Alpinismo e scelte… di vita?

Sul n. 9-10/1980 della Rivista del CAI abbiamo pubblicato una lettera di Mario Giacherio intitolata Un appello per la vita. Vi ha fatto seguito un’altra lettera di approvazione e sostegno da parte di Filippo Gandolfo, pubblicata sul n. 5-6/1981. Nello stesso periodo abbiamo ricevuto questo articolo di Livio Siro, che pubblichiamo insieme a una replica di Silvia Metzeltin. Si direbbe che gli alpinisti siano giunti una volta di più a un momento di riflessione sulla propria attività, sul proprio modo di vivere la montagna, o per lo meno un certo tipo di alpinismo, in un ennesimo tentativo di razionalizzare le cause, spesso inconsce, che determinano la loro scelta. Alla base di questo ripensamento vi è certo il ripetersi frequente di incidenti mortali, spesso fra i giovanissimi e il carattere stesso che ha assunto l’alpinismo di punta: salite in libera, solitarie, invernali solitarie, sci estremo, tutti modi di spostare più avanti il limite delle possibilità umane, che sempre più coincidono di conseguenza con il limite della vita, a un passo dalla Todeszone, la zona della morte.
E’ questo il titolo anche di un recente libro di Reinhold Messner (Il limite della vita, Zanichelli 1980); la domanda individuale si fa quindi coscienza collettiva. I due articoli che seguono pongono una base di discussione e di indagine partendo da esperienze personali, senza lasciarsi tentare da quelle spiegazioni psicoanalitiche di scarsa credibilità, tentate in passato, rispondenti sempre a schemi applicati dall’esterno e in cui gli alpinisti non si riconoscono (Redazione della Rivista del CAI).

Alpinismo e scelte… di vita?
di Livio Saro
(pubblicato su Rivista del CAI, luglio-agosto 1981)

So di toccare gli alpinisti molto nel vivo, nell’intimo, con queste righe. Ma non voglio farlo con aggressività: voglio prendervi per un braccio, costringervi a fermarvi, a fermarci, e a discutere.

Parlare di alpinismo, di scelte di vita, di morte, ci spinge in difesa: troppe sono state le saccenti Analisi Psicologiche che hanno sentenziato sul ruolo dell’alpinista schiavo del super-io o frustrato suicida; giudizi impietosi, ma soprattutto «estranei», che più che capire vogliono classificare.

Dietro le citazioni dotte, cui si ricorre in questi casi, c’è un banale ragionamento, che suona pressappoco così:
«Gli alpinisti se la vogliono; è molto meglio la certezza di una lunga vita al riparo dai rischi, che il cercare non-si-sa-cosa sulle pareti delle montagne».

Si dice cioè: la vita, magari anche solo per se stessa, è sacra e basta. Sarei portato a dire che non ci può bastare.

Eppure. Eppure da parecchio tempo sui giornali, anche su quelli specializzati, si parla troppo spesso di disgrazie in montagna, di soccorsi, di feriti, di morte.

Ricordi
La mia memoria recente, come quella di tutti noi, è piena di queste morti in montagna. Giorgio ci invita a casa per una serata di diapositive: l’attacco, l’arrampicata, la foto di gruppo.

«Quello è Mario, quello è Grongo (Enzo Cozzolino, NdR) — due mesi prima della disgrazia — quella è Paola, quello è Gianni, già, è morto anche lui, e quello sono io».

Andiamo avanti. Giorgio un mese dopo moriva in Civetta, dopo una notte di agonia in parete. Morto di freddo e dissanguato. Si parla con gli amici di una spedizione in Himalaya:  «Ti ricordi il povero Luigino (Henry, NdR)? E l’altro che portammo giù vivo per miracolo?». Dei componenti di quella spedizione, una mia amica meravigliosa (Tiziana Weiss, NdR) cadde in montagna dieci mesi dopo; al rifugio dove la portarono mi dissero che il suo corpo «era come quello di un uccellino». Franco (Piana, NdR) è morto all’Everest.

Incontro per caso un sacerdote, sul corpo i segni della vita di un vecchio alpinista; parliamo di caccia, di fiori, di gioia, di cime, di «vie» e in breve (sarà per la vista di uno di quei muri di rifugio che, a forza di «immolatosi sull’alpe», di «nel supremo sacrificio si diede», di «nella lotta con l’alpe», si sono trasformati in ossari della montagna) con il prete non si fa altro che parlare di incidenti: «Celebravo un matrimonio, giù al rifugio, proprio mentre, lassù in parete, quell’altro poveretto finiva strangolato dalla corda. Pensa, nello stesso istante!» Continua: «Arrampicavano affiancati, tutti e due in libera. L’altro vide il fratello volare e sfracellarsi per trecento metri. C’erano solo le sue mani e i suoi nervi ad aggrapparlo alla vita. Con quella visione di morte nel cervello riuscì ugualmente a salire in vetta e a salvarsi. Sì, ma qualche mese dopo un’altra salita, sempre da solo. Lo abbiamo raccolto tutto in un sacchettino di nylon!». Perché tanti morti?

Il mondo non prometteva niente di meglio, a tutti questi nostri amici, che l’arrampicare, al prezzo della loro stessa vita?

Le scelte siano consapevoli
Soprattutto un pensiero mi tormenta: se chi fa questa scelta, la scelta di arrampicare duro e di rischiare forte, è consapevole. Perché credo che «la coscienza di sé» sia un valore enorme, non so, forse la ragione ultima della nostra esistenza.

E vedo fare tanta retorica attorno a queste morti, tanti ragionamenti a metà, vedo tanta incoscienza negli amici che iniziano o che continuano. Non c’è il coraggio di guardare la realtà a viso aperto; quando qualcuno cade, subito ci si informa sul «come» è successo e si cerca la spiegazione tecnica: il chiodo, il cordino. Per tranquillizzarsi. Mi accorgo che manca l’accettazione consapevole che purtroppo quando si arrampica duro, la morte è una probabilità statistica. Una probabilità molto, molto forte. Mi domando perché questi amici non cerchino un senso per la loro vita anche nelle azioni sociali, politiche, affettive, sportive, culturali.

Cerco di capire.
Lascio stare i libri; penso agli alpinisti che frequento, alla nostra vita, alla mia esperienza. Qual è la molla che spinge a rischiare? Trovo due risposte. Le do con modestia, ma le voglio dare. Cominciamo dall’atto stesso dell’arrampicare.

Due perché del rischio
Il rapporto uomo-natura e (non nascondiamocelo) quello uomo-morte nell’arrampicata è diretto, non sono possibili mediazioni. L’esperienza di chi fa roccia sul serio (tanto più se in solitaria) è quella di chi ha la vita nelle proprie mani; è il continuo atto di presunzione di chi non vuole ammettere l’errore umano: per un’ora, per dieci ore se apro le dita crepo o resto storpio. Tutto, assolutamente tutto quello che posso essere, volere o desiderare dipende dai miei riflessi, dalla mia forza, dalla mia calma. La vita di tutti i giorni è invece così complicata e così poco lineare: le nostre decisioni non sembrano sortire mai risultati chiari e sicuri. Il voto non pare provocare mutamenti politici, così è per le ore che spendiamo in fabbrica o in ufficio. I nostri stessi affetti vanno per il verso loro: nulla risponde più a regole semplici e mutabili dalla nostra sola volontà.

Credo che per l’alpinista arrampicare significhi inconsciamente tentare di restituire alla vita semplicità e forza di emozioni, una specie di ritorno all’antica lotta dell’uomo contro la fame, il freddo, le forze della natura, un ritorno alla lotta — in fondo — contro la morte, in un estremo rifiuto delle complicazioni: le guerre degli sceicchi, la vecchiaia, l’inquinamento, ecc. Lo ripeto, il protagonista non è più la vita, ma la morte; è con essa che l’alpinista dialoga salendo, è essa che gli fa sembrare l’alba in parete troppo bella, rispetto alla realtà, già così meravigliosa; è essa che gli fa sentire così pienamente lo scatto dei muscoli e così profondo il contatto con la roccia: perché potrebbero essere gli ultimi.

La seconda risposta alla domanda sul perché del rischio mi viene dai momenti passati con gli amici — mi capirete? — vedendoli parlare di «vie» e di materiali, leggere il libro di sezione, commentare i resoconti delle salite pubblicati dalle riviste o fatti pubblicare sul giornale cittadino.

Tra quelli che «vanno» in montagna molti hanno un soprannome, di tutti sono noti i difetti e i pregi più evidenti, i tic, le piccole manie e in più — settimana dopo settimana — dei più bravi leggiamo delle salite compiute, magari in solitaria, delle vie nuove… di quanto rischiano. Sarebbe ingiusto dire che ci si conosce solo per il coraggio dimostrato in montagna, perché non sempre chi rischia di più diventa il leader, ci vuole anche il fascino di una personalità forte, ma è certo che chi non arrampica «è uno che ha paura», «uno che non può parlare perché non ha mai sentito la corda penzolare nel vuoto dall’imbragatura». Il rischio insomma rientra dalla finestra come un battesimo necessario per venire accolti tra gli iniziati (non si valuta forse il valore dell’attività alpinistica del candidato per ammetterlo nei gruppi-rocciatori, sorta di super-circoli, all’interno delle sezioni del CAI?). Arrampicata e rischio e perciò confronto con la morte, di nuovo. Non cerchiamo di nascondercelo.

Il rischio è morale?
Sono un laico, ma al mio sacerdote alpinista ho voluto chiedere: «Arrampicare, arrampicare forte, magari in libera, è morale?». Mi ha solo sorriso, e poi, quando ci siamo salutati, mi ha stretto forte il braccio, quasi facendomi male. Se lo ricorderà, se leggerà questo scritto.

Perché per me chi arrampica sceglie inconsciamente di stare vicino alla morte, ad ogni appiglio, ad ogni nodo, ad ogni scarica di sassi. Perché, lo ripeto, statisticamente è provato che dopo tanta attività l’incidente arriva. Non voglio trarre banali conclusioni moralistiche, non voglio sostenere che non bisogna arrampicare duro perché si può — con forte probabilità — morire, no.

Voglio solo che questo sia chiaro per gli amici che iniziano o che continuano: arrampicare non è scelta matura di vita, ma tentativo di riempire il nostro vuoto con le sensazioni forti che ci dà il confronto diretto con la morte.

Se si decide che ne vale la pena, se si ha la presunzione di credere di scegliere consapevolmente il confronto con il rischio, ripeto «con coscienza di sé», lo si può fare. Ma che sia chiaro per Dio!

Ci sarà allora più facile sopportare la perdita di tanti amici. Senza il dubbio che non sapessero, di non averli — noi — aiutati a sapere.

La scelta di Messner
Lasciatemi fare ancora una considerazione. Accettatela come inizio per un dibattito, non solo come una provocazione.

C’è chi, partendo per l’Everest, aveva calcolato il rischio statisticamente e il calcolo è stato rispettato: è morto Franco Piana. Non era stato calcolato che sarebbe morto anche un portatore nepalese. Si può finire sotto una valanga durante una spedizione liberamente intrapresa (ma mi domando quanto tutti noi siamo liberi, oggi), oppure per guadagnare 1000 o 2000 lire al giorno e non mi pare la stessa cosa. Nel suo libro sull’Everest, Reinhold Messner accenna quasi in sordina al fatto che «uno sherpa scomparve in un crepaccio. Gli altri sono tutti guariti, anche quello che era rimasto semiparalizzato…». Quanto dire e non dire c’è in quel «uno sherpa scomparve… gli altri sono guariti»! In fondo, si tratta della morte di un uomo, morto sul lavoro.

Anche Messner, che pare aver scelto liberamente il rischio individuale, mostra qui di cadere nella tremenda contraddizione della civiltà moderna: l’uso dell’uomo da parte di altri uomini più potenti o più ricchi, uso che si verifica anche durante le spedizioni extraeuropee.

Il suo cercare anche lì le salite solitarie è una estrema dimostrazione di «coscienza di sé»? Arrampicare rischiando da soli, senza «usare» nessuno, rischiando il meno possibile la vita dei portatori, in un estremo confronto negativo con la morte?

Messner è l’idolo dei rocciatori moderni; vorrei almeno che la scelta di questo mito fosse consapevole, fino in fondo.

Io vorrei che tutti potessero scegliere le tante cose che la vita può dare. In montagna la scelta della via solitaria è possibile, il rischio può far sentire forti, protagonisti; nella vita vera tutto questo non serve.

La vita appesa a un filo? (Tangerine Trip a El Capitan); John Dale in discesa sulle corde fisse. Foto: Franco Perlotto.

Sì, alpinismo scelta di vita
di Silvia Metzeltin
(pubblicato su Rivista del CAI, luglio-agosto 1981)

Chissà se riuscirò a farmi capire con queste righe, con questa presa di posizione che mi viene sollecitata, quasi provocata, quando nei ricordi di Livio c’è il riferimento alle stesse persone scomparse, alle quali ambedue abbiamo voluto bene. Farsi capire con un articolo è tanto più difficile che con una discussione al tavolo, sotto il pergolo dell’osteria, dove abbiamo iniziato questo discorso, smarriti dopo un funerale. Eppure è un discorso che va fatto ogni tanto.

E’ vero che si discute già da un secolo sull’argomento, cioè sulla liceità del rischio e sulla migliore utilizzazione delle nostre energie apparentemente sprecate nell’alpinismo. Ma è anche giusto che ogni generazione si confronti di nuovo con il problema. Alpinismo come momento di riflessione: avrebbe già senso solo per questo. Non si possono nemmeno mettere a fuoco insieme tutti gli aspetti, che s’intrecciano in modo complesso nella vita di ognuno. Si può tentare con qualche tema. Proviamo.

La scelta
Penso che sia veramente una scelta, anche se avvenuta qualche volta solo per esclusione, qualche volta spinta da passionalità di cui ci sfugge il significato, per divenire poi maturata e meditata, per qualcuno anche sofferta. Comunque, è una scelta. Non una scelta di morte; piuttosto, semmai, una scelta di saper guardare in faccia alla morte, che è tutt’altro. La nostra cultura ha elaborato modelli di comportamento che eliminano la riflessione sulla morte. Ma la morte è una certezza per tutti noi, solo che la maggior parte della gente vive, o viene «fatta vivere», come se non dovesse mai morire. Muore anche chi non ha mai voluto accettare nessun rischio di nessun tipo.

Il rischio
Esistono forme di alpinismo con quota rischio elevata e con quota rischio ridotta, ambedue di alto valore tecnico-sportivo anche se diverse nel contenuto e nel modo di attuazione. E’ stata fatta spesso confusione in questo campo: non credo vi sia uguaglianza tra il concetto di rischio e quello di difficoltà. E poi, di quale rischio? Che importanza ha il rischio fisico nella nostra attività?

Può sembrare contradditorio, ma non amo il rischio fisico. Nella pratica alpinistica sono di quelli del cosiddetto chiodo in più, di quelli che si legano, come si suoi dire, anche sull’erba. Dovrei dire perciò che accetto il rischio più come idea che come realtà e in ogni caso faccio di tutto per valutarlo e tenerlo sotto controllo, perché non sia il rischio a gestire me, ma io a gestire lui. Penso che molti alpinisti siano come me.

Fra i due estremi della libera integrale senza assicurazione alcuna e il chiodo a ogni metro esiste una saggia «via di mezzo» che la maggior parte di noi adatta alle condizioni della montagna e di se stesso, senza dogmatismi e con un po’ di buon senso. Questo non elimina il rischio fisico, ma lo riduce a un livello normale. Quello che esiste in qualunque attività umana.

Il nòcciolo della questione è un altro. In un intorno sociale in cui siamo schedati, classificati, medicalizzati, fiscalizzati dalla nascita alla morte, iper-protetti in nome di un nostro ipotetico «bene», ogni tipo di rischio individuale consapevolmente accettato è un elemento ritenuto di asocialità e di disordine. Il rischio viene sventolato come un ricatto. Che l’alpinismo sia più pericoloso, non per la cassa in cui presto o tardi finiremo tutti, ma per i ragionamenti e sentimenti che possono svilupparsi ancora un po’ «in proprio» nelle teste degli alpinisti? Considerare il solo rischio fisico è una distorsione del problema. Nell’alpinismo vi sono altri rischi, altri prezzi pagati: certe emarginazioni, incomprensioni familiari, mancate carriere professionali e così via. E inoltre ancora il rischio di una strumentalizzazione dell’alpinismo stesso, che la collettività tenta di ricuperare — ma questo è un discorso a sé. L’alpinismo è una delle attività che mettono a nudo la scarsa tolleranza che hanno gli intorni sociali per i «diversi», e anche la subdola gamma delle loro tattiche di ricupero.

La vita non aveva niente di meglio da offrire?
Se su un piatto della bilancia pesano i rischi, sull’altro ci sono pure le ricchezze dell’alpinismo che tutti conosciamo. Qualcosa di meglio? Non saprei. L’alpinismo può essere una forma di vita ottimale, dipende dal quadro che gli vogliamo o sappiamo dare.

Nei generici «impegni sociali» che ci vengono spesso proposti quale alternativa nell’additarci come egoisti, nel colpevolizzarci nella situazione di marginali, di critici o di scettici, credo sempre meno. Ben pochi hanno le qualità e le convinzioni di un Guido Rossa. Gli alpinisti non sono un esercito di mancati Guido Rossa: sono individui molto diversi fra loro, nelle inclinazioni e nelle capacità, spesso assetati di spazi liberi e di autonomia.

Sono un po’ meno pigri e conformisti delle persone «normali» : cercano una propria via esistenziale. Nell’essenza, non è questa anche una testimonianza filosofica e politica? Mai come oggi, mi sembra, salvare qualche possibilità di libera realizzazione individuale costituisce un impegno importante. D’altra parte mai come oggi s’avvicinano proposte filosofiche e sociali e forme di vivere l’alpinismo. I bestseller di Bach e di Fromm hanno milioni di tirature e la maggior parte degli alpinisti si può ritrovare nelle loro considerazioni e forse anche nelle loro utopie. In questo quadro, la vita non aveva nulla di meglio da offrirci dell’alpinismo: una delle tante strade possibili, ma adatta alle nostre attitudini e al nostro carattere.

Silvia Metzeltin

Il nostro «coraggio di essere»
Chissà perché, noi alpinisti ci lasciamo colpevolizzare abbastanza facilmente. Ma prendiamocelo il nostro «coraggio di essere»! Quando Nicolas Jaeger definiva eroi quelli che prendono la metropolitana tutte le mattine, ne era davvero convinto? Non è la retorica dell’antiretorica? Parigi non mi sembra così diversa da Milano e le facce di chi prende la metropolitana delle otto alle stazioni di Lotto o Cadorna sono così espressive di pallida rassegnazione e stanchezza esistenziale da escludere parentele con qualunque forma di eroismo. Anzi, quello squallore mattutino, così simile a quello descritto da Saint-Exupéry in una famosa pagina di Terre des Hommes, mi angoscia ogni volta. Eroi? Giusto ridimensionare eccessive velleità di riconoscimento degli alpinisti, ma giusto anche non alimentare l’autoinganno di quelli del metrò. Jaeger è scomparso nell’inaccessa parete sud del Lhotse. Rischio voluto, ponderato, accettato. Calcolo sbagliato? Sì, sbagliato e pagato. Ma quanto più sbagliato il calcolo di chi fatica tristemente e malvolentieri per un magro stipendio e per una pensione che non avrà mai perché muore di cancro a quarant’anni, magari dopo aver inconsapevolmente contribuito all’inquinamento ambientale che lo farà morire ben più atrocemente che sotto una valanga himalayana… Ci vogliamo pensare ogni tanto e non sempre contrapporre l’alpinismo «cattivo» alla «buona» vita quotidiana della maggioranza? I nostri calcoli di vita li dobbiamo fare noi stessi: non i dirigenti, non le autorità, non la pubblica opinione.

I «valori» possiamo sceglierli noi, perché in primo luogo siamo noi stessi a pagare per le nostre scelte. Ma non possiamo rimproverare all’alpinismo una tragicità che è intrinseca alla limitatezza temporale della vita umana e alla sua fragilità nell’assoluto.

Non è colpa dell’alpinismo se non siamo immortali. Muoiono anche coloro che non hanno mai visto le montagne, anche coloro che non hanno mai fatto un tentativo di dare significato e qualità alla loro vita. Le morti sono uguali, le vite no: è il tentativo che fa la differenza. Per me, è una differenza abissale. Amo profondamente la vita e non ho nessuna voglia di morire. Metto anche cinque chiodi in terrazzino se occorre e penso di saper tornare indietro dove non passo. Ma se un giorno mi arriverà in testa la pietra che non ho saputo prevedere o evitare, ebbene, almeno non avrò sprecato la vita e rinchiuso i sogni sul metrò delle otto. Capisci?

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Concludiamo con questo gruppo di lettere il dibattito sugli articoli di Livio Siro e Silvia Metzeltin: Alpinismo e scelte… di vita? pubblicati sul n. 7-8/1981 della Rivista del CAI. Con questi scritti non si esauriscono certo le argomentazioni pro e contro, che ciascuno porta in sé e che si potrebbero estrinsecare a sostegno di una tesi o dell’altra. Né si può pretendere di trarne conclusioni definitive: è un dibattito che può durare eternamente, perché le sue radici affondano nelle origini stesse dell’alpinismo e delle sue motivazioni più profonde. Era comunque un test che andava fatto, la cui necessità era nell’aria, in questo momento evolutivo dell’alpinismo e ci auguriamo che questo campione di opinioni contribuisca per lo meno a chiarire a ciascuno i “perché” del “proprio” alpinismo (Redazione della Rivista del CAI).

Alpinismo e scelte… di vita?
di Ottavio Bastrenta
(pubblicato su Rivista Mensile del CAI, marzo-aprile 1982)

… Terminato lo scritto di Livio Siro, mi sono detto: qualcun’altro ha finalmente il coraggio di rompere questo velo di omertà, questo silenzio colpevole del mondo alpinistico di fronte all’accentuarsi di un fenomeno allarmante non meno di quello della droga… Mi riferisco, lo dico subito a scanso di ogni equivoco, non all’alpinismo in genere, ma a certe sue forme esasperate che in questi ultimi anni hanno mietuto tante giovani vite. E parlo di una serie di fenomeni che vanno dal semplice arrampicare solo e senza assicurazione in palestra alla «grande» solitaria; da talune attività alpinistiche collettive, a certe spedizioni extraeuropee con mete e modalità irragionevoli.

Ma qui voglio replicare soprattutto allo scritto di Silvia Metzeltin, perché contiene affermazioni che sembrano giustificare qualsiasi forma, e quindi anche la più esasperata, di alpinismo.

Una prima considerazione: nell’articolo di Silvia Metzeltin manca qualsiasi riferimento a quegli «altri» ai quali ciascuno di noi è legato, non da una corda, ma dagli affetti, cioè al nostro compagno di vita, ai figli, ai nostri vecchi…

Ottavio Bastrenta

Neppure un accenno al dolore che la nostra scomparsa può arrecare loro e soprattutto alle altre conseguenze pratiche per la loro vita.

Quando ero istruttore della Scuola d’alpinismo Gervasutti di Torino, spesso prima della salita discutevamo — istruttori e allievi — di ciò che era per noi importante oltre all’alpinismo, a cominciare dai nostri cari che avevamo lasciato in città e ci interrogavamo sul nostro diritto di farli soffrire.

La consapevolezza da parte dell’alpinista «estremo» della sua scelta e dei tremendi rischi che comporta, di cui parla Livio Siro, deve essere allargata innanzi tutto alle conseguenze per questi «altri». Deve, se si sa amare e se si ha il senso del dovere. Altrimenti, naturalmente, si è liberi anche di morire.

Ma noi possiamo assistere indifferenti ad una simile conclusione?

Silvia Metzeltin ci propone una visione della società nella quale viviamo estremamente semplificata: da una parte la massa amorfa dei «normali», dei conformisti, di «quelli che prendono il metrò delle otto» stanchi e rassegnati; dall’altra l’élite degli alpinisti, «diversi fra loro, nelle inclinazioni e nelle capacità, spesso assetati di spazi liberi e d’autonomia», che trovano nell’alpinismo il meglio che la vita poteva offrire in quanto tra le «tante strade possibili è quella più adatta alle loro attitudini e al loro carattere».

Molte cose si potrebbero replicare a questa visione di Silvia Metzeltin. Mi limiterò qui solo a qualche accenno: molti dei «grandi» alpinisti sono tra quelli che prendono il metrò alle 8 (e ad altre ore meno comode); questa massa anonima di «normali» guardata così dall’alto è pur sempre quella che produce per tutti noi e quindi anche per lei quello che occorre per vivere (e per andare in montagna); questa società è ben poco protettiva e sa cavar soldi da ogni diversità; chi detiene il potere è ben lieto che individui potenzialmente «pericolosi» per l’assetto sociale esistente rivolgano le proprie energie verso mete innocue quali il sesso, la droga, il misticismo, l’alpinismo, ecc… Quanto alle «altre strade possibili» a cui accenna Silvia, lasciamo parlare uno che ha dimostrato di «saper guardare in faccia alla morte» non solo in montagna, ma soprattutto nella vita.

Inizia così la ormai «storica» lettera di Guido Rossa pubblicata dai giornali dopo la sua morte.

Un uomo eccezionale? Molti alpinisti hanno qualità simili alle sue. Lui aveva però certe convinzioni ed è stato «solo» un po’ più coerente di altri nell’applicarle alla prassi. Ma anche Guido aveva le sue contraddizioni. Scriveva queste belle frasi e poi ritornava ogni anno a salire quelle «lisce e sterili pareti» lungo vie di grande difficoltà. Ma alla fine ha pagato con la vita il prezzo delle sue convinzioni più profonde, lasciando un «segno» nel cuore ed una «traccia» nella coscienza di molti uomini. Tornando allo scritto di Silvia Metzeltin quello che più colpisce è l’assenza di ogni condanna delle forme esasperate dell’alpinismo. Sembra che l’Autrice ritenga che la scelta di qualsiasi forma di alpinismo, purché sia consapevole, sia lecita. Ella accenna al suo modo prudente di andare in montagna, non come al modo o ad uno dei modi ragionevoli (con implicita condanna di modi diversi), ma solo come ad uno dei tanti modi possibili di praticare l’alpinismo. Silvia non prende posizione sul problema del rispetto della vita. Eppure ha la capacità, l’autorità e soprattutto il dovere di dire chiaramente ai giovani quali sono i limiti morali dell’alpinismo. Perché ogni attività umana sensata (cioè «a favore dell’uomo») è soggetta innanzi tutto a delle regole: e la prima è quella del rispetto della vita. E un alpinismo «senza limiti» non può derivare da una scelta consapevole, ma da cause interne che nulla hanno a che fare con la ragione. Che dipendono da una disperazione esistenziale che deve far riflettere. Il problema centrale del dibattito non è quindi quello della scelta, ma dei limiti di questa scelta. Limiti sensati, ragionevoli. Limiti non certo imposti, ma proposti alla coscienza degli alpinisti.

Chi nel mondo della montagna sentirà il dovere di promuovere incontri-dibattiti, soprattutto tra i giovani, su questi temi? E i giovani avranno il coraggio di parlare?

Alpinismo e scelte… di vita?
di Maurizio De Bortoli e Roberto Nebuloni
(pubblicato su Rivista Mensile del CAI, marzo-aprile 1982)

Volentieri aderiamo alla proposta di dibattito costituita dai due articoli di Livio Siro e di Silvia Metzeltin, pubblicati sul numero di luglio-agosto 1981 della Rivista e riguardanti l’alpinismo come scelta di vita e confronto con il rischio di morte.

Nei due articoli, accanto a profonde osservazioni, ve ne sono altre che ci lasciano perplessi. Soprattutto non ci appare condivisibile la prospettiva individualistico-egoistica in cui viene affrontato il tema complessivo «valore della vita/rischio di morte». L’esistenza individuale appare assolutizzata in una mancanza di riferimenti — che sono invece parte essenziale di ogni esistenza vera e personale — e solo per questa premessa si può tollerare (come sembra fare Siro) che «il protagonista non sia più la vita ma la morte». In realtà la vita, anche se intesa — come fa Siro — come «coscienza di sé», non è l’assoluto; al contrario è stata posta da Altro e ne dipende. A noi compete viverla in pienezza: rischiando, certo, perché ogni gesto che consapevolmente compiamo comporta una scelta e un rischio, ma non per il gusto irrazionalistico di un’affermazione da superuomo, o per quello masochistico (e un po’ macabro) di un faccia a faccia con la morte.

Il «rischio» è una componente normale dell’esistenza «umana», anche di quella apparentemente più banale, ma non ha senso, ci pare, una scelta del «rischio di morte» in quanto tale; chi sceglie l’arrampicare impegnativo non sceglie di stare particolarmente vicino alla morte, ma sceglie un gesto di vita particolarmente pieno e gustoso, nella prospettiva di un proprio arricchimento. In molti modi l’uomo tende a ritrovare la verità di sé e l’alpinismo, come altre imprese umane che appaiono inutili e pericolose a molti, è l’espressione di questa sua ricerca, che è insieme ricerca dell’essenziale. Questo «cerca», consciamente o inconsciamente, la persona naturalmente e psicologicamente sana. Ci sentiamo perciò concordanti con la Metzeltin quando precisa di «non amare il rischio» e di «fare di tutto per tenerlo sotto controllo».

E giustamente la Metzeltin precisa ancora che, una volta prese le dovute precauzioni, «non dobbiamo rimproverare all’alpinismo una tragicità che è intrinseca alla limitatezza temporale della vita umana ed alla sua fragilità nell’assoluto». Ma anche nel contributo della Metzeltin la prospettiva individualistica prevale, evidenziandosi in particolare nella scarsa considerazione in cui viene tenuto il rapporto con gli altri (familiari, amici, società, ecc.) e nella punta di disprezzo per la gente comune, quella del metrò delle otto. Diceva bene Filippo Gandolfo su un precedente numero della Rivista (5-6/1981) che «è discutibile il discorso che ognuno è libero di andarsi ad ammazzare dove vuole, in quanto per lo meno lascia dei genitori in lacrime e l’opinione pubblica sempre più convinta che tutti quelli che vanno in montagna sono dei pazzi»; in altre parole: la nostra esistenza è fatta anche di rapporti, relazioni, dipendenze e noi siamo tenuti a dare un contributo attivo all’ambiente ed alla società in cui siamo inseriti e che molto ci danno. In certo qual modo noi siamo responsabili non solo di noi stessi, ma anche di quanti ci circondano.

Ciò può voler dire, in positivo, che l’arricchimento che traiamo dall’andare in montagna può poi rifluire nei rapporti che abbiamo con gli altri. Ma occorre guardare agli altri con simpatia e riconoscere che, in definitiva, la tensione umana che giustifica e spiega l’alpinismo può viversi anche prendendo il metrò delle otto. Il problema è, per ognuno, quello di non sprecare la propria vita, giacché essa ha un senso che ultimamente non determiniamo noi e che non ci consente di metterla a repentaglio inutilmente. Siamo chiamati ad un rapporto di comunione con ciò che è altro da noi e ciò può trovar realizzazione sia andando in montagna, che prendendo il metrò. Ed alla fine solo il sapere che anche la vita del nostro amico morto è nelle mani di un Altro può consolarci della sua morte, non il solo «sapere che sapesse» di cui parla Siro.

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Il pezzo che segue non è una risposta diretta alta domanda del nostro dibattito, ma vi si inserisce naturalmente e con forza, per le considerazioni che vi sono espresse e che vertono in sostanza sullo stesso tema, nascendo dall’esperienza sia alpinistica, che di lavoro quotidiano dell’Autrice (Redazione della Rivista del CAI).

Accostarci alle montagne
di Oriana Pecchio (medico di guardia ai Pronto Soccorso Ospedale Molinette di Torino)
(pubblicato su Rivista Mensile del CAI, marzo-aprile 1982)

Spesso entrando in un rifugio mi sono sentita intorno l’aria greve dell’alpinismo eroico e mi sono chiesta se non era questo un modo delirante di andare in montagna. Non è forse delirio di grandezza quello che spinge l’alpinista incompiuto ad alzarsi ogni ora per vedere com’è il tempo, per poi decidere che è troppo tardi per partire quando si è messo al bello, o gli fa venire il mal di stomaco tremendo, che lo blocca in rifugio, o gli fa trovare il compagno di cordata non alla sua altezza? Per fortuna i deliranti sono pochi, anche se bastano ad impedirti di dormire, dato il loro stato esagitato.

Per sfortuna sono ancora molti i «conquistatori», quelli che intendono l’alpinismo come lotta con l’Alpe, come se fosse una donna o un nemico e mi pare un alpinismo tipicamente maschilista e sciovinista quello che usa termini come «violare la cima» — «vincere la montagna» — «conquistare la vetta». Sono ancora molti quelli che pensano di essere una élite e si lamentano di funivie e seggiovie, perché hanno modificato non solo il paesaggio alpino, ma un modo di andare in montagna, sovraffollando i rifugi e le vie. Può essere esasperante pensare di mettersi in coda anche all’attacco della parete (!!!), è vero, ma è pur vero che i lamentosi che rimpiangono i bei tempi andati non hanno fantasia a sufficienza per spaziare su vie meno famose e classiche e se per loro «esperienza di libertà» non consiste nel condividere la libertà con altre persone, ma nell’usarla per sfuggire a loro (Lito Tejada-Flores: Sovraffollamento in montagna e viaggio intorno all’io), probabilmente non hanno né l’abilità, né l’intraprendenza sufficienti e necessarie.

«Accostarci alle montagne con un nuovo spirito, prima di tutto considerando come e perché arrampichiamo» suggeriva ancora Lito Tejada-Flores nello stesso articolo. Una risposta compendiosa, ma chiara, potrebbe essere: «Perché mi piace» e tutte le altre considerazioni diventerebbero una perdita di tempo (da riderci su, se fossero divertenti), ma io perdo così tanto tempo a prendere fiato tra un passo e l’altro che inevitabilmente mi viene da riflettere su ciò che vedo, provo e sento, quasi nel tentativo di spiegare a me stessa certe sensazioni, forse per fissarle nella memoria, forse per riviverle nel tempo.

Oriana Pecchio

Accostarci alle montagne, allora, per sentire il piacere di immergersi nell’armonia, per provare quanto sia bello accarezzare la roccia per cercare l’appiglio, appoggiarci la faccia contro per sentire il fresco quando la fatica fa sudare, aggrappatisi per vivere. Una sensazione: sul ghiacciaio, il sole che sorge da dietro il colle, il calore che mi arriva finalmente sulla faccia, i raggi riflessi sui cristalli di ghiaccio, l’ombra del mio compagno di cordata, la fatica come condizione fisica di diversa sensibilità percettiva. Hermann Hesse scriveva guardando un temporale a Sumatra: «L’ora era proprio lì, l’ora straordinaria attesa con pazienza da tempo. Stavo in piedi e vedevo nella bianca luce dei mille lampi la foresta vergine perdere il suo mistero e rabbrividire per una profonda angoscia mortale e ciò che provavo era sempre quella sensazione che avevo già sentito, infinite volte, osservando un crepaccio nelle Alpi, navigando un mare in tempesta, o mentre venivo stordito dalle folate del föhn che si abbatteva su una pista di sci, ma che non riesco ad esprimere e che tuttavia seguiterò sempre a cercare di rivivere».

Se le sensazioni sono indescrivibili e inenarrabili perché i confini del linguaggio scritto e parlato sono troppo stretti, non del tutto sono inesprimibili ed incomunicabili. Non si tratta di capire, ma di sentire e partecipare, di accettare l’irrazionale: l’amore, la vita, la morte. Il mio «salire» (senza miti puntisti, ovviamente) vuoi dire forzare la mia volontà e le mie capacità fisiche ogni volta un po’ di più, obbligarmi a guardare il vuoto perché il vuoto esiste, per cercare di superare l’angoscia e l’orrore della morte, rischiando un po’ o, meglio, correndo un rischio socialmente non accettato, adottando una sorta di pratica tantrica come Milarepa, che per vincere l’orrore della morte della madre, delle di lei ossa fece un cuscino su cui dormì per sette notti.

Il nostro modello di «normalità» è l’uomo sano e ci presentano la malattia e la morte come al di fuori della norma, eventi straordinari da nascondere e ignorare, anziché da accettare. Mi è capitato talvolta di restare a lungo su una cima (se il sole era caldo e il vento mite) e non avere più voglia di scendere. Non avevo angoscia di morte, come salendo non avevo paura di morire (anche se, forse, avevo quella di cadere), ma più salivo più mi sentivo attaccata alla vita e ancor più chiaro era che accettare la morte voleva dire accettare la vita. Tornare a valle significava tornare nei problemi, angosce, ansie, affanni routinari. La sensazione di pace era solo lì, senza corrispettivo nella mia realtà di vita e di lavoro; una nuova dicotomia? Finora sì. Sono e mi sento diversa quando inevitabilmente mi ritrovo nel mio quotidiano; ogni volta che vedo morire una persona giovane mi chiedo ancora perché: perché lei ha il cancro nel sangue o il cuore malato. Me l’ha chiesto anche la bambina qualche notte fa, perché doveva stare così male. Ho stretto i denti e respirato lungo per vincere l’angoscia e accettare: le ho sorriso a fatica mentre lei stava male e il dolore le dilatava gli occhi e le incurvava la bocca; le ho iniettato la morfina mentre continuavo a ripetermi che la realtà era quella, che la morte per lei era il problema pratico del momento dopo.

Non ho la soluzione, se non forse quella di continuare a «cercare» (e Siddharta insegna) e una via, una delle tante, può essere nel ritornare in montagna, per vivere nuove esperienze, per rivivere sensazioni, per sperimentare ancora me stessa.

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Alpinismo e scelte… di vita? ultima modifica: 2024-08-31T05:16:00+02:00 da GognaBlog

252 pensieri su “Alpinismo e scelte… di vita?”

  1. A me sembra che l’articolo dica una cosa ben precisa , che si può affermare o contestare , mentre Voi diciate altre cose , spesso per il gusto di fare polemica fra di Voi.

  2. Come giustamente dice Matteo, noi siamo nati subito sulla roccia e abbiamo subito imparato, anche a nostre spese,  che questa può essere buona ma anche cattiva.
    Chi nasce sulla plastica è abituato a prese sempre ottime e non certo a scalare sul fiabile o su ancoraggi insicuri, ne a fare avvicinamenti o a cercare gli attacchi. Insomma non c’è il peso dell’ambiente che ti circonda. Con questo non voglio certo dire che sia facile, bisogan saper scalare e tenersi. In compenso ti puoi allenare di brutto tutto l’anno e acquisire tenenza e resistenza . E se ti tieni è tutto di guadagnato, te lo ritrovi.

  3. “mi capita di vedere/sentire (i discorsi sono altrettanto deleteri) molti istruttori che agiscono in questo modo errato…Devo dire che, per quel che mi risulta, il fenomeno mi pare più eclatante nel settore dell’alpinismo/arrampicata”
     
    Sono felice di ripeterti che la realtà pare essere semmai l’opposto di quello che ti pare di vedere in particolare nel settore alpinismo/arrampicata.
    In particolare chi ha iniziato su plastica è mooolto cauto in ambiente. Anche troppo.

  4. Io non ho mai “stressato” nessuno. Cioè non ho mai cercato di spingere qualcuno. Ho sempre cercato di creare delle basi, di dare degli stimoli che vengono dalla conoscenza, tecnica ma anche culturale, dalla storia delle salite e dei protagonisti, dalle bellezza delle cime e delle pareti. Questo l’ho fatto sia come istruttore cai, sia come Benassi Alberto. Se una persona, giovane o non giovane che sia, mi chiede di una determinata ascensione, che magari io ho già fatto, e  questa persona la conosco, so quale è la sua preparazione, la sua capacità, cosa faccio? Lo reprimo? Oppure lo invito a provare?
    Se lo ritengo all’altezza di questa salita lo invito a provare, altrimenti lo invito ad aspettare, a prepararsi meglio, ad andare per gradi e arrivarci facendo prima salite più facili. Insomma fare esperienza. Questo lo faccio sia come istruttore, che come Benassi Alberto.
    Mi prendo una responsabilità? Certo che me la prendo. Ma a questa persona che vuole fare alpinismo,  una risposta la devo dare, e non può essere vai a cercare i funghi.

  5. Crovella, ripeto: quando scrivi al commento #60

    io preferisco di gran lunga proporre a giovai e giovanissimi una montagna semplice e sana, che dia loro dei valori etici, uno scopo, un motore di energia, ma sempre con i piedi per terra. Insomma la tradizionale “montagna scuola di vita”, che li faccia maturare correttamente

    oppure quando scrivi al commento #86

    Io invece insegno un approccio alla montagna che fa camminare insieme alla montagna lungo tutto l’asse dell’esistenza

    Perdona se sono indiscreto, ma non capisco una cosa: DOVE svolgi questa attività di insegnamento/formazione?
    Al CAI?

  6. Tutto questo discorso non è direttamente collegato con la montagna. Sono io che, avendo i piedi nei due mondi educativi, collego i concetti. Non è sbagliato in assoluto ragionare in termini di “fare il grado”. E’ discutibile che sia l’istruttore che aggiunga anche questo stress sugli allievi. Un istruttore che sia innanzi tutto maturo e responsabile insegna che la montagna è bella anche sul II grado (affrontato cum grano salis), che non si è fighi solo se ieri facevi il 6c, oggi il 7a, domani il 7b, ecc. Un istruttore maturo e consapevole crea la corretta forma mentis negli allievi e poi ciascun allievo si posizionerà sui livelli tecnici coerenti con i suoi talenti. Quindi i ragazzi che “scalano forte” ci devono arrivare per un loro stimolo interiore e non perché pressati dal “dai e dai” degli istruttori. Purtroppo mi capita di vedere/sentire (i discorsi sono altrettanto deleteri) molti istruttori che agiscono in questo modo errato. Non frequento tutte le scuole CAI d’Italia, ma (anche solo da osservatore) un bel feedback, almeno del nord ovest, penso di averlo. Devo dire che, per quel che mi risulta, il fenomeno mi pare più eclatante nel settore dell’alpinismo/arrampicata che in quello dello scialpinismo, dove sono rarissimi, quasi nulli. Su tutto questo si innesca l’altro obiettivo educativo che è quello che la forma mentis prudenziale e ragionevole in montagna, una volta costruita nella testa degli allievi, a loro serve anche in tutti i risvolti dell’esistenza. 

  7. Ho accumulato abbondante esperienza in oltre 40 anni di didattica e non si dissipa certo solo perché adesso non sono più direttore di scuola. Il problema è connesso allo stress che vedo in falesia e nello scialpinismo “garista” (il corrispondente sulle nevi). L’altra settimana ho partecipato a un riunione (nel settore della formazione giovanile che NON c’entra con la montagna) e abbiamo ribadito che il focus strategico è insegnare ai giovani a gestire le pressioni di una società prestazionale. La società attuale propone un modello altamente prestazionale e chi non regge va in crisi, perché si sente fallito e accumula infelicità e rancore. Basta guardare le pubblicità: solo belle auto, solo belle ragazze, solo belle case, solo bei vestiti, solo belle vacanze in posti fighissimi… Un adulto “corazzato”, cioè maturo e lucido, è (o, meglio, dovrebbe essere) immune e sa gestire e adeguare queste situazioni alla proprie realtà. I ragazzi sono più fragili, specie in questa fase storica in cui le famiglie non sono così tetragone nel trasmettere la scala dei valori, la tecnologia paradossalmente li isola (posso comunicare con tutti dalla mia cameretta e proprio per questo non esco più dalla cameretta…), in più c’è l’effetto lockdown che per molti è stato devastante, con sbandamenti anche nei rendimenti scolastici, e da cui non si sono ancora ripresi. Se gli educatori sono interessati al bene di ragazzi/e, devono insegnare loro a saper gestire queste forme di stress. CONT

  8. ma hanno tutti, e sottolineo tutti, un timore reverenziale nei confronti della montagna in generale e per arrampicare in montagna.  Secondo me anche troppo e immotivato. Del tipo 7a/b in falesia che ha come obbiettivo dell’estate la Fehrmann al Basso…

    Vero, giusta osservazione. Vado a scalare con diversi giovani che potrebbero essere miei figli, e noto anche io questo atteggiamento. Se avvesi la loro età e mi tenessi come loro, in montagna non mi farei i loro timori. Andrei e poi si vede, al limite rinuncio. Evidentemente cercano di andare più sul sicuro di quando eravamo giovani noi. Poi  forse, per noi,  è stato economicamente più facile. Soprattutto per noi che dalla Toscana , le Alpi e le Dolomiti sono lontane. Però ho l’idea che avevamo un senso più spiccato di metterci in gioco, con meno sicurezze.

  9. A parte tutto io vedo però un errore di fondo nel giudizio sui giovani, almeno per quanto riguarda l’arrampicata.
    Ci sono molti che arrampicano negli ambienti che frequento per lavoro, molti di più di quando io avevo la loro età (indicativamente tra i 20 e i 30). Gli piace molto arrampicare e si allenano molto, in palestra almeno 2 volte a settimana e fanno gradi per me alti. Si tengono, come si dice.
    Amano la montagna e la frequentano come escursionisti, anche “duri”, con scammellate invereconde, ma hanno tutti, e sottolineo tutti, un timore reverenziale nei confronti della montagna in generale e per arrampicare in montagna.  Secondo me anche troppo e immotivato. 
    Del tipo 7a/b in falesia che ha come obbiettivo dell’estate la Fehrmann al Basso…
     
    E infatti in montagna ad arrampicare c’è molta meno gente che quarant’anni fa.
    In altre parole la mia impressione sulle giovani generazioni è l’opposto di quella di Crovella: gente con un approccio ben distante da grado e performance a tutti i costi in montagna (non in falesia, però), ma anzi anche troppo “castrata” da chi ha insegnato loro.
     
    Disclaimer: quanto sopra vale per arrampicata e alpinismo e in realtà ignoro la situazione in campo sci-alpinistico, ma tendo a pensare che difficilmente possa essere molto differente.

  10. Crovella non volevo conoscere il tuo CV né mettere in dubbio la tua competenza, ma semplicemente capire.
    Dici che:

    sono stato direttore di una delle più importanti scuole italiane e in passato anche istruttore di alpinismo e relativo organizzatore di attività didattica e sociale

    Usi il passato, quindi suppongo ADESSO tu non lo sia più.
    Dici anche:

    Sono istruttore titolato di scialpinismo da 40 anni

    OK, ma “eserciti”?
    Cioè partecipi ai corsi come istruttore?
    Quando scrivi che:

    […] io preferisco di gran lunga proporre a giovai e giovanissimi una montagna semplice e sana, che dia loro dei valori etici, uno scopo, un motore di energia, ma sempre con i piedi per terra. Insomma la tradizionale “montagna scuola di vita”, che li faccia maturare correttamente […]

    in che ambito faresti queste “proposte” a giovani giovanissimi?
    Nell’ambito di qualche corso CAI?

  11. Mah …non so fino a che punto si possano applicare a questa fase storica le categorie classiche del nichilismo attivo (aggressivo) e del nichilismo passivo (depressivo) così come si è sviluppato a cavallo di Ottocento e Novecento e magistralmente descritto dalla letteratura russa. Andremmo fuori tema. Per quanto riguarda il tema specifico delle fasce giovanili di arrampicatori e/o alpinisti bisognerebbe starci più dentro per esprimere valutazioni attendibili. Da quel poco che vedo e leggo io mi pare ci sia in atto un processo di “secolarizzarione”. Anche in questo settore della società è finita l’epoca delle grandi “narrazioni” che hanno caratterizzato gli ultimi decenni del secolo scorso. Siamo in fase post-moderna. Tutto l’apparato costruito sopra l’attività fisica dell’arrampicata mi sembra si sia dissolto o interessi molto meno. Ho trovato recentemente questa definizione del cinema d’azione contemporaneo: “physical motion in place of real emotion”. Molto azzeccata e secondo me applicabile anche a una grossa parte dell’alpinismo che finisce  sui media e che trovo di una noia ripetitiva che mi fa dormire dopo qualche minuto. È un bene o un male? Come evolverà? Non ne ho la più pallida idea. So solo che i livelli di prestazione media anche degli “amatori” sono molto aumentati e questo significa disciplina, allenamento, fatica, impegno. Tanta roba sul piano educativo in un mondo occidentale dove il benessere accumulato dalle generazioni precedenti attenua la spinta alla prestazione e al miglioramento indotta dalla fame. Adesso vi lascio perché vado io a fare l’allievo, alla mia tenera età, sulle tecniche di salvataggio in kayak da mare. Così migliorerò magari la capacità di gestire le mie paure ancestrali in un ambiente che conosco meno della montagna. Non è mai troppo tardi per tornare a scuola diceva il mitico maestro Manzi della TV in bianco e nero. Saluti. 

  12. L’esperienza diretta sui giovani deriva dal fatto che nella ns scuola abbiamo tantissimi allievi giovani, sui 25 ma anche di 18-20 anni. È una nostra tradizione dalla notte dei tempi. A un certo punto, circa 22 anni fa, si era un po’ alzata l’età media degli allievi, ma da qualche anno è calata nuovamente sulle ns medie storiche. Quindi “so” di cosa parlo quando si tratta di impostare i giovani. Inoltre, del tutto al di fuori del mondo della montagna, mi occupo di formazione giovanile  (anche qui da tempo immemore).

  13. Vabbè, abbiamo appurato, se mai ci fosse il dubbio che “untantoalchilo” è un Crovella che ha ceduto alle sirene dell’anonimato, pur non essendo capace.
    Insomma una specie di Dottor Jekill e mister Hide. Solo che, nel nostro caso le due figure si equivalgono.
    Cominetti, dove sei quando servi? 😉

  14. “@79 che domanda… chi frequenta strutturalmente il blog (col quale collaboro da 7-8 anni ormai) sa bene che ruolo istituzionale occupo. Sono istruttore titolato di scialpinismo da 40 anni, sono stato direttore di una delle più importanti scuole italiane e in passato anche istruttore di alpinismo e relativo organizzatore di attività didattica e sociale, più un’infinità di altre cose. Che c’entra poi? Ci sono lettori e commentatori di svariatissime provenienze, escursionisti, byker, runner, e poi di tutti i livelli tecnici, dal II al 10 grado. Se questo fosse un circolo riservato ai “soli” estremi, Gogna avrebbe messo il relativo cartello all’ingresso.”
    guarda che te lo chiedono perché da giorni ammorbi il blog con il tuo ruolo di educatore, la tua ampia visione su questo branco di giovanotti nichilisti  e disperati, sui valori da trasmettere a costoro prima che si suicidino o sterminino la famiglia e allora viene da chiedersi da quale esperienza concreta e specifica derivi questa competenza settoriale, questa visione specialistica e questa grande esperienza sulla condizione giovanile.
    Plausibilmente, visto quello che scrivi e come quasi tutto quello che veicoli, dal nulla…
    La competenza tecnica non c’entra nulla.
     

  15. il mio 82  è riferito a 78
     
    invece @81. se un istruttore pesta sull’allievo circa l’importanza del grado scalato, penso che commetta un grave errore, distogliendo la didattica dall’obiettivo principale (=apprendere un modo maturo e consapevole nell’approcciare la montagna, dal grado zero al 10.mo grado a seconda del proprio talento individuale). Ho sintetizzato la negatività dell’esasperare la performance, identificandola nello spingere il grado (su roccia), ma può avere infiniti altri risvolti: il dislivello totale o il dislivello orario nello scialpinismo, i gradi delle pendenza nello sci ripido, il tempo nella corsa, la lunghezza e l’impegno nei percorsi di MTB… Chi è vittima di queste “ansie”, vive la montagna in modo stressante e prima o poi si “spezza” e si allontana dalla montagna (in generale, suggerisco una rilettura collettiva de I Falliti di Motti…). Io invece insegno un approccio alla montagna che fa camminare insieme alla montagna lungo tutto l’asse dell’esistenza (qui metterei il link a un mio articolo sul tema, pubblicato sull’ ultimo annuario GISM, ma esiste solo la versione cartacea).  

  16. …potrei sbagliare, ma credo che ci siano pitture rupestri del neolitico in cui si riportavano le sentenze “non ci sono più i giovani di una volta”, “dove andremo a finire”, “se non fate come dico io andrete a finire male”…

  17. @ Pasini. Non mi riferisco a cattivi maestri, mi riferisco a un nichilismo generale che io, nel mio piccolo, cerco di riempire insegnando a sfruttare la montagna come elemento attraverso il quale imparare un approccio maturo e consapevole nelle scelte di vita. Se interessato ad approfondire il mio pensiero: https://www.caitorino.it/montievalli/2019/05/09/montagna-scuola-di-vita/
     
    @79 che domanda… chi frequenta strutturalmente il blog (col quale collaboro da 7-8 anni ormai) sa bene che ruolo istituzionale occupo. Sono istruttore titolato di scialpinismo da 40 anni, sono stato direttore di una delle più importanti scuole italiane e in passato anche istruttore di alpinismo e relativo organizzatore di attività didattica e sociale, più un’infinità di altre cose. Che c’entra poi? Ci sono lettori e commentatori di svariatissime provenienze, escursionisti, byker, runner, e poi di tutti i livelli tecnici, dal II al 10 grado. Se questo fosse un circolo riservato ai “soli” estremi, Gogna avrebbe messo il relativo cartello all’ingresso.

  18.  

    80) Si vede che Pasini sa leggere bene come evolve la società. Saranno i frutti del tuo lavoro? O di una grande sensibilità?
    Sicuramente di tutti e due.

  19. Fai un minestrone spaventoso, come i tuoi amici. Da tempo sostengo che la società occidentale (democratica) è il miglior dei mondi possibili e ciò significa 1- che non è detto che sia esente da difetti, anche gravi e 2- che non coincide necessariamente con il capitalismo, specie quello spinto (di cui io sono un detrattore e non un sostenitore). Alla voce delitti familiari, aggiungi anche il nome di Doretta Graneris (di Vercelli, se non ricordo male) che si macchiò di un delitto a metà Annni Settanta. Ma io, con riferimento a oggi, non mi riferisco tanto ai delitti familiari che purtroppo sono “sputati fuori” a getto continuo dai sistemi di informazione (anche loro hanno una certa responsabilità perché alimentano un “effetto scia”… cioè di imitazione…).. Nelle mie riflessioni non mi riferisco tanto ai casi esasperati, come il recente fatto di cronaca di Paderno, ma faccio riferimento a un generale “vuoto”, un malessere nichilista che vedo chiaramente diffuso fra le giovani generazioni dei giorni attuali. Ovvio che le soluzioni strutturali sarebbero ben altre, ma (complice anche l’impoverimento generale dei conti pubblici) nessun governo (di qualsiasi colore politico) le attuerà mai. L’utilizzo della montagna come strumento per fornire dei codici comportamentali nell’esistenza a 360 gradi è un piccolo contributo, ma almeno è quello che operativamente faccio e loi faccio da molto tempo. Ti stupirà, ma agisco così da 40 anni, come molti colleghi istruttori della ns. scuola, e chi ha avuto la fortuna di beneficiare di questa impostazione, ci è grato a distanza di decenni. Ancora oggi incontro pe rle montagne allievi di 30 anni fa che vengono a salutarmi e ringraziarmi per come abbiamo loro trasmesso un “certo” modi di interpretare la montagna e di conseguenza la vita in generale. Quindi significa che il metodo funziona: di fronte al nichilismo attuale, occorre estenderlo numericamente e cercare di raggiungere quanti più giovani possibili per strapparli al “vuoto” esistenziale prima che qualcuno di loro sia inghiottito dal gorgo.

  20. “ il grado scalato? Una cazzata senza nessun valore”
    altra perla. Il grado scalato conta eccome.
    qualunque disciplina sportiva implica crescita. Prova ad andare da un centomtrista dilettante a spiegargli che anche se impiega mezz’ora va bene, anzi i valori sono altri
    QualuNque ragazzo che si avvicini all’arrampicata vuole crescere, semmai è come e con quali obiettivi e orizzonti ( anche mentali)
    la spinta al miglioramento è in se educativa, quindi il grado conta eccome (anche se va capito che non è la meta). 

  21. Non sono un attento ci conoscitore della cronoca e della storia dell’alpinismo e dell’arrampicata come molti qui, quindi mi inchino di fronte alla competenza, ma non mi sembra che oggi l’ambiente dei personaggi di punta sia caratterizzato da “cattivi maestri” con orientamenti distruttivi e nichilisti, tendenzialmente suicidari. Mi sembra che questi persone con questi tratti di personalità abbiano caratterizzato altre epoche storiche. Al contrario, oggi l’ambiente mi sembra molto “perbenino”, persino troppo per i miei gusti. Facce, atteggiamenti, abbigliamenti da “bravi ragazzi”. Alcuni persino come Honnold mettono le mani avanti sottolineando spesso e con forza l’importanza della preparazione e delle capacità. Lo stesso Honnold da quando è diventato famoso, si è sposato e ha fatto un figlio ha addolcito alcuni tratti leggermente “psicotici” che caratterizzavano la prima fase del personaggio. In questo vedo anche una forte influenza degli sponsor: devianza, ribellione, anticonformismo non sono più di moda. Roba da boomer. Non vedo quindi francamente un pericolo imitativo autodistruttivo. Sono paure arcaiche influenzate da fatti di cronaca enfatizzati dai media ed estranee all’ambiente montagnardo. Altrove sono eventualmente i pericoli e i “cattivi maestri”, non in falesia o nelle palestre indoor e men che meno sulle vie alpine. 

  22. Crovella, una curiosità giusto per capire: sei istruttore (accompagnatore?) di alpinismo giovanile?
    O meglio: qual è il tuo ruolo all’interno del CAI?
    Libero di non rispondere, ovviamente.

  23. “Noi non eravamo così, ecco perché eravamo più corazzati e sapevano “distinguere”, avevamo gli strumenti per farlo. Oggi a maggioranza non li hanno.”
     
    noi, voi, loro, i giovani di oggi, quelli di ieri. 
    altre banalità generalizzanti ne abbiamo?
    Omar e Erika, Pietro Maso ti dicono nulla? erano giovani di ieri. I casi di cronaca ci sono sempre stati.  
    La società capitalistica, che tu ami tanto e che contrabbandi come il miglior mondo possibile invece genera mostri, dolore e vite distorte.  non solo fra i giovani. Non te ne eri accorto?
     
    ma non si risolve con i corsi caiani di buone intenzioni, si risolve con sistemi di vita a misura d’uomo, opportunità di  lavoro e studio, recupero di ritmi naturali ed eliminazione della becera propaganda social,  tv e scolastica  (quindi in buona parte utopia, perché quelli che veicolano questo mondo come il migliore possibile anelano a branchi di pecore non a individui critici, quindi se sempre più contraddittorio e sradicato dalla realtà). 
     
    C’è da tremare all’idea di chi tu possa “educare” chicchessia, ma confido che sia solo la solita veicolazione di un ego ipertrofico e che in realtà, soprattutto i giovani, che sono assai più svegli di quel che si pensa, ti incasellino al primo incontro nella tua giusta dimensione.
    Questo raduno di cariatidi che si credono i formatori e educatori, salvatori dei destini del mondo, fa pena.
    Certe ristrettezze di vedute esistevano  anche negli anni  ottanta e – guarda caso – erano in genere istruttori pataccati, in buona parte spazzati via dalle stesse idee di’ quei  giovani che pretendevano di “educare” e che all’epoca si chiamavano Manolo, edlinger, berahult, Boivin, bernardi ….  
     
     
     
     

  24. Mah… Devo dire che una volta di più percepisco che non comprendete il contenuto delle mie riflessioni. O diciamo la stessa cosa con modalità opposte (per cui non ci capiamo, causa opposti stili espressivi) o diciamo cose opposte e quindi inconciliabili nei contenuti. Può anche essere che sia il secondo caso, perché no? L’andar in montagna non deve essere UNICO né da una parte né dall’altra. Mi accusate di ciò, di esser rigido sulle mie posizioni, ma sinceramente, leggendovi, emerge che siete molto più rigidi voi di me nelle vs posizioni antitetiche alla mia.
    Come ho già detto ieri, sarà che in questa fase della mia vita sono caratterizzato più dalla mia personalità di “educatore” (in generale, non solo alpinistico) che dalla mia personalità alpinistica, ma sono atterrito, anche dai ricorrenti fatti di cronaca, nel constatare il “vuoto” esistenziale che grava sulle giovani generazioni dei nostri giorni. Noi non eravamo così, ecco perché eravamo più corazzati e sapevano “distinguere”, avevamo gli strumenti per farlo. Oggi a maggioranza non li hanno.
    A me interessa aiutare i giovani di oggi a trovare un modus operandi nella loro vita, ovviamente imperniato sulla lucidità e consapevolezza nelle scelte. La montagna, “scuola di vita”, è molto utile a tal fine. Non è l’unico strumento per ottenere ciò e credo che non si debba insegnare a mettere nel mirino l’obiettivo di “scalare forte”. Sono due obiettivi incompatibili. Per cui diffido da chi invece si affida 8anche in buona fede) a quell’altro messaggio. Si rischia di esser convinti di mettere nel “vuoto” esistenziale dei giovani un qualcosa di concreto (=”scalare forte”) che poi invece prima o poi si rivela “vuoto” a sua volta. La caduta, metaforica, può esser davvero dirompente. Ecco, ieri quando ho letto l’articolo, il puzzle di tanti interventi anni Ottanta, la mia prima reazione non è stata “OHHHH che bello che figata”, ma è stato quello di pensare immediatamente a I Falliti di Motti. Mi sto convincendo, ogni giorno di più, che le drammatiche condizioni esistenziali e nichilistiche della società contemporanea dovrebbero indurci a utilizzare la didattica delle montagna per “defallitizzare” i giovani nella totalità della loro esistenza, cioè sottrarre quel cancro esistenziale che magia le loro esistenze dall’interno. Per converso: il grado scalato? Una cazzata senza nessun valore

  25. Benassi, se ti ecciti con altre fessure e strapiombi è perché sei normale. 
    Io non sono mai andato da adolescente a guardare le riviste osé in edicola eppure l’altro sesso mi ha sempre eccitato come è giusto che sia. Animalescamente.
    Convinto che tutti i problemi dell’essere umano abbiano origine dalla vita sessuale, invito chi non ci crede a pensarlo. E a farsi le seghe senza vergognarsene.
    Altrimenti certi commenti ingalluzziti ai post climbing girls, non si sarebbero sentiti.
    Sarà che il nipote di Freud è un mio amico….

  26. Crovella 71, sono d’accordo al 90% su questo tuo commento.
    Il giovane che ha come modello l’arrampicatore che si tiene alla cacca di mosca, avrà una motivazione più forte ad allenarsi e a prepararsi. Lo strizzamosche potrà essere un coglione rischiatutto quanto un ottimo alpinista ben preparato. Siccome i secondi sono più dei primi di certo (specie se vanno in montagna) non li catalogherei come fai tu in scomparti rigidi e stagni.
     

  27. “Difatti l’obiettivo NON è inculcare un modello…ma instradarli nel saper seguire un cammino responsabile nella vita…da estendere a tutto il resto della vita (dalla famiglia al lavoro agli impegni vari)”
     
    Ma è un mia incapacità o frasi e termini scelti da Crovella fanno sembrare il suo programma l’esatto contrario di quanto detto dal buon Pasini?

  28. Difficile invece che riesca in ciò lo sbandierare eroi omerici appesi con il mignolino ad una cacchettina di mosca… cosa che invece fa eccitare i fan della visione a me opposta.

    Premesso che a me, piuttosto che gli eroici omerici e le cacchette di mosca, fanno eccitare altri tipi di “fessure e strapiombi”…
    Non mi passa per l’anticamera del cervello di invitare NESSUNO ad emulare Gianni Comino sui seracchi della Poire, io per primo non mi impegnerei in questo tipo di salita, perchè è evidente che si gioca alla roulette russa, ma non si può negare che Comino (e non solo lui)  avesse individuato un problema alpinistico evidente: la scalata sui seracchi.  Ed i problemi alpinistici sono li per essere risolti dagli alpinisti. Molte altre vie hanno evidenti pericoli oggetti, praticamente tutte quelle della Brenva. Per quanto mi riguarda ho fatto diverse solitarie, ma le ho fatte quasi tutte in auto-assicurazione perchè evidentemente non ho la determinazione sufficiente, ho forse ho troppa consapevolezza di non essere in grado di farle diversamente. Mentre ho amici che di solitarie senza corda ne hanno fatte. Le hanno fatte nel momento in cui si sentivano pronti,  in grado di farle, come se fossero in una bolla protettiva.  Lo stesso Armando Aste, alpinista cattolico praticante, ha dichiarato che per il fatto di essere credente, ha realizzato assai meno di quello che avrebbe potuto fare in montagna, perchè la vita è un dono e non la si può giocare ai dadi. Ma questo, però,  non gli ha impedito nella sua lunga ed intensa attività alpinistica, oltre ad aprire vie di altissimo livello, di fare anche diverse solitarie di itinerari difficili: via della Concordia, la Couzy alla Ovest di Lavaredo, Spigolo dei Fassani alla Vallaccia, Graffer al Basso, oltre 3 quarti della attuale via Messner alla nord dell’Agner, ect. Ma forse lui essendo credente, si sentiva sotto la protezione divina.
     

  29. Nardi al Nanga Parbat, se è stato incosciente, lo sarà stato e basta. Il fatto che avesse un figlio piccolo non vedo cosa c’entri. 
    Alzando la difficoltà non è detto che aumentino i rischi.
    L’alpinista della domenica imbolsito e poco o nulla allenato e che ricorda di avere fatto questo e quello quando era più giovane, rischia più di Honnold slegato su Freerider.
    Le idee chiare si possono avere solo con una pratica di buon livello, altrimenti si rischia di parlare a vanvera di qualcosa che si conosce solo in teoria o poco più. 
    Gli esempi in tal senso qui non mancano.

  30. Difatti l’obiettivo NON è inculcare un modello né agire stile paparino che toglie dai guai i giovincelli quando fanno cazzate, ma instradarli nel saper seguire un cammino responsabile nella vita, scelta dopo scelta. A me importa poco, per non dire niente, se gli allievi cui oggi insegno a leggere una cartina o come legarsi in cordata o come fare la doppia, diventeranno poi dei semplici terzo gradisti oppure dei sesto gradisti o addirittura dei decimo gradisti. Potrebbero addirittura smettere con l’andar in montagna, però dopo aver appreso quella forma mentis che ti fa costruire in testa l’andar in montagna e che, una volta che ce l’hai, puoi estendere a tutto il resto della vita (dalla famiglia al lavoro agli impegni vari). Difficile invece che riesca in ciò lo sbandierare eroi omerici appesi con il mignolino ad una cacchettina di mosca… cosa che invece fa eccitare i fan della visione a me opposta. 
    Nella formazione del carattere di una persona, l’apprendere ad andare in montagna con la testa sul collo è molto utile. Diciamo che è un uso “strumentale” dell’andar in montagna come passaggio obbligato per sapersi poi muovere nella vita con maturità e lucidità.  “Montagna scuola di vita” è un mantra che non ho certo inventato io, ma sul quale ho già scritto, mi pare nel 2019, cioè 5 anni fa e non  ieri mattina:
    https://www.caitorino.it/montievalli/2019/05/09/montagna-scuola-di-vita/
     
    Non esiste solo la montagna come strumento per acquisire consapevolezza e lucidità nella vita: sono altrettanto utili moltissimi altri sport, interessi e impegni, non ultimo anche un sano coinvolgimento politico, tutte cose che permettono di raggiungere gli stessi obiettivi educazionali. Però la montagna, con la sua severità di fondo, è un bel corso formativo per come si affronterà l’esistenza in futuro. Dato lo sbandamento generale che vedo nelle giovani generazioni attuali (non solo in montagna, ma proprio nella vita in generale), a titolo personale io sono più interessato a aiutare i giovani a formarsi in testa una capacità nell’affrontare con maturità l’esistenza (il tutto attraverso l’addestramento alla montagna) piuttosto che far  evolvere degli alpinisti in senso stretto (magari frustratissimi nella vita di tutti i giorni).

  31. Nella mia esperienza più che la fragilità ho avuto modo di notare, anche in ambito lavorativo, la difficoltà tra molti della fascia più giovane nel reggere la frustrazione, anche in quelli che in gergo vengono chiamati “talenti” o “alti potenziali”. L’abitudine ad essere valorizzati, a essere protetti (gli psicologi parlano di “ethernal parenting” ) e a ricevere like rende difficile accettare le resistenze che la realtà oppone ai nostri sogni e bisogni. Questo mi ha portato a pensare che la priorità in sede formativa sia non tanto quella di offrire o inculcare un modello considerato “ottimale” (che esiste solo nelle fantasie di chi ha forti istanze regolatorie e di controllo verso se stesso e gli altri) ma abituare le persone ad essere rigorose nello sviluppo della consapevolezza di ciò che siamo, di cosa vogliamo e possiamo fare e dei criteri e delle conseguenze delle nostre azioni. Senza sconti o speranze di soccorrevoli e indulgenti figure genitoriali che ti tirino fuori dai guai o ti proteggano qualunque cazzata tu faccia. Attrezzati con una buona capacità di auto-analisi e con un’aperta disponibilità ad accettare anche i ritorni duri che il mondo ci riserva, saranno poi loro a elaborare una visione personale o a sceglierla tra quelle sul mercato. Nella vita, nel lavoro, nella famiglia e nel tempo libero. Da questo punto di vista (consapevolezza di se’ e  attenzione ai ritorni che ci da’ il mondo esterno) l’alpinismo e l’arrrampicata sono un ottimo terreno di apprendimento (così come l’andare per mare). Un alpinista poco consapevole di se’ e poco attento all’ambiente dura poco, a meno che goda di speciali protezioni divine.  

  32. Quindi secondo il Crovella pensiero, se non interviene l’educatore caiano  (sic!) che plasma i neuroni dei ventenni e trentenni c’e il rischio che torme di giovani alpinisti si buttino a mare come i lemming per emulare della bordella e cerchino di pagaiare sino a baffin pensando che quello sia il giusto approccio… 
    da quanti decenni non ti metti un imbrago e fai una via in montagna o falesia? Perche io vedo un sacco di gente con quattro palle che scala su difficoltà che io alla loro eta manco mi sognavo, che ha una buona preparazione generale e idee ben chiare e fa, senza tante musse, vie di tutto rispetto.
    brutta cosa credersi il centro del mondo…

  33. Si vede che sono influenzato dalla diretta valutazione delle nuove generazioni che trovo molto più fragili e disorientate in generale, per una serie infinita di motivi. genitori meno attenti (se non addirittura disattenti…), distrazione e spinta all’isolamento dovute alla tecnologia (puoi comunicare con tutti standoi chiuso nella tua stanza, per cui non ne esci più), venir meno di ideali (es anche quelli politici). Insomma viviamo una realtà molto più arida e superficiale di quando noi eravamo ragazzi e questo rende più fragili i giovani di oggi, sto parlando di tutti in generale e non solo di quelli interessati alla montagna. per cui credo che oggi sia molto più delicato il compito educativo, in generale e anche solo per la montagna. Ero ragazzo anche io al tempo del crollo del seracco della Poire di Comino, ma la sensazione generale è che fossimo tutti più corazzati: seppur 20enni, quindi non navigatissimi, sapevamo distinguere la portata innovativa del grande alpinista senza venirne condizionati dalle sue negatività esistenziali. Siamo stati tutti alle conferenze di Comino, eppure non ci siamo fatti ingoiare dal gorgo.
     
    Invece , trattando con i 20enni (ma anche con certi 30enni) di oggi, ho avuto ripetute conferme che sono molti quelli non così “corazzati” per cui risultano facilissimamente influenzabili. In montagna come nel resto della vita. Nell’era della “comunicazione” diffondere questa o quell’altra visione dell’alpinismo non è più un fatto esclusivamente privato, anche se non si è “istruttori” in carica. Per cui è materia, oggigiorno, da maneggiare con estrema cautela. temo che non sia chiaro a molti. Credo che una bella fetta degli interventi anni ’80, ripresi dall’articolo, oggi sarebbero “inopportuni”, per i suddetti motivi.

  34. Messo da parte il controverso giudizio morale e garantito il rispetto dovuto a chi fa scelte consapevoli e ne accetta responsabilmente le conseguenze, non c’e dubbio, come già ampiamente detto da altri, che l’analisi degli errori e la diffusione dei risultati a scopo “educativo” sia utilissima per la prevenzione. Del resto è prassi consolidata in chi svolge per mestiere attività rischiose. La Review After Action è ampiamente utilizzata ad esempio dai militari. Si basa sulla stretta aderanza ai fatti, sulla non-colpevolizzazione e sulla spersonalizzazione. I piloti americani usano ad esempio alcune accortezze comunicative come la terza persona, proprio per evitare il carico emotivo che comporta il riferimento personale e che può avere effetti distorcenti, come quelli che si osservano ad esempio ogni giorno su questo blog che spostano l’attenzione dal contenuto alla relazione. 

  35. Crovella, non mi sembra che nei commenti fin qui fatti ci sia un incoraggiamento ai giovani ad andare a fare ascensioni sotto dei seracchi, che si sa benissimo essere estremamente imprevedibili e quindi mortalmente pericolosi. Quello che si invita ad avere, è una consapevolezza di quello in cui ti stai per impegnare. Un po come quando si accende un mutuo in banca, devi sapere che dovrai essere in grado di ripagarlo, pena le conseguenze.  Sotto un seracco di certo metti in gioco qualcosa in più , rispetto alle conseguenze di un mutuo impagato. Ma la gestione dei pericoli in montagna è essenziale. Ed i pericoli ci sono per gli alpinisti estremi come per i domenicali. Non è detto che una salita difficile sia più pericolosa di una facile. Spesso è il contrario. Certo ci sono salite difficili ed evidentemente pericolose. Se ci vai senza renderti conto sei un pazzo, ma se hai consapevolezza dei rischi, sei solo uno che ha fatto una scelta. Quindi da rispettare. Comino ha fatto la sua scelta con consapevolezza infatti c’è andato da solo. Il massimo rispetto. Come dice Pasini anche certi giudici antimafia sapevano che viaggiavano con la morte accanto. Ma hanno fatto la loro scelta, pur avendo famiglia. Quindi loro sono da rispettare, mentre Comino no?

  36. Solo una precisazione, perché mi par di intuire, da qualche intervento, che non è stato colto per intero i mie ragionamenti. il “giusto” e lo “sbagliato” non stanno nel praticare l’alpinismo estremo o  pure no. Sono due categorie completamente diverse: giusta o sbagliata è la modalità con la quale si approccia la montagna, a qualsiasi livello. Ho citato più volte, come esempio di approccio sbagliatissimo, quello di chi va a fare gite di scialpinismo, in sé facilissime, però quando il bollettino AINEVA da pericolo 4 o 5. Abbiamo avuto dei casi anche nelle nostre valli… Lo stesso vale, mutatis mutandis, per l’alpinismo impegnato, dove alzando l’impegno si alza anche il rischio oggettivo (ma compensato da fisico erculeo e talento alpinistico superiore a noi “normali”). Anche nell’estremo/impegnato c’è modo e modo di andare. Il già citata esempio dello sperone Mummery è stato a suo tempo stigmatizzato da personaggi ben più competenti di me, per cui non solo l’unico che avanza delle critiche in merito. Fra i due protagonisti, che davano – entrambi (vedi inserto in inglese riportato da Ezio) – l’impressione di aver completamente perso di lucidità in tutte le fasi decisionali, trovo assurdo che l’italiano si sia impelagato in una vicenda del genere, avendo un figlio nato qualche settimana prima! Ma la mia posizione critica non è tanto nei confronti dei personaggi in quanto tali: risponderanno, quando sarà ora, a moglie e figli. Sono allibito che altri individui, che tra l’altro sono alpinisti “normali”, li idolatrino come eroi omerici, quando dovrebbero esser citati – i due nel Nanga Parbat intendo –  in quanto espliciti esempi di come NON si fa alpinismo, anche a elevati livelli tecnici. Soprattutto mi dispiace, a me che probabilmente sono più un “educatore” che un alpinista, che si possano sbandierare ai giovani esempi sbagliati come questi due alpinisti, e chissà quanti altri. Fra giovani e giovanissimi  è facile che ci possano esser individui che non ancora elaborato una compiuta capacità d’analisi. Si rischia di instradare qualche giovane su una strada sbagliata.

  37. Due parole su alcuni commenti:
    – gli sponsor: per conservare un contratto di sponsorizzazione pare che al giorno d’oggi conti di più l’immagine e l’attività sui social (garantire N pubblicazioni al mese) che l’effettivo valore delle “imprese” compiute (che, come già scritto da tanti, il pubblico spesso non è in grado di valutare, senza contare che si può cmq “vendere” al grande pubblico come impresa qualcosa che in realtà non lo è).
    – free solo: se si sbaglia (o se si stacca un appiglio, o si viene colpiti da qualche scarica, ecc.) quasi certamente si muore, ma, anche se si tratta di un’attività così personale che non è possibile codificare/incasellare/giudicare (come scrive giustamente anche “Giova” Massari), mi sento di dire che chi vi si dedica lo fa solo dopo aver valutato di avere un accettabile margine di sicurezza; va da sé che la valutazione è soggettiva e, come tutte le umane attività, soggetta ad errori. Aggiungo che non tutti fanno solitarie estreme, alla Honnold: sono possibili anche salite in solitaria oserei dire “plaisir”, fatte per il puro piacere di muoversi in simbiosi con l’ambiente, leggeri e veloci.

  38. Preuss a Dulfer si dice non avessero dei fisici da eroe greco, ma furono dei fuoriclasse. Forse avevano una visione, una mente e una tecnica fuori dal comune.

  39. Ad ogni modo , secondo me , “fisico da dio” greco o “passione” non portano un uomo equilibrato a correre rischi folli.
    .
    Immaginiamo un “equalizer” , una moto sportiva con 150 kW data ad una decina di appassionati smanettoni ai piedi di un passo alpino.
     
    Io rimango convinto che l’incidente , anche mortale , sia possibile , ma la sola cosiddetta “passione” difficilmente li porterebbe a fare cose pazze.
    .
    Perche’ di vita ne abbiamo una , e sarebbe stupido giocarcela a dadi con scommesse troppo aleatorie.

  40. Siamo tanti e siamo tanto diversi gli uni dagli altri. C’è chi ha un fisico normale con una muscolatura normale e chi ha un fisico “alla Güllich”. Il compianto Catalano direbbe che “è più facile che un individuo con un fisico normale decida di praticare un alpinismo ‘normale’ mentre è ancora più facile che una persona con un fisico da statua greca decida di cimentarsi nell’alpinismo estremo”. Le variabili sono infinite. Parliamo di paura. Per alcuni la paura blocca ogni attività, per altri produce esaltazione. Hanno ragione i primi o i secondi ? Hanno ragione entrambi, in my personal opinion. Ognuno sceglie come frequentare “le terre alte” sulla base delle proprie caratteristiche.
    Io appartengo senza alcun dubbio al mondo dei montagnini “normali” eppure c’è stato un periodo (molti anni fa) in cui ero particolarmente allenato e mi sentivo sicuro e osavo un po’ di più. Niente di “estremo”, ben inteso. Il massimo del rischio che mi sono preso in gioventù sono state alcune salite solitarie. Monte Bianco dalle Aiguille Grises, Liskamm Orientale, Monviso, Cresta Accademica al Bric Boucie. Niente di che, ma la solitudine ha sicuramente comportato dei rischi maggiori rispetto alla presenza di un “socio” con cui condividere un “canapone”.
    Questo per dire che le nostre diversità producono approcci alpinistici assai diversi gli uni dagli altri. È vero che ci sono “gli esempi” che possono influenzare i giovani. Ma … fino ad un certo punto. Anch’io da ragazzo seguivo le imprese di Comino, di Grassi, di Manolo, di Boivin, ma non mi sono mai sognato di infilarmi in qualche super o iper couloir sul Tacoul. Quondi non riesco a seguire ragionamenti che cercano di suddividere “il giusto” dallo “sbagliato” associando a quest’ultima categoria chi pratica alpinismo estremo. Se lo fanno è perchè si sentono in grado di farlo. Per fortuna esiste ancora … il libero arbitrio.

  41. Può darsi che in me prevalga l’anima da educatore su quella da alpinista (nonostante il fatto che io sia apprezzato per le miei conoscenze in merito), ma io preferisco di gran lunga proporre a giovai e giovanissimi una montagna semplice e sana, che dia loro dei valori etici, uno scopo, un motore di energia, ma sempre con i piedi per terra. Insomma la tradizionale “montagna scuola di vita”, che li faccia maturare correttamente ed eviti (tanto per restare alla cronaca) che maturino le condizioni per episodi drammatici come quello odierno di Paderno Dugnago. Non credo invece nella valenza educativa di proporre ai giovani l’immagine di una montagna “impegnata e impegnativa”, nello sbandierare davanti ai loro occhi le imprese estreme del giorno, nel farsi vedere eccitati in prima persona per l’ultima via di alto livello come fossimo adolescenti davanti alla riviste osé. Quel tipo di montagna lì, io la vedo come una montagna “malata”, viziata all’interno da un qualcosa di morboso, rischia di rivelarsi una droga che divora i giovani anziché dare loro linfa vitale. Non la considero un messaggio positivo sul piano educativo. Ovviamente gli alpinisti estremi, specie se professionisti, continueranno a fare quel tipo di montagna, ma io non ho timori ad affermare che è sbagliato proporli come esempi cui ispirarsi, quasi come fossero eroi omerici.

  42. Visto dall’esterno del mondo delle GA, il loro “rischio” è conseguente ai clienti. Mi pare di aver parlato di rischio professionale, non di rischio alpinistico in senso stretto.
     
    Giova, vedi che il tono dei soliti (pur modificando i nick, si riconoscono) è del tipo scandalizzato perché no ci sono solo OHHHHHHHHHH

  43. Crovella è collegatissimo a una particolare realtà: la sua.
     
    Può permettersi di affermare ciò che dice perché probabilmente indirizza la sua attività all’andar per funghi o cose simili. Una cosa è certa, che di alpinismo non capisce un fico secco.

  44. #52:
    Io non ho alcuna presunzione di poter giudicare un Tom Ballard, e lo ho anche precisato (oltre a essere ovvio). Ho solo detto, “ma…” che riflette i miei dubbi circa i perché a volte si facciano delle scelte, che risultano drammaticamente errate.
    Tutte le riflessioni espresse negli articoli, valide per il loro tempo e per certi versi, vertono appunto su questi “perchè?”. Conosciamo tutti, ciascuno al proprio livello e con maggiore o minore intensità, la spinta a salire, a metterci alla prova: ma quali sono i meccanismi che a volte impediscono di vedere che si sta presumendo troppo di sè stessi? E qui stiamo parlando di valutazioni preliminari a mente fredda, ma credo conosciamo tutti la “febbre della vetta” (“io vado avanti a tutti i costi!!”) che a volte prende durante l*azione. Personalmente nel mio piccolissimo la ho sperimentata un paio di volte, e analizzando a posteriori i miei comportamenti e le mie sensazioni in quei momenti ne ho un ricordo assai poco piacevole.
    Interrogarsi sul se e come certi aspetti della personalità e del carattere di alpinisti coinvolti in brutte vicende abbiano o non abbiano avuto un ruolo nella tragedia non significa volerli giudicare, ma solo cercare di capire – e non per curiosità macabra, ma perchè questa comprensione potrebbe avere, riportata alla scala di ciascuno, delle lezioni da darci. Lezioni immateriali ma secondo il mio modestissimo parere altrettando importanti delle analisi sul materiale e sulle tecniche per identificare eventuali difetti.

  45. Ci sono molte attività più pericolose dell’alpinismo. Alcune vengono svolte anche professionalmente. La leva economica non e’ l’unica motivazione. Per accettare una elevata probabilità di perdere la propria vita ci vuole qualcos’altro, chiamiamolo come vogliamo. I reclutatori tendono a selezionare per queste professioni non esaltati, ma persone “normali”, con famiglia, per proteggere l’esercizio del mestiere dagli eccessi di persone con istinti di morte, attivi o passivi, fuori controllo. Su cosa si fonda il nostro giudizio morale su chi si assume certi rischi pur avendo carichi personali? L’utilità sociale dell’attività? Forze speciali o pm antimafia madri e padri si, funamboli del circo senza rete no? Io lascerei perdere il giudizio morale, i criteri del quale variano peraltro nel tempo e nelle culture. Parlerei piuttosto di consapevolezza di se’ e di assunzione di responsabilità rispetto alle proprie scelte di accettazione e gestione del rischio, come ha ricordato Benassi. In sede di formazione e di comunicazione all’interno della “comunita’” di riferimento punterei proprio sulle sviluppo di queste ultime. Poi ognuno, almeno in parte, è padrone della sua vita.  Se si tratta poi anche di professioni, a maggior ragione, soprattutto se coinvolgono responsabilità verso terzi. Anche per gli sponsor un suicida non e’ un buon affare. 

  46. “ Fin qui gli alpinisti amatoriali della domenica. Per i professionisti, due categorie: le guide alla fin fine “devono” accettare un maggior rischio professionale, sennò non lavorerebbero quasi più: personalmente le GA sono i soggetti che trovo meno coinvolti in questi discorsi. O si turano il naso, figli o non figli, o non fanno mangiare nessuno.”
    Ma ti rendi conto di quel che scrivi? Basta aver conosciuto non una ma mezza guida per comprendere che il loro lavoro sta all’opposto del rischio.
    sono guide non stuntman. mi auguro che Cominetti oMichelazzi o qualunque guida legga il blog ti chiarisca le idee sul punto, perche hai tirato fuori l’ennesima fesseria.
    Sei sempre piu scollegaro dalla realtà 

  47. Caro Crovella, nessuno si eccita.
    Ammiro della bordella per la capacità alpinistica a mio avviso fuori dal comune, non grido al miracolo, non trasmetto messaggi, tantomeno ai giovani di oggi che credo abbiano In buona parte eccellenti capacità (e rifuggano i rinoceronti pataccati e retrivi come te),  non giudico ( a differenza tua) e scalo per il mio piacere quello che mi sembra alla mia portata valutando di volta in volta.
    evidentemente frequenti giusto il tuo circoletto caiano ristretto, in cui alligna la prosopopea gerarchica, perche ti assicuro che per i monti ci sono ventenni che neanche ti vedono, sotto ogni punto di vista. 

  48. fiato),ma a quanto vadano fuori di zucca i 60enni di oggidavanti alle medesime notizie. L’asimmetria è in questo divario: molti 60enni di oggi si “eccitano” (davanti alle imprese alpinistiche)

    certo che mi eccitio a vedere queste salite e le invidio pure.  ho 65 anni il fisico non è più quello di prima ma la passione è sempre tanta.

  49. Tom aveva un curriculum alpinistico di tutto rispetto – ma non era mai stato in Himalaya, e anzi non era mai salito oltre i 6000m. Però si è lasciato convincere (o ha insistito lui, non so e non voglio sapere) a tentare di colpo un 8000 senza alcuna assistenza e senza ossigeno, e il Nanga Parbat, e per una via nuova, e sullo Sperone Mummery, e d’inverno. Non voglio giudicare i morti, ma…”
    vede bonsignore, “coglione immorale” è espressione che ho usato io e che non ho attribuito a lei, e che sintetizza i giudizi semplicistici che lei e crovella avete espresso su vicende probabilmente apprese solo dalla stampa.
    di Crovella sappiamo vita morte e miracoli, a lei chiedo: scala? Ha mai vissuto un’esperienza alpinistica significativa sulla propria pelle? Mi pare lo abbia detto espressamente che non è il suo campo, allora le chiedo, chi non è mai salito su una moto come fa  pretendere di comprendere o peggio, di giudicare, le motivazioni di chi ama la velocità?
    io di fronte alle svelte di tom ballard mi fermo e le rispetto come quelle di chi aveva un fuoco sacro.
    Non ci si infila in certe faccende perche ci si fa convincere da qualcuno, come lei adombra, o per soddisfare lo sponsor.
    chiunque affronti la natura nelle sue forme piu estreme ha una scintilla, e ognuno ha la propria.
    C’e un libromolto bello di eric tabarly (memorie del largo) in cui il rapporto fra scintilla personale e necessita di denaro è assai ben descritto. E tabarly attraversava oceani da solo non andava per monti ed è morto, come molto grandi alpinisti, in un modo banale in un luogo banale.
    quanto a quei messaggi sarebbe assai bello che rimanessero patrimonio personale di chi li ha scritti. Sono scelte intime di vita cosi profonde e drammatiche che non vedo come io lei o il crovella di turno possano pretendere di metterci bocca per darne una lettura razionale.
    gianni comino mori facendo una cosa follle, eppure era un fortissimo alpinista che aveva salito vie micidiali, grassi che con lui aveva salito molte di quelle vie è morto scendendo da un montarozzo sui sibillini. È allora? Dov’e il confine?
    Basterebbe prendere atto che la vita e l’animo umano sono imperscrutabili, le riflessioni dell’articolo per quanto datate, sono assai intetessanti, le posizioni giudicanti di taluni commenti appaiono invece fuori luogo a chiunque abbia salito mezzo tiro non spittato e abbia dovuto fare i conti con se stesso per vedere se ci arrivava in cima. 
     
    lei per giudicare le scelte altrui e stabilire che Ballard era un temerario impreparato (cosi è meno triviale?) quali strumenti ha?

  50. con il passare degli anni aumenta la consapevolezza perché si fa esperienza e poi gli anni passano e il fisico non ti permette più di fare quello di prima. ma questo non vuol dire reprimersi, quindi se la passione c’è ancora e il fisico assiste, si farà un’attività più consona. Diversi anni fa andammo a fare la Ratti-Vitali alla ovest della Noire , scendendo dal vole dell’Innominata e traversando il Freney. Passammo sotto dei Seracchi, non si poteva fare altrimenti. Mentre si saliva la via uno di questo crollò, se fossimo stati saremmo morti. Quindi??? Siamo stati immorali,  o ci siamo fatti carico coscienti di un rischio?

  51. @44 Giova. Io non mi riferisco agli OHHHHH dei giovanissimi di oggi (intendo di fronte alle notizie di salite da lasciar senza fiato),ma a quanto vadano fuori di zucca i 60enni di oggi davanti alle medesime notizie. L’asimmetria è in questo divario: molti 60enni di oggi si “eccitano” (davanti alle imprese alpinistiche) come accadeva agli adolescenti anni Settanta davanti alle copertine con le donne nude. Sembra che siano rimasti allo stessa stadio: cambia solo che allora li eccitava Edwige Fenech, oggi l’impresa di Della Bordella, ma il loro status emotivo è uguale. Da 15 a 60 anni: evoluzione zero.
     
    Questi particolari e attuali 60enni continuano a “pretendere” che su un blog di montagna di oggi si leggano solo gli OHHHHHH per le imprese imprese estreme. Invece, a ogni voce fuori dal coro, questi stessi 60enni di oggi perdono il lume della ragione (verificare in alcuni interventi della mattinata), come se le voci dal coro fossero “lesa maestà”. E’ come se questi particolari 60enni di oggi fossero scandalizzati per le tesi che “non” sono in stile OHHHHHHHH. E da lì giù si parte con raffiche di insinuazioni, da istruttorotto in poi. A me queste “accuse” non mi fanno né caldo né freddo, figurati ero abituato già a 15 anni che mi tiravano le pietre negli scontri di piazza (anni caldi, quelli), per cui ho una pellaccia da rinoceronte e non patisco nulla.
    Segnalo però che il messaggio ideologico che, ai giovani e giovanissimi, dovremmo dare noi alpinisti “maturi” (sia per età anagrafica, che per esperienza e ruolo didattico, se siamo istruttori CAI) NON deve esser quello di eccitarsi come adolescenti testosteronici, ma di imparare ad approcciare la montagna con la testa sul collo. Questo in generale, a prescindere da figli o meno. Poi lì si innesta una mia particolare riflessione sulla sconsideratezza di chi si muove in montagna sensacugnissiun e ha anche i figli.

  52. Preciso che l’episodio di Gervasutti è avvenuto proprio come riportato anche con riferimento alla “motivazione” esplicitamente dichiarata da Gervasutti. 
    Non esiste una montagna oggettivamente esente da pericoli e una sempre pericolosa. In realtà forse esistono alcuni (rari) esempi di vette che stanno agli estremi di queste statistica, ma il più delle volte le montagna si posizionano in mezzo. Esempio: la normale del Tacul era addirittura percorribile in sci fino verso il 20-25 giugno (post precipitazioni primaverili), poi il gran caldo l’ha fatta cuocere, tutto è cambiato e ai primi di agosto è caduto un seracco con un morto e dei feriti. L’alpinista maturo e consapevole, analizzando i bollettini, arriva a sapere quando è il momento di percorrerla e quando invece non lo è più. questo intendo. Chi fa gite in sci in giornate di pericolo 4 o 5 o, come già raccontato, scala cascate con un annunciato rialzo termico di 15 gradi, ha un approccio “sconsiderato” alla montagna. Io li critico in ogni caso, ma finché non hanno responsabilità verso altri individui (in particolare parlo dei figli), non devo preoccuparsi delle mie considerazioni. Se uno ha dei figli e anziché fare le cose per benino, va “alla cazzo”, io non solo lo critico, ma lo giudico immorale, per i motivi già spiegati.
    Fin qui gli alpinisti amatoriali della domenica. Per i professionisti, due categorie: le guide alla fin fine “devono” accettare un maggior rischio professionale, sennò non lavorerebbero quasi più: personalmente le GA sono i soggetti che trovo meno coinvolti in questi discorsi. O si turano il naso, figli o non figli, o non fanno mangiare nessuno. I professionisti sponsorizzati sono stritolati da un meccanismo spietato, già descritto. Qui la scelta “alla Gervasutti” dovrebbe essere più sentita, non come un obbligo di legge, ma come un “dovere morale individuale”. Se vuoi fare l’alpinista estremo, sponsorizzato, dovresti evitare di fare famiglia. Se vuoi avere famiglia, dovresti evitare di fare l’alpinista estremo.

  53. E sempre a proposito di motivazioni e dell’ascoltare o meno certe voci interne: conoscete il “Settimo Senso” di Diemberger? E se sì, cosa ne pensate – una superfetazione intellettualodie per vendere un altro libro, o qualcosa su cui vale la pena riflettere?

  54. #34:
    Io non ho usato, e non uso, un linguaggio da trivio. Sarei quindi grato se chi invece lo maneggia normalmente evitasse di attribuirmelo, grazie.
    Detto questo, io ho tirato in ballo la triste vicenda di Tom Ballard in parte perché si era parlato della madre, ma sopratutto perché il caso mi sembra molto importante e significativo per tutto l’argomento di questa discussione. 
    Esisteva infatti (e non sono certo io a dirlo, ma gente come Messner e Moro) un profondo divario tra le pur grandissime capacità tecniche e sopratutto il bagaglio di esperienze di Tom, e le enormi difficoltà e rischi della tentata salita sul Nanga Parbat. E quindi, cosa è successo? Tom non è stato in grado di percepire questo divario, e ha sopravvalutato sè stesso e sottovalutato la montagna? O invece ha deciso che, in quel particolare momento della sua vita e della sua carriera alpinistica, poteva e doveva correre certi rischi? E in questo caso, quali sono state le sue motivazioni, quali fattori interni ed esterni lo hanno indotto a giocarsi tutto in un giro di “roulette russa”(Moro?). Queste sono appunto le domande poste dall’articolo e dai commenti.
    Circa le responsabilità verso gli altri, e in riferimento all’episodio della vits fi Gervasutti citato da Crovella, cito a mia volta da un articolo su Tom Ballard apparso su “Climbing”:
    Two days before Ballard and Nardi died, Pederiva [la compagna di Tom] messaged with Ballard for the last time, asking him to come home. In the weeks leading up to the expedition, she had told him she had a bad feeling and didn’t want him to go—something she had never asked him before. On February 22, Pederiva sent him a message: “Not happy you’re climbing. It’s dangerous,” to which Ballard replied, “If you don’t like [it] leave me.” It was their final communication.

  55. Premetto,a scanso di equivoci, che Guido Rossa è stato per me, come per tanti all’epoca, un punto di riferimento morale e politico, però voglio essere brutale fino in fondo. Guido Rossa decide di testimoniare sapendo benissimo che rischia la vita e mette a repentaglio non solo se stesso ma anche il futuro dei suoi cari. John Harlin decide di perseguire la sua “ossessione” sull’Eiger e sa cosa rischia e potrebbe lasciare dietro di se’, come è davvero accaduto. Non sono dei maniaci deliranti, sono uomini “normali”, padri di famiglia, un operaio metalmeccanico alpinista e un ex pilota di aerei, conoscono il rischio. ll meccanismo che sta alla base della loro decisione è lo stesso, anche se a molti la “causa” di Rossa può apparire più nobile e forse più degna di rispetto che non la “conquista dell’inutile”, ma questa è una considerazione che viene dopo e riguarda la dimensione sociale e non quella strettamente umana. Entrambi non potevano non farlo. Se lo non lo avessero fatto la loro autostima ne sarebbe stata fortementente compromessa. Tra la paura di morire, con tutte le conseguenze non solo per se stessi ma anche per i loro cari, hanno scelto per ciò che li faceva sentire bene e nel giusto. Il “desiderio” è stato prevalente rispetto alla paura. E quando hanno scelto, nel momento cruciale in cui uno ha messo il vestito bello per andare in tribunale e l’altro ha messo le sue cose nello zaino, erano soli, anche se sullo sfondo c’erano il sindacato da un lato e la comunità degli alpinisti dall’altro. Certe decisioni sono un peso che porti tu e nessun prete, moralista, clinico, filosofo, politico…si può sostituire a te e portarne le conseguenze. Al massimo ti tuo’ aiutare ad alleviare la sofferenza della decisione, come un OKI quando ti fa male un muscolo. Per fortuna la maggior parte delle persone si trova a dover gestire, per decisione sua o destino, scelte meno “estreme” dei due “personaggi” che ho citato, ma il tema della responsabilità individuale vale sempre, anche nel piccolo e chi sceglie con consapevolezza merita il nostro rispetto, sempre, anche se non condividiamo la sua scelta. 

  56. Ma è logico che le priorità cambino durante il corso della vita.
    Questo non significa il dovere reprimere scelte proprie che rendono la vita piena di come la si vuol vivere.
    Per ora, penso che se mi privassi di un certo alpinismo d’avventura starei male e farei stare male chi ho intorno. Questo non significa prendersi rischi stupidamente. Sotto i seracchi pericolanti cercavo di non andarci neppure a 20 anni.
    Quando Crovella parla di attività in montagna sotto controllo mi fa venire la pelle d’oca. È proprio quando si crede di avere il controllo in natura che si è più vulnerabili. Ma vaglielo a spiegare.
    La settimana prossima vorrei andare con mia figlia ventiduenne a scalare all’Envers des Aiguilles. Me l’ha chiesto lei e ne sono felice. Sono un padre irresponsabile? E la mando avanti su tiri da proteggere che so che può fare. Così impara a vivere e soprattutto a capire quando deve tornare indietro. Non è educazione siberiana ma semplicemente scuola di vita e magari pure divertimento. Senza esagerare ne in una né nell’altra cosa.
    L’ho già scritto prima, l’alpinismo e i suoi rischi ed emozioni sono qualcosa che ognuno vive a modo suo. Non si possono codificare come fa sempre Crovella.
    Gervasutti avrà detto a quella donna che non l’avrebbe sposata perché non gli sarà andata bene per cose sue. Di certo non per il motivo dei rischi e della possibilità di morire. Quelle sono storielle da educande. E ogni tanto avranno fatto una trombata “non codificata”, come succede.

  57. Carlo secondo me esageri un po’…
    Come dici gli adolescenti sbirciavano le riviste ose’negli anni ‘70 e probabilmente tra quelli c’eravamo pure io e te
    Come ho già detto ma lo ripeto nella vita le priorità cambiano e noi dobbiamo adattarci ma vogliamo lasciare sognare i giovani arrampicatori, con aggettivi come figo e strafigo, per le ultime imprese dei professionisti del l’Alpinismo così come sognavano chissà quali avventure quei ragazzi davanti alle edicole?
     

  58. Quello che dice Pasini e che condivido l’ho vissuto nel corso della mia attività ormai quasi cinquantennale.
    Nella vita cambiano le priorità e di conseguenza si possono o devono fare delle scelte pur mantenendo inalterata una passione, per me quella per l’arrampicata, che ha solo cambiato tipologia. All’inizio degli anni ‘80, periodo degli articoli, non esisteva lo sport climbing che, oltre ad essere una splendida attività, e’ una grande risorsa per chi “tiene famiglia”.

  59. A scanso di equivoci, perché mi pare che molti si riempiano la bocca con l’eccezionalità del personaggio Gervasutti, ma ben pochi ne conoscano la vita fin nei risvolti più personali, preciso che Giusto non si è limitato a evitare di sposare le giovane donna, pur continuando a frequentarla in un rapporto “non codificato”, cioè senza responsabilità a suo carico. No, no: l’ha proprio lasciata libera di trovare la sua strada nella vita. Difatti la signora si è poi sposata, ha formato una sua famiglia con dei figli. In questo Gervasutti è stato corretto e rigoroso: Giusto, ha preferito la montagna rischiosa e, coerentemente,  ha evitato di condizionare la vita di altri individui. Io preferisco scelte così (o, seppur in direzione diametralmente opposta, ma dal contenuto uguale), piuttosto che mescolare tutto, volendo insieme sia “tutto” che il “contrario di tutto”, come piace tanto ai cultori (normalmente di derivazione sessantottina) dei diritti indiscriminati e senza limiti. I limiti dalle nostre scelte non li deve mettere né una fantomatica commissione (da me mai immaginata, per cui vivete proprio nel mondo delle nuvole…), né la società, né i nostri genitori, ma li dobbiamo saper metter noi stessi in prima persona, grazie alla nostra maturità e al nostro senso di responsabilità: questi limiti variano da individuo a individuo e, per lo stesso individuo, variano nel corso della vita. ma non si può mescolare “tutto” e il “contrario di tutto”.
     
    Inoltre fra il pubblico, chi si “eccita” a leggere le notizie in stile “Grande nuova via estrema qui e là ecc ecc, FIGO QUESTO, STRAFIGO QUELL’ALTRO, ecc ecc” mi ricorda gli adolescenti anni Settanta che andavano a sbirciare nelle edicole le  pubblicazioni osé, con le donne nude in copertina. Chi si inalbera con me , con reazioni isteriche degne di un bambino dell’asilo, è perché gli tolgo il piacere di leggere qui ESCLUSIVAMENTE le notizie eccitanti, come se, nei Settanta, l’edicolante avesse coperto le copertine delle riviste osé, lasciando gli adolescenti a bocca asciutta…

  60. Non sto ovviamente inneggiando all’ irresponsabilità e condivido il pensiero di Massari, io stesso quando è nato mio figlio ho smesso di fare alcune cose, pur consapevole che rimane comunque una attività a rischio anche dove meno te lo aspetti, ma ciascuno di noi sa che se va a scalare da solo o a fare i seracchi della brenva le probabilità di rientrare la sera diminuiscono bruscamente.
    cio che intendevo stigmatizzare è lo sciocco dogmatismo morale crovelliano, perche il limite è connaturato a ciascuno di noi e, soprattutto, sarebbe norma di banale umanità smettere di giudicare sempre chi fa scelte diverse.
    la moralità, il pudore, l’osceno sono concetti assai aleatori e chi pretende di imporli o definirli si pone in territori pericolosi 

  61. Tra la negazione maniacale e onnipotente della nostra fragilità e l’immobilismo depressivo della paura ci sono molte posizioni intermedie. Quello che cercavo di dire è che alla fin fine, se siamo sinceri con noi stessi e sgombriamo il campo da tutte le sovrastrutture ideologiche, morali, politiche, religiose…oserei dire dalle “scuse” che ci inventiamo o troviamo già pronte sul mercato,  alla fine siamo noi, sempre solo noi, come canta il bardo di Zocca, di fronte all’eterno dilemma tra la paura di morire e il desiderio di vivere felici e in pace con noi stessi e questo ci fa scegliere se fare questo o quello. Se andare o cambiare obiettivo o rinunciare. E il dilemma vale per tutti e si ripete ogni volta, per i  “guerrieri” professionisti o i semplici “soldati” di leva e per tanti aspetti della vita, non solo l’alpinismo, come ci ricordano le sofferte riflessioni di Rossa e di tanti altri, “eroi” dell’estremo o del quotidiano. 

  62. Pur non essendo un professionista pratico l’arrampicata per moltissime mezze giornate l’anno e il resto del tempo lo dedico alla famiglia 
    Quello che ho scritto nel precedente commento riguardava il mio periodo giovanile in cui non volevo legami fissi per poter essere libero di fare come volevo
    Da quando ho figli e moglie la mia attività è cambiata radicalmente: ho progressivamente smesso con free solo ed alpinismo per dedicarmi solo al bouldering ed allo sport climbing
    Una scelta per me felice e non sofferta ma dovuta alla mia famiglia 
    Per me ha ragione Crovella, nella vita bisogna fare delle scelte e quando si assumono delle responsabilità non siamo più liberi di rischiare la vita
    Il mio comportamento può apparire stridente ma non lo è: nella vita si cambia e cambiano le priorità 

  63. Ci spiega gran visir caiano Crovella quali sono e come si individuano i parametri di una “normale attivita in montagna sotto controllo”?
    per dire la normale al bianco dal tacul è normale e sotto controllo sino a che ora? repentance super sino a che giorno di marzo è normale è sotto controllo?
    Scender dal crozzon di brenta è normale e sotto controllo con pioggia debole?
    Il pilone centrale è sotto controllo e normale con quante cordate davanti (ammesso che uno non si sia accoppato per un guizzo di frenesia arrivando all’attacco)?
    vede che una bella commissione che individui i parametri almeno per i caiani rigidi e militari che piacciono a lei è necessaria per evitare molti strazi familiari.
    e non crede che per un della bordella sia normale attività sotto controllo in montagna salire voiage al capucin assai piu che per lei la normale ai denti di cumiana? 
    Allora si potrebbe assai più semplicemente smettere di scrivere scemenze pretendendo di parametrare il sesso degli angeli e spandendo a destra e a manca giudizi senza fondamento 

  64. perché altrimenti sono solo le chiacchiere ottuse e moraliste di un mediocre alpinistotto istruttorotto saccente.
     
    Ovviamengte non concordo sulla fondatezza di tale sparate. Ma se anche fosse? non mi pare che, in generale, le chiacchiere ottuse del saccente mediocre alpinistotto siano vietate…  tra l’altro proprio perché mediocre (io), le mie considerazioni non vi dovrebbero neppure toccare, a voi che vivete nell’Olimpo dei grandi illuminati dalla passione travolgente per l’alpinismo… Che vi frega delle stupide considerazioni di un mediocre come me? Invece insorgete come oche isteriche. Evidentemente io tocco dei nervi scoperti. O anche solo il vs. fastidio di leggere opinioni controcorrente in uno spazio web dove vi aspettate di trovare solo affermazioni del tipo “SI, BRAVO, TUTTI SUL 10.MO GRADO, TUTTI IN MONTAGNA 365 GIORNI all’anno, TUTTI IN HIMALAYA A FARE PRIME ASCENSIONI ESTREME!” ecc ecc ecc. vi aspettereste questo e io vi spiazzo e così reagite irritati ma la realtà è molto diversa da quella che sognate voi. La gente “matura e consapevole” prende scelte differenti. (CMQ NESSUNO HA MAI PALESATO L’IDEA DI UNA COMMISSIONE VALUTATIVA in merito-vi affibbiate intenzioni che non ho: ciascuno faccia come vuole e se preferisce esporsi a rischi elevati e insensati – cioè oltre ai livelli “normali” di una attività in montagna “sotto controllo”- faccia pure. Deve rispondere ai suoi figli, non a me. Ciò non toglie che sia mia diritto poterlo criticare).
    Della Bordella: va tutto bene, finché tutto fila liscio. So che ha un figlio di 3-4 anni… mah… se vuoi vivere in quel modo, io trovo più “corretto” evitare di formare famiglia (vedi sotto).
     
    ESEMPIO DI SCELTA “CORRETTA” e “SERIA”: a una giovane donna innamoratissima di lui, Gervasutti disse che non l’avrebbe sposata perché egli intendeva continuare a praticare anche l’alpinismo di vertice e quindi sapeva che, prima o poi, sarebbe morto in montagna. Ha fatto una scelta precisa (la montagna impegnativa) e ha saputo rinunciare all’altra (famiglia). Questo è un modo di vivere ammirevole (altrettanto per chi compie la scelta in direzione opposta).
     

  65. È vero: al fine di una concentrazione totale, cioè per migliorare le possibilità di sopravvivenza, durante un’ascensione NON devi pensare a nient’altro, neppure a tua moglie o a tuo figlio che sgambetta nella culla.
     
    Però, prima, ci devi pensare.

  66. Quello di limitare la propria passione in funzione dei rischi che si prendono in alpinismo, in funzione degli altri (genitori, figli, ecc) mi sembra una cazzata enorme e comunque una teoria impraticabile.
    A parte che anche passeggiando su un sentiero possono esserci rischi elevatissimi se non c’è sufficiente consapevolezza in chi lo pratica, mi voglio riferire all’alpinismo. 
    Se uno scala con in testa le eventuali preoccupazioni o tragiche conseguenze che può arrecare ai suoi cari in caso di incidente, lo farà malissimo e senza la necessaria concentrazione. 
    L’alpinismo è un’attività totalizzante. Non c’è spazio per nient’altro. Mi spiego: tutti abbiamo i nostri problemi, grandi o piccoli che siano, ma quando stacchiamo il secondo piede da terra dobbiamo essere in grado di staccare la spina per concentrarci ESCLUSIVAMENTE su quello che stiamo facendo. Non c’è altro che tenga.
    Personalmente, praticando l’alpinismo nelle sue varie forme, roccia, ghiaccio, scialpinismo e arrampicata, per oltre 300 giorni l’anno, sia per professione che per diletto, penso di essere riuscito in questa “separazione mentale” verso i 40 anni d’età. 
    Se mi trovo in una brutta situazione non devo pensare al sorriso dei miei figli, ma semmai devo scacciare l’eventuale pensiero per concentrarmi al 100% sul da farsi. Solo così, e con un po’ di fortuna, potrò tornare a riabbracciarli.
     

  67. Bonsignore, immagino che anche cassin quando nel 38 è arrivato a courmayeur con una foto delle jorasses chiedendo dove era la nord dovesse essere classificato come un coglione immorale…
    ma questa mania di giudicare dal divano di casa alpinisti di grande livello (tale era ballard) è inclusa nel bollino del cai?

  68. Vedi Crovella che ci vuole una delle tue commissioni che in maniera caiana cataloghi, divida, classifichi e stabilisca con il righello cosa e morale e cosa no. 
    immagino che in base alla tua logica Della Bordella che ha appena fatto un numero mica da ridere sotto riportato da benassi, se ne sarebbe stato volentieri in grigna a farsi una via di quarto, ma sobillato dallo sponsor abbia preso il kajak, abbia vogato sino a baffin e salito 1200 metri di 7b giusto per il soldo e far vendere due giacche in piu. 
    e poi questo voler sempre etichettare tutto e tutti è semplicemente osceno. Certamente la heargraves o nardi hanno lasciato orfani (il di lei figlio è peraltro morto insieme a nardi), ma li hai conosciuti, ci hai parlato, sai cosa li animava? 
    perché altrimenti sono solo le chiacchiere ottuse e moraliste di un mediocre alpinistotto istruttorotto saccente.
    Io credo che chi si infila in certe cose, discutibili o meno che siano, abbia una scintilla. E che non sia il denaro.
    ma soprattutto sia semplicemente stupido parlare di morale in una attività dove si muore per un nodo malfatto anche nella falesia dietro casa
     

  69. Le riflessioni di Pasini come al solito sono molto interessanti, siamo veramente liberi di poter decidere, oppure non possiamo che essere così? Non potevamo che essere lì?Me lo sono chiesto spesso. E spesso mi sono dato dei limiti e ho rinunciato tornando indietro. L’alpinismo di oggi fa scelte troppo estreme? E lo fa soprattutto per gli sponsor? Che venga fatto solo per i soldi degli sponsor non ci credo, quando metti in gioco la vita, non bastano i soldi. Che si vada verso scelte sempre più estreme e pericolose spostando sempre più su l’asticella credo sia una scelta naturale. Le vie più logiche, evidenti, facili, sicure sono state fatte, quindi non restano che scelte sempre più difficili e pericolose. Nessuno certo ti obbliga, ognuno fa le proprie scelte.

  70. Lasciamo da parte per un momento l’approccio morale e giudicante. Alla fine siamo soli nelle nostre decisioni. Quanto ci interessa vivere ? Quanto contano le sensazioni che ci possono dare esperienze che hanno una forte dose di rischio? Quanto contano per noi gli obblighi sociali che contraiamo con gli altri? Sono decisioni che possono variare nel corso della vita, perché le esperienze fisiche ed emotive della gioia o del dolore, nostre o di altri, a volte cambiano le dinamiche del nostro mondo interno. Decidiamo davvero liberamente? Bella domanda. Esiste davvero il famoso libero arbitrio o siamo dominati da forze che controlliamo solo in parte? Ci sono tanti modelli che cercano di dare una risposta alla questione, compresi nello spettro natura/cultura. Allo stato attuale delle nostre conoscenze nessuno può dire di avere una spiegazione definitiva. Brandelli di conoscenza. Se uno ne sente il bisogno può cercare di capire qualcosa di più di se’ e delle sue decisioni con un percorso di  analisi e ricerca personale, sempre complicato e a volte anche doloroso e dagli esiti incerti, ma si può anche vivere così, col sole in fronte, liberamente e lasciare agli altri la decisione di incrociare la loro vita con la nostra, anche se nel caso dei figli non è da parte loro una scelta libera di legarsi o meno alla nostra corda, almeno nella fase iniziale della loro vita. Non scegliamo i nostri genitori e la loro eredità. L’unico principio di “minina moralia” che forse sarebbe opportuno adottare per garantire una convivenza “decente” è quello di non fare troppo del male agli altri con le nostre decisioni. Cercare di fermarsi un attimo prima, magari chiedendoci: ma è davvero così importante per me? Ne vale davvero la pena? Ne ho davvero bisogno per essere felice? Una piccola domanda di verifica, ogni tanto, senza angustiarsi troppo pensando di avere il mondo sulle spalle, a volte può risparmiare inutili sofferenze che si aggiungono al carico che già comunque ci è garantito per destino nella nostra configurazione di mammiferi a durata individuale limitata. Il discorso è un po’ diverso per i professionisti del rischio vita, ma le domande e problemstiche cruciali anche lì non sono poi alla fine diverse. Tema affrontato recentemente da molti film sulla sindrome del ritorno del “guerriero” alla vita normale e sulla dipendenza dalle scariche di adrenalina del “combattimento”. 

  71. #28:
    Incidentalmente, ma non tanto e anzi molto a proposito: purtroppo Alison Hargreaves ha lasciato ai figli un’eredità pesantissima. Dario Nardi è morto al Nanga Parbat assieme a Tom Ballard, che era appunto il figlio di Alison. Tom aveva un curriculum alpinistico di tutto rispetto – ma non era mai stato in Himalaya, e anzi non era mai salito oltre i 6000m. Però si è lasciato convincere (o ha insistito lui, non so e non voglio sapere) a tentare di colpo un 8000 senza alcuna assistenza e senza ossigeno, e il Nanga Parbat, e per una via nuova, e sullo Sperone Mummery, e d’inverno. Non voglio giudicare i morti, ma…

  72. Sul punto 2), cioè semplici uscite domenicali di alpinisti/escursionisti/scialpinisti amatoriali, pur calando sensibilmente di impegno tecnico e di rischio, vale però lo stesso concetto. quante volte leggiamo di gen te che ci ha lasciato la ghirba perché ha compiuto delle “cose” incomprensibili, se uno ragiona lucidamente. queste cose incomprensibili hanno una spiegazione solo nella incapacità di contenersi per la cosiddetta passione travolgente. Ho già citato esempi di travolti da valanga che erano in gita in giornate con rischio 4 o addirittura 5 del bollettino AINEVA. Cito un esempio scialpinistico, ma c’è solo l’imbarazzo della scelta: anni fa in 5 sono morti perché hanno attaccato una cascata in un giorno di marcato rialzo termico (+15 gradi, se non riscordo male), annunciato da tutti i bollettini. Io non ho né compassione nè stima di persone che agisco in modo così stupido. ma finchè sono “soili2, cioè non hanno altre persone che (economicamente ed emotivamente) soffriranno per la loro assenza, facciano pure. quando però ci sono queste altre persone, ritengo che agire illogicamente, tanto ai massimi livelli quanto nella attività amatoriale della domenica, sia immorale, perché è una violazione della morale laica della responsabilità individuale. ovviamente vale per qualsiasi attività sportiva, non è peculiare dell’andar in montagna. Che poi, nella vita generale, esistano altri esempi di immoralità, dai preti pedofili a chi abbandona i braccianti feriti ecc ecc ecc, non significa che non esista il problema sopra descritto.

  73. Tutto è relativo e io considero delle “cazzate” molte tesi esposte. dividiamo in due grandi sottoinsiemi: 1-l’alpinismo estremo, specie extraeuropeo, che oggi NON può che essere fatto grazie alle sponsorizzazioni, e 2-la attività domenicale degli amatori.
    Sul punto 1, è ovvio che le aziende spingano verso exploit sempre più spettacolari, non conta tanto la via in sè, che alla gente normale non dice niente, ma il contesto che deve essere poeno doi pathos per avere un im patto promozionale sulla gente normale. ecco la ricerca di progetti sempre più strampalati, che aumentano a dismisura i rischi connessi. Se uno vuole vivere così, liberissimo di farlo, ma deve esser coerente ed evitare scelte di vita che coinvolgano altri, in particolare figli (che inizialmente sono “piccoli” e hannop bisogno di esser trati su, non solo dal punto di vista economico). Andate a chiedere ai figli di Alison Hragreaves se sono felici e orgogliosi della passione della madre… a parte che non c’è più, ma anche quando era in vita per loro “c’era” pochissimo. Vi ricordate dii Dario Nardi, morto tentando lo sperone Mummery al Nanga Parbat in inverno (esplicito esempio di come la sponsorizzazione “spinga” verso la spettacolarizzazione, esasperando i “rischi”). Se non erro era partito con un figlio nata da poco, credo 2-3 mesi. Bene andate a chiedere alla moglie se è felice della “passione travolgente” di suo marito, ora che lei deve tirare su da sola un figlio… E soprattutto andate a chiedere al figlio, non adesso, ma quando avrà 15-18-20 anni, se è orgoglioso della “passione travolgente” di suo padre, in funzione della quale il figlio NON è cresciuto SENZA un padre… E non parlo solo dell’aspetto economico, c’è anche quello, ma parlo proprio della serenità emotiva di moglie e figlio. chi parte perché non resiste alla passione travolgente, deve adeguare la sua vita a tale scelta di fondo e vivere senza altre persone che, economicamente o emotivamente, soffriranno per la sua “assenza”. Chi vuole alzare l’asticella dell’alpinismo, ha tutto il diritto di farlo, ma deve organizzare la sua vita in modo da non avere altre responsabilità che cozzano con questo obiettivo strategico.

  74. Mi sembra si debbano fare dei distinguo perché non tutte le arrampicate sono uguali. Arrampicando con la corda in situazioni estreme pur con protezioni rarefatte non ci fa necessariamente andare incontro alla morte anche se si tratta certamente di una possibilità.
    Questa è una pratica credo più legata all’ambizione di riuscire su qualcosa di difficile. Arrampicando senza corda, come spesso viene citato negli articoli, ci pone invece in un’altra situazione; anche il minimo errore porterà quasi sicuramente alla morte. Credo che fare free solo invece con l’ambizione centri ben poco ma che si tratti di una pratica molto più sfaccettata e di interpretazione strettamente personale. Certo è che si arrampica in modo completamente diverso e all’unisono con la natura sentendosi parte di un tutto e forse anche un po’ super uomini con quella strana sensazione di avere la vita nelle proprie mani. Moralmente giusto? Non credo proprio ma sicuramente una sfida altamente estetica e fonte di grande autostima quando si rientra nella vita o nell’arrampicata “normale”.Da consigliare? Mai.
    Si tratta di una spinta che deve venire da dentro ciascun arrampicatore in quanto il free solo non è più alpinismo sportivo rischioso o sport climbing alla ricerca di un record ma una disciplina che scava nei meandri più oscuri dell’animo umano a volte risolvendo problemi e a volte facendoci sforare la morte.E’ comunque una pratica che bisogna saper gestire e darsi uno stop temporale perché come diceva Reinhard Karl non siamo uccelli e non abbiamo le ali…

  75. Non che il mio modo di pensare abbia un significato o un peso particolari, ma quello che volevo dire e’ che la analisi e le considerazioni espresse nell’articolo ignorano completamente (immagino perche’ all’epoca il fenomeno non era cosi’ evidente) un punto; e cioe’ che oggi, per una certa categoria di alpinisti, tra i vari fattori che possono portare ad accettare dei rischi ecceasivi c’e’ ANCHE, “se non faccio questa cosa rischio di perdere la sponsorizzazione di X, e allora come lo pago il mutuo della casa”?
    Questo riguarda certi solo una piccola frazione del mondo alpinistico, ma credo aiuti a spiegare perche’ succedano certe cose.

  76. E allora istituiamo una bella commissione caiana “frenetici&maturi” che distribuisca patenti di frenesia e maturità e un’altra “pericoli oggettivi &soggettivi” che ai patentati maturi censuri le vie comunque pericolose. coordinatore della super commissione maturi&caiani il gran visir del caianesimo crovella.
    che poi sara più frenetico un cominetti ai pilastri di brouillard o un beduino caiano sulla normale della tour ronde?
    tutto dipende dal rapporto capacitàtecnica e di valutazione/difficolta, perche hanno sicuramente rischiato meno messner e habeler all’everest che certi caiani post prandiali a chinar giu dal monzino…
    per stabilire cosa è immorale bisogna prima definire i canoni della moralità. 
    Crovella, anche senza scomodare seneca, ogni tanto ti rendi conto delle cazzate che scrivi?

  77. 22 Enri, questo è quello che avevo scritto un po dibtempo fa su Gianni Calcagno, e questo è il senso perchè per  me è stato un esempio:
    “Spesso nella vita abbiamo degli esempi da seguire, che ci indicano un cammino, che ci fanno aprire gli occhi, che fanno da innesco a un qualcosa che senti dentro ma non risci a farlo uscire . Ecco per me (ma non solo per me),  amante dell’alpinismo invernale apuano, tutto questo è stato Gianni Calcagno. Non abbiamo mai scalato insieme, ma le nostre strade si sono comunque incrociate, il suo esempio mi/ci ha fatto capire che bastava guardare con occhi diversi pareti e cime che a prima vista, o con superficialità,  sembravano insignificanti o da evitare perchè erbose e di roccia rotta. Cime e parete che invece avevano tanto da dare, che nascondevano dei gioielli.
    Sua è stata la prima ripetizione di DOCCIA FREDDA, il cascatone che nel 1985 aprimmo sull’anonimo e negletto versante ovest del monte Fiocca.”
    Quanto a Casarotto non ho detto che è stato un esempio, ma  un alpinista immenso,  e non credo si possa dire il contrario. Non credo che lui abbia fatto quello che ha fatto solo per non perdere gli sponsor. Ma perché ci credeva. Poi magari non ha capito che quel limite che cercava continuamente di spostare, lo aveva già raggiunto.

  78. Crovella stavolta non ci ammorba col suo caianesimo e glie ne siamo grati. Mi permetto però di dissentire dalla sua tesi di fondo, che chi “tiene famiglia” non debba arrampicare, forse nemmeno praticare l’alpinismo in qualsiasi forma. La sua tesi è molto diffusa, ma è macchiata da un utilitarismo spinto. Milioni di persone nel mondo arrampicano, a diversi livelli di rischio, pur avendo una famiglia e degli obblighi che ne conseguono. Saremmo dunque tutti degli immmorali? A me non pare, a meno di voler ritenere immorali tutti quelli che vanno in moto, magari per divertimeno o magari per andare al lavoro, e sì che di gente in moto ne muore tanta. Non credo che essi siano, o che noi si sia, o si sia stati quando si facevano certe cose, degli immorali. Immorale sarà certo chi assume rischi che non è in grado di valutare, ma il rischio è il sale della vita, epsresso dal proverbio popolare “Chi non risica non rosica”. Il rischio è ovunque, nascosto nelle pieghe della nostra esistenza, nessuna “morale” lo può evitare, e anche la esasperata ricerca della sua riduzione può portare spesso a rischi maggiori. Se penso a una persona immorale penso ad esempio a chi evade le tasse o impiega stuoli di persone in nero. sono furti e chi scala non ruba nulla a nessuno. Sottrae certo molto tempo alla sua famiglia, questo è vero, ma se non scalasse non sarebbe contento, e sarebbe magari anche un padre o un marito, frustrato. La vita è complicata e il mondo è pieno di ingiustizie. Fra queste non vedo l’arrampicata di chi ha famiglia, pur se restano vere le terribili parole di Guido Rossa rocirdate da Bastrenta.

  79. Io non ho mai pensato alla morte facendo alpinismo, nel senso che ho sempre pensato a individuare i rischi ed a minimizzarli, spesso rinunciando quando sentivo che avrei rischiato troppo. Chi fa alpinismo mettendo in conto che può anche morire e’ un folle. Vado oltre Crovella e dico che chiunque ha la responsabilità dì rimanere vivo, non solo chi ha famiglia ecc.. ma tutti. Perché la responsabilità dì rimanere vivi e non rischiare da fessi l’abbiamo in primo luogo verso noi stessi. Anche nel caso siamo soli e senza alcun legame. Figuriamoci quindi se non dobbiamo essere responsabili quando abbiamo famiglia, legami vari ecc. 
    Io non so se Casarotto e Calcagno furono un esempio. Di certo penso che per fare alpinismo correndo certi rischi ci vuole una buona dose di egoismo, nel senso letterale del termine. A quel punto sta a ognuno di noi decidere se preferire una nuova super via chissà dove oppure rivedere i propri cari la mattina dopo. Ognuno faccia le sue scelte. 

  80. @ Ezio Bonsignore
    .
    A me importa pochissimo delle grandi imprese degli alpinisti professionisti o pseudo tali ; pur essendoci un’ ovvia ammirazione per questi personaggi , mi interessa di piu’ giocare a pallone io in un campetto che leggere le gesta dei campioni sulla gazzetta.
    .
    Io  avevo individuato il tema dell’ articolo in questo senso : per me sarebbe rischioso andare legato su vie che Honnold fa’ slegato e bendato senza problemi , cosi’ come io posso uccidermi per pedalare a 50 kmh in bici ed essere superato da Ganna a 70 kmh con le mani in tasca.
    .
    Sia le capacita’ che i rischi presi sono cose soggettive , ma il discorso che faceva il giornalista regge.

  81. #19:
    D’accordo, ma rimane che per un professionista la valutazione delle proprie capacità rispetto alle difficoltà della salita, e dei rischi oggettivi e soggettivi che essa comporta, è pesantemente condizionata dall’acuta percezione dell’impatto che certe scelte possono avere, e anzi certamente avranno, sui contratti di sponsorizzazione presenti o futuri.
    Non sto facendo questioni di etica, sto solo dicendo che le considerazioni espresse nei commenti ignorano completamente – e non potrebbe essere altrimenti, visto che sono vecchie di oltre 40 anni – non sono più applicabili alla componente professionista dominante nell’alpinismo estremo contemporaneo.

  82. Ezio Bonsignore, concordo con te che per un alpinista professionista sia fondamentale proporre sempre qualcosa di più agli sponsor. Ma è altresì vero che spostare il limite, alzare l’asticella,  è insito nello spirito dell’alpinismo, almeno per coloro che credono nello spirito avventuroso dell’alpinismo. Se non fosse così saremmo sempre a Balmat e Pacard. Inoltre per impegnarsi in certe ascensioni molto difficili, faticose e pericolose non lo si fa solo per soldi, ma ci vuole tanta, tanta  passione, bisogna crederci. 

  83. Non è in alcun modo il mio mondo, ed è quindi ben possibile che stia dicendo delle sciocchezze. Mi sembra però che per quanto riguarda l’accettazione del rischio e le sue implicazioni, la situazione attuale sia radicalmente diversa da quella dei primi anni ’80.
    L’alpinismo estremo, in tutte le sue forme, è oggi largamente dominato da alpinisti professionisti o aspiranti tali, cioè da persone (a parte le guide) che dipendono dalle sponsorizzazioni pubblicitarie non solo per coprire i costi delle loro attività in montagna, ma anche per tutti gli aspetti della loro vita normale. Nel corso degli anni, questo stato di cose ha generato un perverso meccanismo di fuga in avanti, per cui per garantirsi la continuità dei contratti di sponsorizzazione è sempre più necessario impegnarsi in salite, che possano essere presentate come “estremamente difficile”, “eccezionalmente pericolosa”, “mai tentata da nessuno” e così via, in modo da ottenere una adeguata copertura mediatica che soddisfi lo sponsor.
    Ne consegue che l’accettazione, e anzi la deliberata ricerca del rischio non può più essere spiegata con motivazioni interne di vario genere, ma è invece un aspetto essenziale di un certo tipo di lavoro -il che spiega perché il tasso di mortalità tra gli alpinisti estremi sia oggi non molto diverso da quello dei gladiatori.
    Questo rovescia anche completamente il problema della responsabilità verso altri, e in particolare quelli che dipendono dall’alpinista non solo sul piano emotivo ma anche su quello economico. A suo tempo, mi colpì profondamente un’intervista in cui Alison Hargreaves spiegava tranquillamente di praticare un alpinismo davvero estremo non perché la cosa le piacesse, ma piuttostoper assicurare ai figli una vita e un futuro migliori rispetto alla “lower working class” cui lei e il marito appartenevano.
    Naturalmente, le considerazioni e i commenti espressi nei vari interventi dell’articolo rimangono invece validi per chi pratica l’alpinismo, anche ad altissimi livelli, solo per “intimo gaudio”.

  84. Crovella, per me ti puoi irritare quanto ti pare, e giustamente sei libero di fare il magna tordelli da rifugio. Ma per me CASAROTTO resta immenso e Gianni Calcagno un esempio.

  85. Mi irrita (non tanto oggi e non solo su questo Blog, ma in generale) una certa tendenza, ahimé diffusissima nel mondo alpinistico, ad enfatizzare la “passione alpinistica” come una qualità talmente nobile che monda ogni scriteriatezza compiuta (in nome della passione travolgente) e che invece obbliga tutti a un’ammirazione sconfinata. La passione per essere positiva deve essere sana, cioè non portare agli eccessi. Una passione che eccede, prende il controllo dell’individuo e diventa un elemento negativo. Bisogna andare in montagna (ciascuno al suo livello di difficoltà) “cun cugnissiun”, è dialetto piemontese ma si capisce.

  86. Stesso discorso per moto , sci e arrampicata : il rischio c’e’ sempre , ma una cosa e’ il 2% , e una cosa e’ il 70%.

    E allora? l’ho già detto l’alpinsmo è pericoloso. Casca un sasso e ti centra , vissuto sulla mia testa. Poi è chiaro che se fai sempre il solitario le probabilità di farti male aumentano .

  87. ognuno fa le proprie scelte, sono certe sentenze di  “immoralita” che non condivido. 

  88. @ 6 Alberto Benassi
    Non entro sul discorso di Crovella sull’immoralita , ma penso che tutti sappiamo in qualche misura valutare i rischi di quello che facciamo.
    .
    Il povero Shumaker e’ praticamente morto sciando a lato pista e cadendo di testa su un sasso , pero’ in vita sua ha rischiato 100 volte di piu’ nelle gare di F1.
    .
    Stesso discorso per moto , sci e arrampicata : il rischio c’e’ sempre , ma una cosa e’ il 2% , e una cosa e’ il 70%.
    .
     

  89. Appunto! Una persona matura che si è volontariamente assunta altre responsabilità esistenziali (es verso i figli) evita di impelagarsi in situazioni troppo tirate. Se non sa “contenersi”, perché dominato dalla passione, tale passione non è più un elemento positivo (da ammirare), ma diventa negativo (da criticare). La conseguente incapacità di sapersi imporre dei sacrifici diventa un elemento che viola la morale laica del senso di responsabilità individuale.

  90. quando ti impegni in certe ascensioni ti assumi dei rischi. Se sei una persona prudente, ti prepari, li calcoli e cerchi di mettere in atto tutte le tue conoscenze per limitarli al massimo. Ma tutto non si può evitare fa parte del gioco. 

  91. Cmq non c’entra se c’è alta difficoltà tecnica oppure no. C’entra “come” approcci la montagna, anche sul facile, cioè se con maturità o con frenesia (che normalmente porta a sottovalutare/esser superficiali/ecc=ecco in cosa consiste quanto la passione domina l’individuo, che sia sul 10 grado o sul III, non cambia nulla). Quindi tenere sotto controllo la passione significa mantenere lucidità e sangue freddo che ti fa fare le cose per benino in ogni contesto, compresa l’uscitella sul facile, e al limite ti fa rinunciare quando non ci sono le condizioni. Molti incidenti da valanga ad appassionati illustri sconosciuti (quindi non top climber che rischiano perché vogliono fare l’impresa del secolo) capitano con pericolo 4 o addirittura 5 (messaggio AINEVA=stare a casa!): situazione in cui è evidente che  la passione ti ottenebra il cervello e non ragioni più. fintanto che sei “single” ti critico a tavolino, ma sono fatti tuoi. Se contemporaneamente ha messo su famiglia, non devi render conto a me, ma ai tuoi familiari sì. E da parte mia giudico quelle scelte “immorali”, ovvero che violano la morale laica del senso di responsabilità individuale. (che poi esistano anche altre manifestazioni di immoralità, addirittura più gravi, nulla incide su tale fenomeno).

  92. Già Seneca criticava chi si fa dominare dalle passioni. Lui si incentrava in particolare sull’Ira, che è una passione oggettivamente negativa. Ma anche una passione positiva, come andar in montagna (o fare le maratone o la cissa per bicicletta), di per sé positiva, se prende il sopravvento sulla lucidità perché domina l’individuo (anziché il contrario: deve essere l’individuo che coltiva le passioni positive, ma tenendole sotto controllo e non facendosi dominare), dicevo anche una passione originariamente positiva, se domina l’individuo, diventa un elemento negativo della vita. Fin qui ho sempre criticato 8vedi sotto) chi si fa prendere la mano dalla passione alpinistica. Ma facciamo un passo in più: se uno vive “da solo”, tale scelta (di avere una passione così intensa che alla fine lo domina anczichè esser lui che la tiene sotto controllo) è legittima, perché chi vive da solo non deve render conto a nessuno. Se però uno compie altre scelte di vita, in primis formare una famiglia e avere dei figli, la negatività della passione, quando essa gli prende la mano, rischia di esporre i congiunti a difficoltà di vita che cozzano con le responsabilità cui deve rispondere un coniuge-genitore. Questa cosa va contro la morale, intesa questa come l’insieme delle scelte e delle responsabilità mature e lucide. Non voglio girare il coltello nella piaga ma ipotizzate di chiedere cosa pensi sul punto a un figlio ventenne che magari non ha conosciuto il padre perché costui è stato “travolto” dalla sua passione alpinistica… Tornando la passo concettuale precedente, chi fosse interessato a un’analisi più approfondita, può trovare maggiori dettagli in un mio articolo, mi pare del 2020: Squali di mare e squali di montagna (leggere in fondo al testo): https://www.sherpa-gate.com/altrispazi/squali-di-mare-e-di-montagna/
     

  93. Se si mette in piedi una famiglia, è immorale fare un alpinismo rischioso

    immorali nella vita sono altre cose. Ad esempio un prete pedofilo. Immorale è l’imprenditore che invece di portare il proprio lavoratore al pronto soccorso lo abbandona con il braccio mozzato condannandolo a morte. L’alpinismo a certi livelli è senza dubbio molto pericoloso, ma per lascirci la pelle basta assai meno, una piccola cazzata in falesia e ci rimetti la vita, oppure una caduta su una via di terzo grado. Alla fine non cambia nulla , non è che così ti puoi sentire giustificato: mi sono ammazzato ma  ero sul facile, quindi sono scusato anche se ho lasciato i miei figli orfani. L’alpinismo lo fai o non lo fai. 
     

  94. Quando ancora si discuteva di simili argomenti e non di luna park…

  95. L’alpinismo (intendo l’andar in montagna) è una scelta individuale, ognuno si posiziona dove vuole e dove riesce, in funzione di una infinità di variabili (comprese anche quelle economiche…). Ma sicuramente di tutte queste variabili, il “talento individuale per la montagna” è la principale. Spesso però si sbaglia a voler fare un alpinismo che non è coerente con la altre scelte di vita. Questo tipo di errore strategico io lo chiamo “alpinismo immorale”. Infatti sono molto critico verso coloro che non sanno porre dei limiti alla propria attività in montagna (che sia in Himalaya o dietro casa non fa differenza) quando hanno delle responsabilità personali nel resto della loro vita. Queste ultime sono principalmente verso i congiunti (coniuge e figli), ma poi anche verso altri soggetti: per esempio il titolare di una piccola unità professionale, che però dà da vivere a (mettiamo) 10 dipendenti, deve sentire delle responsabilità morali anche verso questi 10 (e le loro famiglie). Ovvio che coniuge e figli esasperano le responsabilità che devono circoscrivere le scelte individuali. Prima che alpinisti (di vertice o medi, non fa nessuna differenza) siamo uomini/donne e dobbiamo saper prendere delle scelte mature, accettando dei sacrifici individuali. Se si mette in piedi una famiglia, è immorale fare un alpinismo rischioso. Se non riesco a fare a meno di quest’ultimo, devo capirlo a priori ed evitare di metter su famiglia.

  96. Dare definizioni ed inquadrare sensazioni ed emozioni molto personali, è  sempre molto azzardato. Se dovessi pensare alla morte ogni volta che vado ad arrampicare, cambierei gioco.

  97. Credo che per l’alpinista arrampicare significhi inconsciamente tentare di restituire alla vita semplicità e forza di emozioni, una specie di ritorno all’antica lotta dell’uomo contro la fame, il freddo, le forze della natura, un ritorno alla lotta — in fondo — contro la morte, in un estremo rifiuto delle complicazioni:
     
    Bell’articolo !

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