Via nuova alla Pietra di Bismantova

Metadiario – 03 – Via nuova alla Pietra di Bismantova (AG 1968-003)
(scritto nel 2018, a parte il brano Passione e saggezza dell’alpinismo, aprile 1968)

Il nuovo stile di vita seguente all’invernale al Badile, al di là del tentativo invernale alla Concilio Vaticano II, non mi concede tanto tempo per pensare ad altre salite. Mi accontento delle uscite del corso di alpinismo al Picco Palestra (24 e 30 marzo 1968) e in Bajarda (7 aprile); con gli amici alla Rocca dei Banditi (31 marzo con non ricordo chi, Primo Risalto; 6 aprile, con Francesco De Marpillero, prima ascensione del Secondo Risalto; 13 aprile, con Nello Tasso, prima integrale del Primo e Secondo Risalto, più prima ascensione della via di Sinistra al Secondo Risalto).

Il 14 aprile (giorno di Pasqua) sono in Grigna: salgo solo lo spigolo nord integrale del Nibbio con Carla Monciatti, evidentemente per giornata piovosa. Il giorno dopo mi rifaccio: con Dario Pession salgo la via Campione d’Italia e con Gianni Calcagno la fantastica via Ratti, entrambe al Nibbio.

Una cordata in tempi recenti sulla via Marinella al Torrione Magnaghi Meridionale. Foto: Eugenio Pesci

Il dovere d’istruttore m’impone il 21 aprile di andare al Bric Camulà: mi rimane libera solo la giornata di sabato 20, che spendo alla Rocca dei Banditi con Nello Tasso, Francesco De Marpillero e un certo Eugenio (salendo per la seconda volta l’integrale).

Durante la settimana facevo serate e scrivevo. Uno dei pezzi che scrissi per la Rivista della Shell di Genova s’intitolava Passione e saggezza dell’alpinismo (vedi al fondo). Non è necessario essere critici letterari per notare quanto fossi intriso di razionalità, quanta cura mettessi nelle definizioni e nel significato di ogni parola, quanto tendessi a spaccare il capello, quanto volessi ridurre un’esperienza o una serie di esperienze dei canali della logica (l’unico strumento di comunicazione che secondo me allora tutti potevano comprendere).

Seguirono altri due viaggetti in Grigna con Gianni Calcagno. Il primo, il 25 aprile, ci portò per la seconda volta alla base della via Marinella al Torrione Magnagni Meridionale. A dispetto della giornata fredda e ostile fu la volta buona, ne uscimmo con onore, anche perché risultava essere la sesta ascensione. In qualche modo quella salita segnò la fine di un lungo programma di ripetizioni di impegnative vie della Grigna iniziato più di due anni prima. Avevamo potuto palpare più volte il pericolo, forse ne eravamo paghi, nel senso che, rischiare per rischiare, allora tanto valeva smetterla con le ripetizioni di vie agghiaccianti e prevedere invece delle prime ascensioni. Questi ragionamenti non implicavano di certo che per quel giorno ne avessimo abbastanza, tanto è vero che ci facemmo di corsa anche la via Comici al Nibbio. Il secondo viaggetto fu il 28 aprile, ancora tempo incerto. Portai Gianni sul Triangolo Industriale al Nibbio, prima ripetizione.

Maggio riportò la stagione della montagna: non potevo non dare una mano al corso di alpinismo. Salii alla Rocca Castello per la cresta nord, via Alloa-Magri (5 maggio, con Giorgio Vassallo e gli allievi Alba Coronzu, Edy Barbagelata, Carla Monciatti e Federico Galli). Più che quella giornata fu memorabile la notte precedente nei due alberghetti di Acceglio, dove alcuni di noi istruttori ne combinarono di cotte e di crude con altrettante allieve.

Agli Istruttori Gianni Calcagno, Alessandro Gogna, Augusto Martini e all’Aiuto-Istruttore Roberto Titomanlio
Genova, 11 maggio 1968

Costringere il Consiglio Direttivo del Corso di Alpinismo a scrivere “missive” come questa è di per se stessa una prova di poca amicizia nei riguardi dei suoi componenti, tanto più che gli stessi ritenevano di aver trovato, oltre che dei collaboratori, dei buoni compagni.
Il richiamare questi istruttori perché si attengano ad un corretto comportamento nell’ambito della Scuola di Alpinismo affinché non abbiano ad essere di cattivo esemplo per gli altri ben più numerosi colleghi che invece hanno dato sempre prova di attaccamento, serietà e dedizione ai compiti e ai doveri che la Scuola si propone, è un’altra prova negativa della loro maturità.
La cosa che più ci sorprende è che proprio quattro degli elementi che giudicavamo tra i “migliori” sotto ogni punto di vista ci abbiano costretto a questo.
Due di essi, poi, sono sempre stati tra i più esigenti in fatto di “provvedimenti” da prendere nei riguardi e degli allievi e degli Istruttori che lo avesseromeritato”; e uno, addirittura, ha largamente collaborato alla stesura del “regolamento, costituzione e programma” della Scuola di Alpinismo Bartolomeo Figari.
E’ qui il caso di rimandare gli istruttori, ai quali la presente è indirizzata, ad un’attenta lettura dell’art. 29 del regolamento, chiedendo loro come intendano possibile “mantenere con gli allievi rapporti tali da non compromettere il senso di disciplina ed il prestigio della Scuola di cui fanno parte” comportandosi nel modo con il quale sino ad ora si sono comportati.
Se possiamo ad un certo modo comprendere, ma non giustificare ed accettare certe effusioni fra un istruttore e una ragazza, che però sia sempre la stessa ragazza, giudichiamo scorretti, irriguardosi per tutti, certi atteggiamenti da “latin lover” assolutamente fuori di posti di alcuni fra Voi e diciamo loro chiaramente che questo comportamento non li qualifica degli invidiabili Casanova ma semplicemente del ragazzi immaturi al quali sono stati dati compiti troppo importanti per loro.
Non intendiamo prendere i provvedimenti che dovremmo, semplicemente perché siamo certi che non vi siete soffermati con la dovuta attenzione sulla gravità dei fatti, sulla “pubblicità negativa” che ogni provvedimento con le conseguenti spiegazioni alla “Presidenza” e al “Consiglio Sezionale” verrebbe a comportare, ed anche perché siamo convinti che questo duro richiamo sia sufficiente. Cerchiamo di porre le basi perché la Scuola di Alpinismo B. Figari sia veramente una scuola di prim’ordine (era il compito che noi tutti ci eravamo proposti) e quando non faremo più parte di essa rimanga di noi un buon ricordo.
Contiamo sulla vostra collaborazione, sulla vostra amicizia e speriamo che accettiate serenamente questi rimproveri.
Cordiali saluti, il Direttore Vittorio Pescia, per delibera del Consiglio Direttivo sezionale nella riunione del 10 maggio 1968
“.

La Pietra di Bismantova nel 1968

Finalmente riuscii ad andare al rifugio Questa con Nello Tasso. Mi è sempre piaciuta quella zona, con quel granito così franco e sicuro: c’era pieno di itinerari da ripetere e alcuni anche da fare ex novo. Era il 18 maggio. Nello galoppava come me su per la cresta est della Testa Margiola, l’itinerario più breve per raggiungere la parete sud-ovest del Giegn 2903 m in territorio francese. Su quella parete salimmo la via Dufranc-Cravoisier, una via del 1959. Poi galoppammo ancora, passando per la Brêche du Giegn e la Punta Marie André, poi ripassando per la Testa Margiola e raggiungendo alla fine il Caire Margiola 2840 m sempre per la cresta spartiacque.

Il giorno dopo ci sarebbe piaciuto fare una qualche “prima”, ma non eravamo riusciti a individuare un qualcosa che potesse metterci al riparo da una giornata chiusa tardivamente, vista la necessità di tornare a Genova in serata. Così decisi di portare Nello a ripetere la bella via che avevo aperto con Gianni Calcagno tre anni prima sullo sperone nord-ovest della Testa di Tablasses. Sapevamo che nessuno l’aveva ancora salita dopo di noi, dunque era la seconda ascensione. Nello ne fu felice, entusiasta. Non avrebbe potuto esserci nulla di più, per lui. Era un compagno silenzioso e molto affidabile: non voleva mai andare da primo, anche se ne aveva tutti i mezzi e le capacità. Diceva: solo in caso di bisogno. Con lui mi sentivo molto sicuro e sempre allegro.

Pietra di Bismantova, 1a ascensione della via del GAB, 8-10 giugno 1968. Gogna sul Tetto del Terrore

Condizione di umore che avevo anche la domenica dopo (26 maggio), sempre da quelle parti, sulla traversata della Cresta Savoia, fatta da nord a sud: ero con il corso, assieme agli istruttori Roberto Titomanlio, Gianni e Lino Calcagno e agli allievi Mario Goldberg, Carla Monciatti, Paola Astengo e Carla Galli.

La mia amicizia con Pietro Menozzi e Antonio Bernard mi portò alla loro città, Parma, per una conferenza. Ne approfittai per visitare quella famosa Pietra di Bismantova, di cui con tanto orgoglio mi avevano parlato. La mattina dell’8 giugno, in una bella giornata di sole, approdammo sul piazzale dell’Eremo, proprio alla base della parete. Allora si poteva ancora arrivare in auto… La roccia, così diversa dai soliti calcare e granito, avrebbe impensierito chiunque, ma non me, abituato alla puddinga e conglomerati vari. La Pietra è comunque uno spettacolo, così verticale e dalla roccia con colori così cangianti, dal grigio al giallo e al rosso. Vidi subito una linea di fessure che saliva diritta sparata verso l’alto e partiva giusto in fondo al piazzale con un tetto enorme solcato da strisce bagnate. Gli amici mi confermarono che nessuno era mai salito di lì: non solo, nessuno aveva mai neppure tentato.

Pietra di Bismantova, 1a ascensione della via del GAB, 8-10 giugno 1968. Gogna sulla prima lunghezza

Con Antonio andai a fare la bellissima via Oppio, un’arrampicata libera impressionante quanto estetica. E già scendendo per il bel sentiero confabulavamo per quel progetto. Sul piazzale c’era lo “stato maggiore” del Gruppo Amici Bismantova (GAB), una pericolosa congrega di amiconi non solo della Pietra ma anche del lambrusco e della caciara. Non mi sono mai tirato indietro di fronte a queste gioie della vita, ma non era ancora il momento. Non mi ricordo più dove recuperammo il materiale che presumibilmente serviva per salire il primo tetto, soprattutto i cunei. Forse li avevo io in macchina, come parte integrante dell’equipaggiamento, ma Gino Montipò mi suggerisce che altro non erano che pezzi di legna da ardere presi dalla legnaia dei frati Benedettini. Un’intera squadra era ai nostri ordini, per il cordino di servizio, per chiodi usciti chissà come dalle cantine. Non mi era mai successo che qualcuno, mentre mi arrabattavo nella chiodatura ostica, mi potesse passare tutte le bibite che volevo. Potevo scegliere tra aranciata, limonata e coca-cola, a volontà.

Pietra di Bismantova, 1a ascensione della via del GAB, 8-10 giugno 1968. Gogna quasi alla fine del Tetto del Terrore

Nel frattempo la folla di sotto era aumentata, la sentivo respirare o trattenere il fiato ogni volta che appoggiavo un chiodo e mi apprestavo a martellarlo. C’era anche chi m’incitava. Intanto io sullo strapiombo uscivo sempre più fuori, e il servizio d’ordine era costretto a far arretrare la massa che, d’altro canto, era sospinta in avanti da quelli che, nuovi arrivati, premevano da dietro. Il tetto, subito da qualcuno chiamato “il tetto del terrore”, in effetti strapiomba di otto o nove metri.

Dopo quattro ore di lotta e senza ancora aver finito il tiro fui costretto dall’orario a scendere, lasciando le corde appese: la conferenza a Parma non poteva certo essere rimandata. Così partimmo in fretta e furia, lasciando intendere che l’indomani saremmo tornati.

Pietra di Bismantova, 1a ascensione della via del GAB, 8-10 giugno 1968. Gogna quasi alla fine del Tetto del Terrore

Il mattino dopo, 9 giugno, la squadra d’appoggio era già in loco prima che arrivassimo. In più era domenica, dunque figuratevi a quanti sfaccendati e curiosi poteva essere arrivato il tam tam.

Tutto era pronto per la ripresa delle ostilità. Confortato da una corda che comunque mi assicurava passando per l’ultimo chiodo piantato, agilmente mi rifeci quasi tutto il tetto fino al punto massimo raggiunto e lì mi apprestai a riprendere il fine lavoro di cesello.

A un certo punto, quasi alla fine dello strapiombo, misi un chiodo del quale mi fidavo assai poco. Sotto, i primi della linea della folla, guardavano in apprensione. Antonio mi assicurava ben rintanato alla radice del tetto. I più attenti erano Giorgio Agostini, Gino Montipò, Alfredo Sentieri, assieme a qualche altro. L’Agostini era ben piazzato, un ragazzone peso massimo. Mi venne un’idea: appesi il cordino di servizio al chiodo sospetto poi chiesi a Giorgio il favore di appendersi con tutto il suo peso, per vedere se il chiodo teneva. Un boato di giubilo salutò Giorgio che, appeso al cordino, ballonzolava come uno scimmione ululando. Fino a che non solo il poveretto si ritrovò con il culo per terra, ma anche con in testa la ferita che il chiodo fuoriuscito e l’annesso moschettone gli avevano provocato. Un colpo di fionda pazzesco che per fortuna lo colpì solo di striscio.

Pietra di Bismantova, 1a ascensione della via del GAB, 8-10 giugno 1968. Antonio Bernard assicura Alessandro Gogna sulla 2a lunghezza.

Le sue condizioni non erano certo preoccupanti, lui da lì non se ne sarebbe andato neppure su costrizione. Così continuai, cercando di piantare il chiodo con maggiore ricerca e cura.

Alla fine approdai alla sosta, che tempestai di chiodi, ben felice di avercela fatta e soprattutto senza aver adoperato i chiodi a pressione. Tra cunei e chiodi su quel tiro ne avevo usati una trentina.

Cedetti volentieri la gloria di andare davanti sulla seconda lunghezza. Antonio la salì magistralmente, un duro tiro di 40 metri in fessura più volte interrotta da placche lisce e zolle d’erba.

Alle 18 circa, dopo già 9 ore passate appesi alla roccia, ci colse un violento rovescio di acqua e grandine che, infradiciandoci, ci costrinse a sospendere la salita e a discendere a terra, dove i numerosi gitanti e curiosi si erano dispersi come per incanto. Erano rimasti solo i più fidati della nostra squadra, che a quel punto ci gratificarono con sorsate di tè bollente e un bottiglione di lambrusco.

Illustrazione dalla guida di Versante Sud, La Pietra di Bismantova. La via del GAB è la n. 41

La sera fu abbastanza brada e selvaggia. Senza più lo spauracchio della conferenza, mi lasciai andare alla baldoria, che però non risultò mai eccessiva: si sapeva che il giorno dopo sarebbe stato quello risolutivo, eravamo giunti solo ai due terzi.

Il lunedì 11 giugno attaccammo più tardi, verso le 10.30. Ci impensieriva un ultimo grave ostacolo: un tetto di difficoltà estrema ci appariva come quello precedente “del terrore”. Lo superammo molto laboriosamente, impiegandoci veramente un sacco di tempo. Poi ci furono gli ultimi 50 metri di bellissima arrampicata libera e riuscimmo in vetta alle 19.30.

Durante questo ultimo tratto eravamo più in pensiero per quelli di sotto che per noi. Continuamente dovevamo liberarci di sassi e pezzi di roccia: questi cadevano sul piazzale, sempre più in là, dove ormai la folla (comunque minore del giorno prima, festivo) indietreggiava spinta dal servizio d’ordine munito di casco.

10 giugno 1968, sommità della Pietra di Bismantova, dopo la 1a ascensione della via del GAB. Gogna e Bernard.

Quando il primo di noi uscì sull’altopiano sommitale, ci fu l’assalto dei bersaglieri sul sentiero per venire a stringerci le mani. I primi del GAB erano già saliti con numerose bottiglie di spumante: 23 ore per 140 metri di parete forse ne valevano la pena.

C’erano anche dei giornalisti. Entrambi, Antonio ed io, dichiarammo di aver corso qualche serio pericolo. In effetti a un certo punto Antonio, che in quel momento era davanti, si era trovato nell’impossibilità di piantare chiodi.

«Non c’era niente da fare — ha detto — ormai ero convinto di cadere. Ho gridato “Sandro!” e lui ha capito che le cose stavano mettendosi male. Allora ho cercato di scendere: in questi casi, con quelle difficoltà, non è certo facile. Badavo soprattutto ad avvicinarmi al chiodo che avevo piantato circa 9 metri sotto di me. In caso di volo avrei se non altro ridotto lo strappo… Invece poi sono riuscito a piantare un chiodo e la situazione drammatica s’è risolta».

Festeggiatissimi, siamo scesi lungo il sentiero e poi a Castelnuovo ne’ Monti, dove è incominciata una lunga festa serale, poi notturna. Nei fumi alcolici, battezzammo la via, in onore del Gruppo Amici di Bismantova, Via del GAB.

Passione e saggezza dell’alpinismo
(aprile 1968)
Per alpinismo s’intende quell’attività umana, spontanea e piacevole, che ha per oggetto la monta­gna, anzi che si svolge nel­l’ambiente della montagna e che ha per oggetto la montagna in se stessa.
È chiaro che la monta­gna debba essere conside­rata in se stessa, e non come oggetto di lavoro o di studio. Altrimenti non è più necessariamente un’attività dilettevole e spon­tanea.
Da questa definizione appaiono chiari due aspet­ti dell’alpinismo.
Uno nasce dalla conside­razione che esso è una at­tività che si svolge in montagna e che pertanto ri­chiede una preparazione tecnica (preparazione che va dall’allenamento per fa­re una qualsiasi salita sen­za giungere stremati ma può arrivare fino a com­piere con stile impeccabi­le arrampicate di sesto grado superiore); l’altro nasce dalla considerazione che l’alpinismo è una at­tività «umana». Due aspetti quindi: tecni­co e umano. Per aspetto tecnico s’inten­de la conoscenza perfetta delle regole tecniche ne­cessarie per superare de­terminate difficoltà, facili o difficili, e la capacità di applicare queste regole.

Così, contrariamente a quanto si pensa, da questo punto di vista è alpinista chi fa salite esclusivamente di sesto grado superiore e chi ascende la montagna per la «vilissima» via normale; è alpinista chi va in montagna per divertir­si, come chi ci va per pro­fessione. Ancora, sempre da questo punto di vista, è alpinista chi ama nella montagna il pericolo e il rischio e chi ne disprezza questi lati. Dal punto di vista meramente tecnico quindi, si deve affermare che alpinisti sono tutti co­loro che praticano la mon­tagna, come meglio piace loro, senza restrizioni extra personali (e per restrizioni extra personali s’intende qui ciò che non ha origine dalla propria capacità, dai propri sentimenti, dai pro­pri modi di vedere e di giudicare la montagna).
Da ciò discende che quan­to più un alpinista compie imprese difficili, rischiose, tanto più è bravo, tanto più è forte e capace, sem­pre però sotto l’aspetto tec­nico. È possibile dire che un alpinista è migliore di un altro solo perché la tecni­ca è misurabile, è oggetti­va, solo perché questo giu­dizio prescinde dalle in­tenzioni.

18 febbraio 1968. A. Gogna sul Primo Risalto della Rocca dei Banditi (Genova), una parete poi distrutta dalle cave. Foto: Alessandro Grillo.

Vediamo ora l’aspetto umano; per esso s’intende la valorizzazione, l’attua­zione di quei valori che la montagna contiene in sé solo potenzialmente, e che possono cooperare con al­tre attività, integrandole e completandole, alla forma­zione completa della per­sonalità dell’alpinista.

Ecco due importanti no­zioni: formazione comple­ta della personalità e potenzialità dei valori insiti nella montagna.

Parlando qui di forma­zione completa s’intende dire che nella montagna l’uomo deve maturare tut­ti quei sentimenti di cui dispone, e che proprio la montagna può maturarli. L’uomo, accostandosi alla montagna, necessariamen­te si educa, si forma; deve però badare che questa formazione non sia indi­rizzata a sviluppare in lui uno solo dei tanti valori di cui è dotato, che essa non sia unilaterale.

Nell’alpinista si forma una profonda sensibilità per la natura: certi tra­monti, certe aurore, certi colori della montagna, per l’intensità con cui si pre­sentano, educano fortemen­te la nostra sensibilità.

18 febbraio 1968. A. Gogna sul Primo Risalto della Rocca dei Banditi (Genova), una parete poi distrutta dalle cave. Foto: Alessandro Grillo.

Quale scena può genera­re in noi un vivo senso della paura e della nostra debolezza fisica come lo possono generare certe bu­fere di alta montagna? Es­sa può insegnare a valoriz­zare e a conoscere la fati­ca; ci abitua a considera­re i nostri simili come ami­ci; c’insegna a compren­derci a vicenda, perché gli uomini si avvicinano mag­giormente sia nella gioia, sia nel dolore estremi; e la montagna offre e l’una e l’altro copiosamente.

Con la sua immensità in­segna a conoscere quanto l’uomo sia piccolo e quanto sia grande il cosmo in cui egli vive. Quale senso dei l’infinito si prova guardando il cielo stellato quando al mattino al sorgere del­l’aurora si «attacca una sa­lita»!

La montagna avvicina a Dio perché su in alto ci si sente più vicini a Lui, per­ché si è maggiormente a contatto con le bellezze da Lui create: sono queste che possono condurre a Dio l’uomo, più che non lo possano argomentazioni razionali.

La montagna fa nascere vivissimi sentimenti di a­micizia, fa sorgere in noi un deciso senso di orgo­glio, di conoscenza delle nostre capacità e ci dispo­ne ad amare le «cose» dif­ficili; le difficoltà dell’al­pinismo c’insegnano a non lasciarci abbattere di fron­te alle avversità della vita e a giudicarle con obietti­vità.

Questi sono valori posi­tivi. Sicuramente esistono accanto a questi dei sentimenti negativi come l’e­goismo, l’eccessivo orgo­glio di sé, la temerarietà. La montagna (e questo è uno dei lati sicuramente più negativi) è escludente nei confronti di altre atti­vità. La pratica dell’alpi­nismo a volte assorbe in modo tale da compromet­tere la possibilità di ap­plicarsi ad altra attività. Allora diventa tirannica dispotica ed egoista. L’al­pinismo visto nei suoi va­lori positivi non è esclu­dente nei confronti di al­tre attività; ad esse si ac­compagna nell’ufficio del­la formazione completa della personalità. Ma de­genera, secondo l’aspetto umano, quando è teso a sviluppare nell’uomo sola­mente alcuni dei valori di cui è dotato, anche se po­sitivi. A fortiori dege­nera se nell’alpinista la montagna educa i senti­menti negativi. Come alpi­nismo degenera ancora quando si ferma solo al primo aspetto: all’aspetto tecnico, quando cioè diventa mestiere.

A. Gogna sulla Rocca dei Banditi (Genova), 1968

Vediamo ora il significato della potenzialità dei valori della montagna.
Quando si dice che la montagna contiene in sé dei valori solo potenzialmente, si vuol intendere che quei valori non sono in atto, ma sono solamente in potenza. Cioè non necessariamente tutti coloro che praticano la montagna ne sentono i benefici, si educano cioè nei confronti di quei valori; non per il solo fatto di andare in montagna l’alpinista diventa uomo, si forma, si educa riguardo a quei sentimenti; sentimenti e valori devono essere attualizzati dall’alpinista stesso. La montagna è muta, è l’uomo che la fa parlare e bisogna esser capaci di farla parlare.

La dolcezza e la malinconia di un tramonto, la paura di una bufera, il dubbio delle proprie forze, che nasce nell’atto di superare una cresta aerea delicata, un tormento intimo che sorge in noi dal confronto della propria grandezza e della propria miseria con la grandiosità della montagna, la gioia di trovarsi in alto vicini al cielo, il senso di amicizia che si sente quando ci si trova in pochi amici lontani dai propri simili e vicini al pericolo e alle gioie della montagna sono sentimenti che possono nascere e che possono non nascere nell’animo dell’alpinista. Essi nascono in proporzione all’attenzione alla disposizione a sentirli dell’individuo.

L’alpinista, sempre dal punto di vista umano, deve avvicinarsi alla montagna con l’animo disposto a sentire, a imparare, non deve considerare montagna come un nemico da vincere o da dominare.

A. Gogna sulla Rocca dei Banditi (Genova), 1968

Così mentre il primo aspetto (quello tecnico) è misurabile perché oggettivo, questo secondo (uma­no) no, proprio perché tie­ne conto essenzialmente delle intenzioni e delle di­sposizioni. Pertanto sotto questo punto di vista può essere più grande alpinista colui che ascende la mon­tagna per la «vilissima» via normale, di colui che la ascende per la direttis­sima.

L’aspetto tecnico e quello umano, non sono però ir­relativi. Sono distinti sì, ma sono anche relativi e possono essere in propor­zione. Da questa relativi­tà e proporzionalità deriva che, benché non necessa­riamente, quanto più si è perfetti e ricercati tecnica­mente, tanto più, potendo praticare le montagne più impegnative, si possono provare sentimenti forti e intensi.

Fra i due elementi, tec­nico e umano, il secondo è sicuramente più impor­tante, anche se non si dà alpinismo senza il primo. Infatti se non è necessa­rio nella vita essere alpi­nisti è pur necessario es­sere uomini.

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Via nuova alla Pietra di Bismantova ultima modifica: 2019-01-06T05:18:19+01:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “Via nuova alla Pietra di Bismantova”

  1. Bel racconto, divertente come sempre, che ricorda come anche i più grandi non sono esenti dalle tentazioni terrene 😉

    E mette anche luce sulla via del GAB: io, frequentatore assiduo della Pietra, mi domandavo spesso cosa significasse, e la storia di quella e altre vie storiche della Pietra

  2. Tre articoli in uno. Entrambi più uno interessanti. Però il primo è il più divertente: cosa sarebbe (e cosa farebbe?) l’istruttore del CAI senza allieve con cui pavoneggiarsi e quindi corteggiare? Il caro Pescia doveva ricoprire il suo ruolo di direttore del corso ma ricordo che non era assolutamente esente da attrazioni femminee, peraltro più che giustificabili. Ciao

  3. Quando incominciai ad arrampicare, alla Pietra di Bismantova, la Via del GAB era la piú difficile di tutte. 😨😨😨

    Nessuno l’aveva ancora ripetuta. Era lassù, avvolta in un’aura di mistero, alta e inaccessibile sopra le miserie del mondo. 😇😇😇

    Era stata scalata da tale Alessandro Gogna, giovane astro dell’alpinismo italiano. 😆😆😆

    Prima che fosse pubblicata la guida di Gino Montipò i comuni mortali non sapevano neppure da che parte salisse di preciso. 😩😩😩

    “Correva voce che non esistesse neanche, che fosse un’entità astratta” (Fantozzi rag. Ugo). 😂😂😂

    Che tempi!  💖

    Augh! Ho detto.

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