lo dimentichi a casa, niente gita. L’esercitazione con gli ARTV è sempre d’obbligo, non c’è neppure bisogno di segnarla sul libretto. Recentemente, poi, sono state perfezionate e messe a punto alcune tecniche di studio della neve: cuneo di slittamento, esame del profilo del manto nevoso, esame dei cristalli, ecc. In teoria, ogni allievo, nel giro di due o tre anni, esegue le esercitazioni fondamentali un numero di volte sufficiente ad acquisire le nozioni indispensabili ad uno sciatore alpinista completo. Ciò significa imparare a usare carta, bussola e altimetro, ARTV e gommone, ma anche a scendere su tutti i terreni, ad osservare e valutare le condizioni della neve, a scegliere l’itinerario. Punto dolente, questo, di tutte le scuole. Non è facile insegnare l’autonomia quando si procede su tracce già esistenti. Uno dietro, l’altro avanti, C’è il passo della processionaria. Ci sarà anche la mentalità della processionaria? Ti ricordi quei bruchi, come giravano in tondo in tondo in tondo, finché caddero sfiniti? Ma le larve delle processionarie diventano farfalle.
E così chiacchierando (quanto si chiacchiera in gita, quando finalmente l’allenamento ce lo consente!) si arriva alla primavera splendente, gite di due giorni, ampi spazi e ghiacciai. Lenta cammina la fila. Scialpinismo, sport della pazienza: lenta conquista, inutile riderne, di passi e misure, occhi per vedere, gambe per camminare, terreni da conoscere, fiato da accumulare. Anno dopo anno. Un passo dopo l’altro senza fermarsi mai: se uno non si ferma, con gli sci cammina sempre. E infatti nelle scuole, specie le più antiche, si rinnovano e si affiancano le generazioni. Padri e figli, letteralmente. Dinastie dove la passione si tramanda col sangue e con la cultura. Con le foto di nonni sciatori appese nello studio. Con racconti di viaggi in treno (terza classe, mica come oggi) per andare a sciare. Con le pubblicazioni del CAI, anno milleottocentosessantatrè, reperite nelle soffitte di casa e conservate gelosamente a testimoniare… Antiche e profonde sono le nostre radici. Grande è la nostra passione. Una domenica sì, una domenica no. E poi: una domenica sì, un’altra domenica anche, Le gite private rinforzano la scuola e la scuola corrobora le gite private. La scuola non starebbe in piedi da sé, struttura fondata su niente, se essa non fosse il luogo ideale, ma anche tangibile di infiniti, sotterranei o scoperti, ma sempre coinvolgenti rapporti di gruppo. Libera da ogni costrizione, la scelta della propria passione cementa amicizie che solo a un estraneo possono parere occasionali. Amicizia in montagna? Inevitabilmente ci si sceglie i compagni. Frutto del gruppo, la scuola è molto più che una struttura atta ad organizzare una gita di cento o duecento persone. Essa comprende ed esclude, delimita il mondo, ritaglia lo spazio in cui ognuno si riconosce. Questa coesione interna consente all’individuo, allievo, distintivato o istruttore, di tornare ogni anno a percorrere le stesse avventure. Nello spirito della scuola ogni partecipante ritrova se stesso. Non stupisce che qui si alimentino amicizie, affetti e rapporti. Dio li fa e la scuola li accoppia. Tutt’intorno fioriscono iniziative: sarà un gruppo escursionistico o un corso di alpinismo, un coro o un’uscita in “piola”, una pubblicazione o un bollettino, sarà un distintivo da appiccicare all’auto o una spedizione himalayana, una caccia al tesoro o un concorso fotografico… ogni gruppo manifesta se stesso e in ciò si conferma. E garantisce a te, proprio a te che ne fai parte, uno spazio ben preciso, e sicuro, in cui tu sei finalmente come tutti gli altri. Via, via dalla pazza folla.
Infine la vetta, dimora del gruppo, segno tangibile dell’appartenenza. Qui si rinnovano i riti. Finché la chiusura, spazientita da tanta lentezza di cori e picnic, spinge a valle i gruppi che indugiano ancora. Scendere! Scendere! Riprende la sfilata, ora un poco più caotica. In discesa, ognuno crede di essere re. Gli anziani, che non provengono dalla facile leggerezza delle piste, gridano ai giovani che non è il caso di trasformare il bosco in un percorso di slalom e insistono per un’ultima esercitazione. Tutti in fila, passare dove passano gli altri, fermarsi dove si ferma l’istruttore: discesa scialpinistica, in previsione di futuri percorsi su ghiacciaio e ardite traversate per terreni difficili. Ma le capacità sciistiche dei giovani che hanno imparato sulle piste costringe gli istruttori ad aggiornarsi sulle tecniche di discesa. Non basta scendere. Bisogna scendere bene. Progressivamente, il limite si sposta verso terreni più ripidi, canali e pendii dove un tempo nessuno passava. Scendere! Scendere! Il mostro si muove, si dilata, si sfrangia in mille tracce sui pendii, poi scompare nel bosco fino ad affossarsi nell’inevitabile boschina del fondo valle. E si ricompone, in inesauribile allegria, nella “piola” del paese. Non è anche questo curioso, che non sorgano mai, dentro le scuole, contestazioni di sorta? Non ci sono allievi più docili di quelli di un corso di scialpinismo del CAI. Ma ciò non deve stupire: all’interno di un sistema intimamente coerente l’adesione non può essere che totale. Se le dissonanze esistono, esse sono piuttosto il riflesso di differenze che di proposito vengono lasciate il più possibile fuori dalla scuola. Istruttore, padre mio. E i figli diventeranno padri. E gli allievi, istruttori. Inevitabilmente conservatore, il mostro cambia testa, ma resta se stesso. Finché non verrà un cavaliere, armato di spada…
I 70 anni della Scuola Nazionale di scialpinismo della SUCAI Torino
di Carlo Crovella
La celeberrima Scuola di scialpinismo della SUCAI di Torino, la prima in Italia, compie 70 anni di attività. O, meglio, il prossimo corso, che le restrizioni consentiranno di realizzare, sarà il settantesimo della sua storia, considerato che il primo corso risale al 1951-52. La Direzione in carica ha in programma una prossima serie di celebrazioni, non ancora completamente definite in dettaglio (anche per le incertezze generali): chi fosse interessato potrà trovare in futuro le informazioni sul sito ufficiale (www.scuolasucai.it).
Prima di iniziare la lettura di questo articolo è doverosa una precisazione di fondo. Queste mie riflessioni non si occupano dei successi tecnici della Scuola, cioè quante gite, di quale livello tecnico, le traversate, gli itinerari d’alta montagna, il numero degli allievi e quello degli istruttori, ecc., tutti elementi ben noti e che hanno lasciato splendide tracce anche in campo editoriale.
Né mi preoccupo, in queste righe, di evidenziare l’efficacia didattica della Scuola, poiché è risaputo che chi ha frequentato la SUCAI ha assimilato un metodo rigoroso di approcciare la montagna a tal punto che, da come si “muove” sul terreno, lo si riconosce anche a distanza di anni. Inoltre l’elevata cultura della montagna innevata (e non solo) elaborata in seno alla SUCAI ha spesso prodotto importanti frutti editoriali.
Le mie riflessioni si propongono invece di analizzare i risvolti meno noti al grande pubblico e sostanzialmente inerenti al “valore” esistenziale che assume, per chi ci crede, il far parte di un’istituzione del genere.
Frequentare la SUCAI non significa solo imparare ad affrontare la montagna, ma soprattutto imparare un certo modo di affrontare la vita, anche al di fuori della montagna. Per questo motivo la SUCAI lascia un timbro pressoché indelebile anche in chi, col tempo, si è allontanato dalla partecipazione attiva e sistematica alla vita della Scuola: sucaini si resta per sempre.
Andiamo con ordine, partendo dall’inizio. Su GognaBlog si è già parlato dell’evoluzione storica che portò, nel dopoguerra, alla creazione del Corso di scialpinismo della SUCAI (vedi https://gognablog.sherpa-gate.com/storia-della-sucai-torino-1/ e https://gognablog.sherpa-gate.com/storia-della-sucai-torino-2/). E’ utile però rinfrescare sinteticamente il tema, specie per chi non l’ha seguito in precedenza.
In seno all’ambiente alpinistico torinese degli anni ’30, imperniato sui celebri accademici del momento (Gervasutti, Chabod, Boccalatte, Rivero, Bollini, De Rege, ecc.) emerse il progetto di fondare una scuola di alpinismo, che fu dedicata nel 1939 a Gabriele Boccalatte, scomparso l’anno precedente.
Fin dall’inizio come Direttore unico della Scuola Boccalatte fu nominato Giusto Gervasutti, che resterà in carica sino alla sua scomparsa nel 1946. La visione gervasuttiana si incentrava su una montagna a 360 gradi, cioè sviluppata lungo tutto l’arco dell’anno, quindi anche nei mesi invernali con l’utilizzo degli sci. Non è noto a tutti che Gervasutti, oltre che rinomato alpinista di punta, fu anche un grande appassionato di scialpinismo: era socio dello Ski Club Torino, oltre che del CAI Torino, e accanto ad alcune prime sciistiche (dalla Nordend con Emanuele Andreis e Paolo Ceresa alla Becca di Gay con i fratelli Giraudo, solo per citare quelle che vengono in mente al volo), si dedicava anche a gite scialpinistiche di medio livello, spesso per il puro piacere della compagnia.
Di conseguenza, la visione didattica che il Direttore Gervasutti travasò nella Scuola Boccalatte risentiva della sua concezione trasversale della montagna e infatti prevedeva anche un corso invernale con l’utilizzo degli sci: si trattava dell’abbozzo concettuale dei corsi di scialpinismo. L’attività della Scuola Boccalatte purtroppo incappò nello scoppio della guerra e non poté esprimersi pienamente.
Già sul finire del confronto bellico e a maggior ragione dopo la Liberazione, Gervasutti si avvicinò ai “giovani” della rinata Sottosezione SUCAI Torino, verso i quali si poneva come un fratello maggiore, fornendo loro consigli per la ripresa dell’attività e assumendo anche la carica di direttore editoriale della loro pubblicazione, che purtroppo non poté proseguire a lungo per le ristrettezze finanziarie del periodo.
Con tali presupposti fu naturale che la Scuola Boccalatte, sotto la direzione di Gervasutti, confluisse nell’alveo istituzionale della Sottosezione SUCAI. Si realizzò una convergenza fra i blasonati accademici e i giovani sucaini, alcuni dei quali diventarono aiuto-istruttori della Boccalatte.
Purtroppo Gervasutti incappò in un incidente fatale al Mont Blanc du Tacul (settembre 1946). Ciò nonostante la Scuola Boccalatte visse ancora diverse stagioni soddisfacenti. Tuttavia il progressivo defilarsi degli accademici d’ante guerra, per fisiologici motivi anagrafici, ed alcune specifiche vicissitudini (tra le quali l’improvvisa scomparsa di Giulio Castelli, principale organizzatore della Scuola) spensero progressivamente l’attività della Scuola Boccalatte.
Nel frattempo (1948) venne fondata, al di fuori del CAI e su iniziativa di personaggi complessivamente “nuovi” rispetto al preesistente ambiente subalpino, un’altra scuola di alpinismo, che fu intitolata a Giusto Gervasutti (proprio perché era scomparso poco tempo prima). Dopo alcune peripezie amministrative, nel 1950 la Scuola Gervasutti entrò a far parte del CAI Torino, dove da allora ha svolto ininterrottamente la sua prestigiosa attività alpinistica di punta.
In seno alla Sottosezione SUCAI, pur accantonata l’esperienza della Scuola Boccalatte, continuava a covare sotto la cenere una certo desiderio dell’attività didattica. A differenza del passato, si preferì optare per il settore dello scialpinismo, anche per il più favorevole rapporto numerico istruttori-allievi.
Su iniziativa in particolare del sucaino Andrea Filippi (che, per combinazione del destino, era stato uno degli ultimi compagni di cordata di Gervasutti nell’estate del ’46) si giunse così alla creazione del “Corso Sci-Alpinistico Invernale” (1951-52).
Direttore del Corso era lo stesso Filippi, con un totale di sette istruttori, accompagnati da un preciso regolamento e da un’impostazione che ricordava molto quella gevasuttiana dei tempi della Boccalatte. Per esempio Giusto aveva “inventato” le lezioni teoriche a tema, che vennero riproposte anche nel corso di scialpinismo. Oggi sono considerate normale attività in qualsiasi scuola di montagna, ma in quella fase erano un’idea innovativa.
Il Corso di scialpinismo della SUCAI (il primo in Italia), riproponendosi anno dopo anno, si consolidò in attività sistematica, trasformandosi quindi in una vera e propria Scuola e aggiungendo, nel 1968, il titolo di Scuola Nazionale di scialpinismo. Nel tempo l’attività si è diversificata in numerosi corsi, di intensità e finalità differenti e complementari fra loro (iniziazione e perfezionamento), arricchiti, da una quindicina di anni in qua, anche dall’attività didattica nel campo dello snowboard-alpinismo (per maggiori info: www.scuolasucai.it).
L’ambiente SUCAI è sempre stato caratterizzato da una notevole propensione all’innovazione. Per esempio da un’idea sucaina, emersa durante il Primo Raduno dei Direttori dei corsi di scialpinismo (1966), a sua volta organizzato dalla SUCAI Torino, si giungerà alla creazione della figura di Istruttore Nazionale di scialpinismo (INSA): il primo corso INSA (Alagna Valsesia, 1968) fu diretto dal sucaino Renzo Stradella.
In questi settant’anni, di acqua sotto i ponti ne è passata moltissima, ma il sigillo SUCAI si è ben corroborato nel tempo. All’interno dell’ambiente l’interesse per la montagna è marcato, quello per lo scialpinismo è addirittura marcatissimo, ma far parte della SUCAI significa e comporta qualcosa in più che la semplice attività scialpinistica.
La SUCAI è l’alveo di una comunità, dove spesso si costruiscono amicizie che durano per tutta la vita oppure conoscenze che risultano reciprocamente utili anche a distanza di anni e non ultimo amori travolgenti e matrimoni consolidati.
La SUCAI è quindi un contesto in cui si prende a pretesto l’andar in montagna per trasmettere in realtà qualcos’altro: come comportarsi nella vita. Infatti si entra nell’ambiente come giovani allievi (a volte giovanissimi), negli anni si matura e magari si giunge a ricoprire il ruolo di istruttori, tramandando le conoscenze e le consuetudini alle nuove generazioni.
E’ una impostazione che ha attraversato tutti i settant’anni di vita della Scuola, nonostante le evoluzioni di organizzazione e di pensiero che una struttura istituzionale deve fisiologicamente registrare per tenersi agganciata all’evoluzione dei tempi.
Io ho registrato la più intensa partecipazione all’interno di quello che è stato il periodo (metà anni ’70-metà anni ’90) di massimo storico nelle dimensioni della SUCAI: quattro pullman e alcune auto (quindi 200 persone abbondanti) nelle gite invernali e circa 150-170 partecipanti alle uscite primaverili in rifugio e su ghiacciaio. Si tratta di un vero “esercito” che inevitabilmente deve muoversi con precise regole comportamentali, sia di gruppo che individuali. Senza tali regole sarebbe impensabile spostare in sicurezza dei numeri del genere su un terreno insidioso come la montagna innevata.
Queste regole che, se analizzate dall’esterno, possono apparire rigide e militaresche, non sono mai state vissute dai sucaini come imposizioni insopportabili. Anzi, è proprio lì il bello: l’implicito rispetto delle regole, spesso non scritte, è forse la prima voce nella funzione di scuola di vita cui punta un’istituzione di questa natura.
Nonostante il ridimensionamento numerico degli ultimi decenni (a seguito dell’evoluzione intervenuta nel mondo complessivo dello scialpinismo), le dimensioni della Scuola SUCAI restano significative (anche oltre 100 persone per uscita): il regime comportamentale non è mutato, ma ciò viene sempre vissuto con allegria e spensieratezza.
La SUCAI dà molto. Certo, occorre essere sintonizzati sulle corde dove si muove la dinamica umana ed ideologica dell’ambiente. La SUCAI è innegabilmente l’espressione della borghesia torinese e diffonde implicitamente tale visione, sia della montagna che della vita. Di conseguenza gli allievi, che spesso sono, anche anagraficamente, figli o nipoti di istruttori, “imparano” qualcosa di più e di diverso rispetto alle semplici nozioni tecniche (circa le quali la SUCAI è sempre stata all’avanguardia e spesso innovativa).
Per celebrare i settant’anni della nostra Scuola, è un piacere riproporre un articolo che fu pubblicato su Alp a metà anni ’80 a firma di Paola Mazzarelli. Paola (che fu collega di direzione negli anni della mia gestione della Scuola) è stata anche alpinista di rilievo, con un certo coinvolgimento nella Scuola Gervasutti, e a lei si devono apprezzate traduzioni di importanti testi di montagna provenienti dal mondo anglosassone.
In questo testo, Paola riesce a tratteggiare con particolare maestria i valori della nostra Scuola. Chi conosce il modo di fare dei torinese, coglie nel testo il sottile humor di stampo britannico che ci caratterizza. Tutto collabora per confezionare una piacevole lettura.
Vorrei infine aggiungere un tassello specifico. La SUCAI è stata importantissima anche per me e ha contribuito significativamente a costruire la mia personalità individuale. A ciò ha collaborato non poco anche l’assunzione di responsabilità operative. Infatti l’esperienza gestionale di una struttura così complessa affina la capacità organizzativa, corrobora la volontà decisionale, aguzza l’ingegno innovativo, consolida la pianificazione manageriale, alimenta la ricerca di soluzioni costruttive e, naturalmente, costringe ad un continuo confronto con le mille anime dell’ambiente, senza però derogare dalla propria linea di pensiero. Con infinita riconoscenza sottolineo che la mia personale esperienza gestionale della Scuola SUCAI mi ha sensibilmente aiutato nel prosieguo della vita, sia privata che professionale.
Anche per chi, dopo un certo periodo, si allontana dall’impegno sistematico nella Scuola, i valori sucaini continuano a permanere nel profondo. Ci si può allontanare (proprio come è capitato a me) anche perché, a un certo punto, non si ricerca più la montagna affollata e si sente invece l’esigenza dell’esplorazione e del silenzio. Tuttavia i valori della montagna “condivisa”, tipici dell’ambiente sucaino, una volta consolidati dentro ciascuno di noi, mantengono un segno indelebile per l’intera esistenza, in montagna come in città.
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Noi, sempre a biasimare il fiero Sabaudo, dobbiamo invece sapere che pure lui, sotto sotto, ha un cuore e un’anima! E, come me, si commuove ai raggi dorati del sole che tramonta sulle nevi dell’alpe.
Bravo Krovellik! ???
Roberto, non comprendo la “organizzazione gesuitica” attribuita alla struttura della Scuola. Qualcuno me lo sa spiegare? D’accordo che per i primi anni (1952 e seguenti) il punto di raduno per il pullman era al fondo di Corso Vittorio, davanti alla Chiesa di San Giovanni per permettere a chi voleva di prender Messa, ma di lì a dire che c’entravano i gesuiti ce ne passa. Prender Messa non era obbligatorio, ci mancherebbe!
Grazie per i due bellissimi articoli, che mi hanno risvegliato ricordi altrettanto belli. Rivedere le foto con volti conosciuti, compagni di tante gite è stata un’emozione. Entrambi gli articoli, ma soprattutto quello di Paola, hanno veramente saputo descrivere l’ambiente della scuola. Un allievo dei primi anni ’80, non giovanissimo, definì la scuola, apprezzandone la struttura “organizzazione gesuitica”, una definizione che mi è rimasta impressa.
Complimenti a Paola, per il bellissimo articolo, da un 94enne che ha fatto da levatrice e da padrino alla Scuola, quando è nata e quando ha preso la Laurea diventando Nazionale. Sulla Scuola è già stato scritto tutto però, “dans ch’a fassa neuit”, vorrei aggiungere ancora un aneddoto:
– prova di discesa con ferito. 4° Corso 1954-55. In una uscita decidiamo di fare la prova: senza dir nulla agli allievi per rendere realistica l’esercitazione, scegliamo un bel pendio terminante in un gran piano dove un istruttore (Marco Poma ?), scelto per la minuscola corporatura, fa un cascatone gigante. Subito si raccoglie una piccola folla di allievi e mentre prepariamo la slitta con gli sci dell’infortunato a mia moglie viene una buona idea: “invece di star lì a guardare, nessuno ha un po’ di grappa per ‘sto poveretto?” Così è stata una gara a dar conforto al poveretto con conseguente sua sbronza. Aggiungo poi che in discesa la slitta ribaltò… forse anche i soccorritori, Amedeo Peyron e Beppe Auxilia, per farsi coraggio qualche goccio l’avranno assaggiato.
bella la foto delle perle. Beati voi
Ho imparato moltissimo dalla sucai