Alpinismo e scelte… di vita?

Sul n. 9-10/1980 della Rivista del CAI abbiamo pubblicato una lettera di Mario Giacherio intitolata Un appello per la vita. Vi ha fatto seguito un’altra lettera di approvazione e sostegno da parte di Filippo Gandolfo, pubblicata sul n. 5-6/1981. Nello stesso periodo abbiamo ricevuto questo articolo di Livio Siro, che pubblichiamo insieme a una replica di Silvia Metzeltin. Si direbbe che gli alpinisti siano giunti una volta di più a un momento di riflessione sulla propria attività, sul proprio modo di vivere la montagna, o per lo meno un certo tipo di alpinismo, in un ennesimo tentativo di razionalizzare le cause, spesso inconsce, che determinano la loro scelta. Alla base di questo ripensamento vi è certo il ripetersi frequente di incidenti mortali, spesso fra i giovanissimi e il carattere stesso che ha assunto l’alpinismo di punta: salite in libera, solitarie, invernali solitarie, sci estremo, tutti modi di spostare più avanti il limite delle possibilità umane, che sempre più coincidono di conseguenza con il limite della vita, a un passo dalla Todeszone, la zona della morte.
E’ questo il titolo anche di un recente libro di Reinhold Messner (Il limite della vita, Zanichelli 1980); la domanda individuale si fa quindi coscienza collettiva. I due articoli che seguono pongono una base di discussione e di indagine partendo da esperienze personali, senza lasciarsi tentare da quelle spiegazioni psicoanalitiche di scarsa credibilità, tentate in passato, rispondenti sempre a schemi applicati dall’esterno e in cui gli alpinisti non si riconoscono (Redazione della Rivista del CAI).

Alpinismo e scelte… di vita?
di Livio Saro
(pubblicato su Rivista del CAI, luglio-agosto 1981)

So di toccare gli alpinisti molto nel vivo, nell’intimo, con queste righe. Ma non voglio farlo con aggressività: voglio prendervi per un braccio, costringervi a fermarvi, a fermarci, e a discutere.

Parlare di alpinismo, di scelte di vita, di morte, ci spinge in difesa: troppe sono state le saccenti Analisi Psicologiche che hanno sentenziato sul ruolo dell’alpinista schiavo del super-io o frustrato suicida; giudizi impietosi, ma soprattutto «estranei», che più che capire vogliono classificare.

Dietro le citazioni dotte, cui si ricorre in questi casi, c’è un banale ragionamento, che suona pressappoco così:
«Gli alpinisti se la vogliono; è molto meglio la certezza di una lunga vita al riparo dai rischi, che il cercare non-si-sa-cosa sulle pareti delle montagne».

Si dice cioè: la vita, magari anche solo per se stessa, è sacra e basta. Sarei portato a dire che non ci può bastare.

Eppure. Eppure da parecchio tempo sui giornali, anche su quelli specializzati, si parla troppo spesso di disgrazie in montagna, di soccorsi, di feriti, di morte.

Ricordi
La mia memoria recente, come quella di tutti noi, è piena di queste morti in montagna. Giorgio ci invita a casa per una serata di diapositive: l’attacco, l’arrampicata, la foto di gruppo.

«Quello è Mario, quello è Grongo (Enzo Cozzolino, NdR) — due mesi prima della disgrazia — quella è Paola, quello è Gianni, già, è morto anche lui, e quello sono io».

Andiamo avanti. Giorgio un mese dopo moriva in Civetta, dopo una notte di agonia in parete. Morto di freddo e dissanguato. Si parla con gli amici di una spedizione in Himalaya:  «Ti ricordi il povero Luigino (Henry, NdR)? E l’altro che portammo giù vivo per miracolo?». Dei componenti di quella spedizione, una mia amica meravigliosa (Tiziana Weiss, NdR) cadde in montagna dieci mesi dopo; al rifugio dove la portarono mi dissero che il suo corpo «era come quello di un uccellino». Franco (Piana, NdR) è morto all’Everest.

Incontro per caso un sacerdote, sul corpo i segni della vita di un vecchio alpinista; parliamo di caccia, di fiori, di gioia, di cime, di «vie» e in breve (sarà per la vista di uno di quei muri di rifugio che, a forza di «immolatosi sull’alpe», di «nel supremo sacrificio si diede», di «nella lotta con l’alpe», si sono trasformati in ossari della montagna) con il prete non si fa altro che parlare di incidenti: «Celebravo un matrimonio, giù al rifugio, proprio mentre, lassù in parete, quell’altro poveretto finiva strangolato dalla corda. Pensa, nello stesso istante!» Continua: «Arrampicavano affiancati, tutti e due in libera. L’altro vide il fratello volare e sfracellarsi per trecento metri. C’erano solo le sue mani e i suoi nervi ad aggrapparlo alla vita. Con quella visione di morte nel cervello riuscì ugualmente a salire in vetta e a salvarsi. Sì, ma qualche mese dopo un’altra salita, sempre da solo. Lo abbiamo raccolto tutto in un sacchettino di nylon!». Perché tanti morti?

Il mondo non prometteva niente di meglio, a tutti questi nostri amici, che l’arrampicare, al prezzo della loro stessa vita?

Le scelte siano consapevoli
Soprattutto un pensiero mi tormenta: se chi fa questa scelta, la scelta di arrampicare duro e di rischiare forte, è consapevole. Perché credo che «la coscienza di sé» sia un valore enorme, non so, forse la ragione ultima della nostra esistenza.

E vedo fare tanta retorica attorno a queste morti, tanti ragionamenti a metà, vedo tanta incoscienza negli amici che iniziano o che continuano. Non c’è il coraggio di guardare la realtà a viso aperto; quando qualcuno cade, subito ci si informa sul «come» è successo e si cerca la spiegazione tecnica: il chiodo, il cordino. Per tranquillizzarsi. Mi accorgo che manca l’accettazione consapevole che purtroppo quando si arrampica duro, la morte è una probabilità statistica. Una probabilità molto, molto forte. Mi domando perché questi amici non cerchino un senso per la loro vita anche nelle azioni sociali, politiche, affettive, sportive, culturali.

Cerco di capire.
Lascio stare i libri; penso agli alpinisti che frequento, alla nostra vita, alla mia esperienza. Qual è la molla che spinge a rischiare? Trovo due risposte. Le do con modestia, ma le voglio dare. Cominciamo dall’atto stesso dell’arrampicare.

Due perché del rischio
Il rapporto uomo-natura e (non nascondiamocelo) quello uomo-morte nell’arrampicata è diretto, non sono possibili mediazioni. L’esperienza di chi fa roccia sul serio (tanto più se in solitaria) è quella di chi ha la vita nelle proprie mani; è il continuo atto di presunzione di chi non vuole ammettere l’errore umano: per un’ora, per dieci ore se apro le dita crepo o resto storpio. Tutto, assolutamente tutto quello che posso essere, volere o desiderare dipende dai miei riflessi, dalla mia forza, dalla mia calma. La vita di tutti i giorni è invece così complicata e così poco lineare: le nostre decisioni non sembrano sortire mai risultati chiari e sicuri. Il voto non pare provocare mutamenti politici, così è per le ore che spendiamo in fabbrica o in ufficio. I nostri stessi affetti vanno per il verso loro: nulla risponde più a regole semplici e mutabili dalla nostra sola volontà.

Credo che per l’alpinista arrampicare significhi inconsciamente tentare di restituire alla vita semplicità e forza di emozioni, una specie di ritorno all’antica lotta dell’uomo contro la fame, il freddo, le forze della natura, un ritorno alla lotta — in fondo — contro la morte, in un estremo rifiuto delle complicazioni: le guerre degli sceicchi, la vecchiaia, l’inquinamento, ecc. Lo ripeto, il protagonista non è più la vita, ma la morte; è con essa che l’alpinista dialoga salendo, è essa che gli fa sembrare l’alba in parete troppo bella, rispetto alla realtà, già così meravigliosa; è essa che gli fa sentire così pienamente lo scatto dei muscoli e così profondo il contatto con la roccia: perché potrebbero essere gli ultimi.

La seconda risposta alla domanda sul perché del rischio mi viene dai momenti passati con gli amici — mi capirete? — vedendoli parlare di «vie» e di materiali, leggere il libro di sezione, commentare i resoconti delle salite pubblicati dalle riviste o fatti pubblicare sul giornale cittadino.

Tra quelli che «vanno» in montagna molti hanno un soprannome, di tutti sono noti i difetti e i pregi più evidenti, i tic, le piccole manie e in più — settimana dopo settimana — dei più bravi leggiamo delle salite compiute, magari in solitaria, delle vie nuove… di quanto rischiano. Sarebbe ingiusto dire che ci si conosce solo per il coraggio dimostrato in montagna, perché non sempre chi rischia di più diventa il leader, ci vuole anche il fascino di una personalità forte, ma è certo che chi non arrampica «è uno che ha paura», «uno che non può parlare perché non ha mai sentito la corda penzolare nel vuoto dall’imbragatura». Il rischio insomma rientra dalla finestra come un battesimo necessario per venire accolti tra gli iniziati (non si valuta forse il valore dell’attività alpinistica del candidato per ammetterlo nei gruppi-rocciatori, sorta di super-circoli, all’interno delle sezioni del CAI?). Arrampicata e rischio e perciò confronto con la morte, di nuovo. Non cerchiamo di nascondercelo.

Il rischio è morale?
Sono un laico, ma al mio sacerdote alpinista ho voluto chiedere: «Arrampicare, arrampicare forte, magari in libera, è morale?». Mi ha solo sorriso, e poi, quando ci siamo salutati, mi ha stretto forte il braccio, quasi facendomi male. Se lo ricorderà, se leggerà questo scritto.

Perché per me chi arrampica sceglie inconsciamente di stare vicino alla morte, ad ogni appiglio, ad ogni nodo, ad ogni scarica di sassi. Perché, lo ripeto, statisticamente è provato che dopo tanta attività l’incidente arriva. Non voglio trarre banali conclusioni moralistiche, non voglio sostenere che non bisogna arrampicare duro perché si può — con forte probabilità — morire, no.

Voglio solo che questo sia chiaro per gli amici che iniziano o che continuano: arrampicare non è scelta matura di vita, ma tentativo di riempire il nostro vuoto con le sensazioni forti che ci dà il confronto diretto con la morte.

Se si decide che ne vale la pena, se si ha la presunzione di credere di scegliere consapevolmente il confronto con il rischio, ripeto «con coscienza di sé», lo si può fare. Ma che sia chiaro per Dio!

Ci sarà allora più facile sopportare la perdita di tanti amici. Senza il dubbio che non sapessero, di non averli — noi — aiutati a sapere.

La scelta di Messner
Lasciatemi fare ancora una considerazione. Accettatela come inizio per un dibattito, non solo come una provocazione.

C’è chi, partendo per l’Everest, aveva calcolato il rischio statisticamente e il calcolo è stato rispettato: è morto Franco Piana. Non era stato calcolato che sarebbe morto anche un portatore nepalese. Si può finire sotto una valanga durante una spedizione liberamente intrapresa (ma mi domando quanto tutti noi siamo liberi, oggi), oppure per guadagnare 1000 o 2000 lire al giorno e non mi pare la stessa cosa. Nel suo libro sull’Everest, Reinhold Messner accenna quasi in sordina al fatto che «uno sherpa scomparve in un crepaccio. Gli altri sono tutti guariti, anche quello che era rimasto semiparalizzato…». Quanto dire e non dire c’è in quel «uno sherpa scomparve… gli altri sono guariti»! In fondo, si tratta della morte di un uomo, morto sul lavoro.

Anche Messner, che pare aver scelto liberamente il rischio individuale, mostra qui di cadere nella tremenda contraddizione della civiltà moderna: l’uso dell’uomo da parte di altri uomini più potenti o più ricchi, uso che si verifica anche durante le spedizioni extraeuropee.

Il suo cercare anche lì le salite solitarie è una estrema dimostrazione di «coscienza di sé»? Arrampicare rischiando da soli, senza «usare» nessuno, rischiando il meno possibile la vita dei portatori, in un estremo confronto negativo con la morte?

Messner è l’idolo dei rocciatori moderni; vorrei almeno che la scelta di questo mito fosse consapevole, fino in fondo.

Io vorrei che tutti potessero scegliere le tante cose che la vita può dare. In montagna la scelta della via solitaria è possibile, il rischio può far sentire forti, protagonisti; nella vita vera tutto questo non serve.

La vita appesa a un filo? (Tangerine Trip a El Capitan); John Dale in discesa sulle corde fisse. Foto: Franco Perlotto.

Sì, alpinismo scelta di vita
di Silvia Metzeltin
(pubblicato su Rivista del CAI, luglio-agosto 1981)

Chissà se riuscirò a farmi capire con queste righe, con questa presa di posizione che mi viene sollecitata, quasi provocata, quando nei ricordi di Livio c’è il riferimento alle stesse persone scomparse, alle quali ambedue abbiamo voluto bene. Farsi capire con un articolo è tanto più difficile che con una discussione al tavolo, sotto il pergolo dell’osteria, dove abbiamo iniziato questo discorso, smarriti dopo un funerale. Eppure è un discorso che va fatto ogni tanto.

E’ vero che si discute già da un secolo sull’argomento, cioè sulla liceità del rischio e sulla migliore utilizzazione delle nostre energie apparentemente sprecate nell’alpinismo. Ma è anche giusto che ogni generazione si confronti di nuovo con il problema. Alpinismo come momento di riflessione: avrebbe già senso solo per questo. Non si possono nemmeno mettere a fuoco insieme tutti gli aspetti, che s’intrecciano in modo complesso nella vita di ognuno. Si può tentare con qualche tema. Proviamo.

La scelta
Penso che sia veramente una scelta, anche se avvenuta qualche volta solo per esclusione, qualche volta spinta da passionalità di cui ci sfugge il significato, per divenire poi maturata e meditata, per qualcuno anche sofferta. Comunque, è una scelta. Non una scelta di morte; piuttosto, semmai, una scelta di saper guardare in faccia alla morte, che è tutt’altro. La nostra cultura ha elaborato modelli di comportamento che eliminano la riflessione sulla morte. Ma la morte è una certezza per tutti noi, solo che la maggior parte della gente vive, o viene «fatta vivere», come se non dovesse mai morire. Muore anche chi non ha mai voluto accettare nessun rischio di nessun tipo.

Il rischio
Esistono forme di alpinismo con quota rischio elevata e con quota rischio ridotta, ambedue di alto valore tecnico-sportivo anche se diverse nel contenuto e nel modo di attuazione. E’ stata fatta spesso confusione in questo campo: non credo vi sia uguaglianza tra il concetto di rischio e quello di difficoltà. E poi, di quale rischio? Che importanza ha il rischio fisico nella nostra attività?

Può sembrare contradditorio, ma non amo il rischio fisico. Nella pratica alpinistica sono di quelli del cosiddetto chiodo in più, di quelli che si legano, come si suoi dire, anche sull’erba. Dovrei dire perciò che accetto il rischio più come idea che come realtà e in ogni caso faccio di tutto per valutarlo e tenerlo sotto controllo, perché non sia il rischio a gestire me, ma io a gestire lui. Penso che molti alpinisti siano come me.

Fra i due estremi della libera integrale senza assicurazione alcuna e il chiodo a ogni metro esiste una saggia «via di mezzo» che la maggior parte di noi adatta alle condizioni della montagna e di se stesso, senza dogmatismi e con un po’ di buon senso. Questo non elimina il rischio fisico, ma lo riduce a un livello normale. Quello che esiste in qualunque attività umana.

Il nòcciolo della questione è un altro. In un intorno sociale in cui siamo schedati, classificati, medicalizzati, fiscalizzati dalla nascita alla morte, iper-protetti in nome di un nostro ipotetico «bene», ogni tipo di rischio individuale consapevolmente accettato è un elemento ritenuto di asocialità e di disordine. Il rischio viene sventolato come un ricatto. Che l’alpinismo sia più pericoloso, non per la cassa in cui presto o tardi finiremo tutti, ma per i ragionamenti e sentimenti che possono svilupparsi ancora un po’ «in proprio» nelle teste degli alpinisti? Considerare il solo rischio fisico è una distorsione del problema. Nell’alpinismo vi sono altri rischi, altri prezzi pagati: certe emarginazioni, incomprensioni familiari, mancate carriere professionali e così via. E inoltre ancora il rischio di una strumentalizzazione dell’alpinismo stesso, che la collettività tenta di ricuperare — ma questo è un discorso a sé. L’alpinismo è una delle attività che mettono a nudo la scarsa tolleranza che hanno gli intorni sociali per i «diversi», e anche la subdola gamma delle loro tattiche di ricupero.

La vita non aveva niente di meglio da offrire?
Se su un piatto della bilancia pesano i rischi, sull’altro ci sono pure le ricchezze dell’alpinismo che tutti conosciamo. Qualcosa di meglio? Non saprei. L’alpinismo può essere una forma di vita ottimale, dipende dal quadro che gli vogliamo o sappiamo dare.

Nei generici «impegni sociali» che ci vengono spesso proposti quale alternativa nell’additarci come egoisti, nel colpevolizzarci nella situazione di marginali, di critici o di scettici, credo sempre meno. Ben pochi hanno le qualità e le convinzioni di un Guido Rossa. Gli alpinisti non sono un esercito di mancati Guido Rossa: sono individui molto diversi fra loro, nelle inclinazioni e nelle capacità, spesso assetati di spazi liberi e di autonomia.

Sono un po’ meno pigri e conformisti delle persone «normali» : cercano una propria via esistenziale. Nell’essenza, non è questa anche una testimonianza filosofica e politica? Mai come oggi, mi sembra, salvare qualche possibilità di libera realizzazione individuale costituisce un impegno importante. D’altra parte mai come oggi s’avvicinano proposte filosofiche e sociali e forme di vivere l’alpinismo. I bestseller di Bach e di Fromm hanno milioni di tirature e la maggior parte degli alpinisti si può ritrovare nelle loro considerazioni e forse anche nelle loro utopie. In questo quadro, la vita non aveva nulla di meglio da offrirci dell’alpinismo: una delle tante strade possibili, ma adatta alle nostre attitudini e al nostro carattere.

Silvia Metzeltin

Il nostro «coraggio di essere»
Chissà perché, noi alpinisti ci lasciamo colpevolizzare abbastanza facilmente. Ma prendiamocelo il nostro «coraggio di essere»! Quando Nicolas Jaeger definiva eroi quelli che prendono la metropolitana tutte le mattine, ne era davvero convinto? Non è la retorica dell’antiretorica? Parigi non mi sembra così diversa da Milano e le facce di chi prende la metropolitana delle otto alle stazioni di Lotto o Cadorna sono così espressive di pallida rassegnazione e stanchezza esistenziale da escludere parentele con qualunque forma di eroismo. Anzi, quello squallore mattutino, così simile a quello descritto da Saint-Exupéry in una famosa pagina di Terre des Hommes, mi angoscia ogni volta. Eroi? Giusto ridimensionare eccessive velleità di riconoscimento degli alpinisti, ma giusto anche non alimentare l’autoinganno di quelli del metrò. Jaeger è scomparso nell’inaccessa parete sud del Lhotse. Rischio voluto, ponderato, accettato. Calcolo sbagliato? Sì, sbagliato e pagato. Ma quanto più sbagliato il calcolo di chi fatica tristemente e malvolentieri per un magro stipendio e per una pensione che non avrà mai perché muore di cancro a quarant’anni, magari dopo aver inconsapevolmente contribuito all’inquinamento ambientale che lo farà morire ben più atrocemente che sotto una valanga himalayana… Ci vogliamo pensare ogni tanto e non sempre contrapporre l’alpinismo «cattivo» alla «buona» vita quotidiana della maggioranza? I nostri calcoli di vita li dobbiamo fare noi stessi: non i dirigenti, non le autorità, non la pubblica opinione.

I «valori» possiamo sceglierli noi, perché in primo luogo siamo noi stessi a pagare per le nostre scelte. Ma non possiamo rimproverare all’alpinismo una tragicità che è intrinseca alla limitatezza temporale della vita umana e alla sua fragilità nell’assoluto.

Non è colpa dell’alpinismo se non siamo immortali. Muoiono anche coloro che non hanno mai visto le montagne, anche coloro che non hanno mai fatto un tentativo di dare significato e qualità alla loro vita. Le morti sono uguali, le vite no: è il tentativo che fa la differenza. Per me, è una differenza abissale. Amo profondamente la vita e non ho nessuna voglia di morire. Metto anche cinque chiodi in terrazzino se occorre e penso di saper tornare indietro dove non passo. Ma se un giorno mi arriverà in testa la pietra che non ho saputo prevedere o evitare, ebbene, almeno non avrò sprecato la vita e rinchiuso i sogni sul metrò delle otto. Capisci?

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Concludiamo con questo gruppo di lettere il dibattito sugli articoli di Livio Siro e Silvia Metzeltin: Alpinismo e scelte… di vita? pubblicati sul n. 7-8/1981 della Rivista del CAI. Con questi scritti non si esauriscono certo le argomentazioni pro e contro, che ciascuno porta in sé e che si potrebbero estrinsecare a sostegno di una tesi o dell’altra. Né si può pretendere di trarne conclusioni definitive: è un dibattito che può durare eternamente, perché le sue radici affondano nelle origini stesse dell’alpinismo e delle sue motivazioni più profonde. Era comunque un test che andava fatto, la cui necessità era nell’aria, in questo momento evolutivo dell’alpinismo e ci auguriamo che questo campione di opinioni contribuisca per lo meno a chiarire a ciascuno i “perché” del “proprio” alpinismo (Redazione della Rivista del CAI).

Alpinismo e scelte… di vita?
di Ottavio Bastrenta
(pubblicato su Rivista Mensile del CAI, marzo-aprile 1982)

… Terminato lo scritto di Livio Siro, mi sono detto: qualcun’altro ha finalmente il coraggio di rompere questo velo di omertà, questo silenzio colpevole del mondo alpinistico di fronte all’accentuarsi di un fenomeno allarmante non meno di quello della droga… Mi riferisco, lo dico subito a scanso di ogni equivoco, non all’alpinismo in genere, ma a certe sue forme esasperate che in questi ultimi anni hanno mietuto tante giovani vite. E parlo di una serie di fenomeni che vanno dal semplice arrampicare solo e senza assicurazione in palestra alla «grande» solitaria; da talune attività alpinistiche collettive, a certe spedizioni extraeuropee con mete e modalità irragionevoli.

Ma qui voglio replicare soprattutto allo scritto di Silvia Metzeltin, perché contiene affermazioni che sembrano giustificare qualsiasi forma, e quindi anche la più esasperata, di alpinismo.

Una prima considerazione: nell’articolo di Silvia Metzeltin manca qualsiasi riferimento a quegli «altri» ai quali ciascuno di noi è legato, non da una corda, ma dagli affetti, cioè al nostro compagno di vita, ai figli, ai nostri vecchi…

Ottavio Bastrenta

Neppure un accenno al dolore che la nostra scomparsa può arrecare loro e soprattutto alle altre conseguenze pratiche per la loro vita.

Quando ero istruttore della Scuola d’alpinismo Gervasutti di Torino, spesso prima della salita discutevamo — istruttori e allievi — di ciò che era per noi importante oltre all’alpinismo, a cominciare dai nostri cari che avevamo lasciato in città e ci interrogavamo sul nostro diritto di farli soffrire.

La consapevolezza da parte dell’alpinista «estremo» della sua scelta e dei tremendi rischi che comporta, di cui parla Livio Siro, deve essere allargata innanzi tutto alle conseguenze per questi «altri». Deve, se si sa amare e se si ha il senso del dovere. Altrimenti, naturalmente, si è liberi anche di morire.

Ma noi possiamo assistere indifferenti ad una simile conclusione?

Silvia Metzeltin ci propone una visione della società nella quale viviamo estremamente semplificata: da una parte la massa amorfa dei «normali», dei conformisti, di «quelli che prendono il metrò delle otto» stanchi e rassegnati; dall’altra l’élite degli alpinisti, «diversi fra loro, nelle inclinazioni e nelle capacità, spesso assetati di spazi liberi e d’autonomia», che trovano nell’alpinismo il meglio che la vita poteva offrire in quanto tra le «tante strade possibili è quella più adatta alle loro attitudini e al loro carattere».

Molte cose si potrebbero replicare a questa visione di Silvia Metzeltin. Mi limiterò qui solo a qualche accenno: molti dei «grandi» alpinisti sono tra quelli che prendono il metrò alle 8 (e ad altre ore meno comode); questa massa anonima di «normali» guardata così dall’alto è pur sempre quella che produce per tutti noi e quindi anche per lei quello che occorre per vivere (e per andare in montagna); questa società è ben poco protettiva e sa cavar soldi da ogni diversità; chi detiene il potere è ben lieto che individui potenzialmente «pericolosi» per l’assetto sociale esistente rivolgano le proprie energie verso mete innocue quali il sesso, la droga, il misticismo, l’alpinismo, ecc… Quanto alle «altre strade possibili» a cui accenna Silvia, lasciamo parlare uno che ha dimostrato di «saper guardare in faccia alla morte» non solo in montagna, ma soprattutto nella vita.

Inizia così la ormai «storica» lettera di Guido Rossa pubblicata dai giornali dopo la sua morte.

Un uomo eccezionale? Molti alpinisti hanno qualità simili alle sue. Lui aveva però certe convinzioni ed è stato «solo» un po’ più coerente di altri nell’applicarle alla prassi. Ma anche Guido aveva le sue contraddizioni. Scriveva queste belle frasi e poi ritornava ogni anno a salire quelle «lisce e sterili pareti» lungo vie di grande difficoltà. Ma alla fine ha pagato con la vita il prezzo delle sue convinzioni più profonde, lasciando un «segno» nel cuore ed una «traccia» nella coscienza di molti uomini. Tornando allo scritto di Silvia Metzeltin quello che più colpisce è l’assenza di ogni condanna delle forme esasperate dell’alpinismo. Sembra che l’Autrice ritenga che la scelta di qualsiasi forma di alpinismo, purché sia consapevole, sia lecita. Ella accenna al suo modo prudente di andare in montagna, non come al modo o ad uno dei modi ragionevoli (con implicita condanna di modi diversi), ma solo come ad uno dei tanti modi possibili di praticare l’alpinismo. Silvia non prende posizione sul problema del rispetto della vita. Eppure ha la capacità, l’autorità e soprattutto il dovere di dire chiaramente ai giovani quali sono i limiti morali dell’alpinismo. Perché ogni attività umana sensata (cioè «a favore dell’uomo») è soggetta innanzi tutto a delle regole: e la prima è quella del rispetto della vita. E un alpinismo «senza limiti» non può derivare da una scelta consapevole, ma da cause interne che nulla hanno a che fare con la ragione. Che dipendono da una disperazione esistenziale che deve far riflettere. Il problema centrale del dibattito non è quindi quello della scelta, ma dei limiti di questa scelta. Limiti sensati, ragionevoli. Limiti non certo imposti, ma proposti alla coscienza degli alpinisti.

Chi nel mondo della montagna sentirà il dovere di promuovere incontri-dibattiti, soprattutto tra i giovani, su questi temi? E i giovani avranno il coraggio di parlare?

Alpinismo e scelte… di vita?
di Maurizio De Bortoli e Roberto Nebuloni
(pubblicato su Rivista Mensile del CAI, marzo-aprile 1982)

Volentieri aderiamo alla proposta di dibattito costituita dai due articoli di Livio Siro e di Silvia Metzeltin, pubblicati sul numero di luglio-agosto 1981 della Rivista e riguardanti l’alpinismo come scelta di vita e confronto con il rischio di morte.

Nei due articoli, accanto a profonde osservazioni, ve ne sono altre che ci lasciano perplessi. Soprattutto non ci appare condivisibile la prospettiva individualistico-egoistica in cui viene affrontato il tema complessivo «valore della vita/rischio di morte». L’esistenza individuale appare assolutizzata in una mancanza di riferimenti — che sono invece parte essenziale di ogni esistenza vera e personale — e solo per questa premessa si può tollerare (come sembra fare Siro) che «il protagonista non sia più la vita ma la morte». In realtà la vita, anche se intesa — come fa Siro — come «coscienza di sé», non è l’assoluto; al contrario è stata posta da Altro e ne dipende. A noi compete viverla in pienezza: rischiando, certo, perché ogni gesto che consapevolmente compiamo comporta una scelta e un rischio, ma non per il gusto irrazionalistico di un’affermazione da superuomo, o per quello masochistico (e un po’ macabro) di un faccia a faccia con la morte.

Il «rischio» è una componente normale dell’esistenza «umana», anche di quella apparentemente più banale, ma non ha senso, ci pare, una scelta del «rischio di morte» in quanto tale; chi sceglie l’arrampicare impegnativo non sceglie di stare particolarmente vicino alla morte, ma sceglie un gesto di vita particolarmente pieno e gustoso, nella prospettiva di un proprio arricchimento. In molti modi l’uomo tende a ritrovare la verità di sé e l’alpinismo, come altre imprese umane che appaiono inutili e pericolose a molti, è l’espressione di questa sua ricerca, che è insieme ricerca dell’essenziale. Questo «cerca», consciamente o inconsciamente, la persona naturalmente e psicologicamente sana. Ci sentiamo perciò concordanti con la Metzeltin quando precisa di «non amare il rischio» e di «fare di tutto per tenerlo sotto controllo».

E giustamente la Metzeltin precisa ancora che, una volta prese le dovute precauzioni, «non dobbiamo rimproverare all’alpinismo una tragicità che è intrinseca alla limitatezza temporale della vita umana ed alla sua fragilità nell’assoluto». Ma anche nel contributo della Metzeltin la prospettiva individualistica prevale, evidenziandosi in particolare nella scarsa considerazione in cui viene tenuto il rapporto con gli altri (familiari, amici, società, ecc.) e nella punta di disprezzo per la gente comune, quella del metrò delle otto. Diceva bene Filippo Gandolfo su un precedente numero della Rivista (5-6/1981) che «è discutibile il discorso che ognuno è libero di andarsi ad ammazzare dove vuole, in quanto per lo meno lascia dei genitori in lacrime e l’opinione pubblica sempre più convinta che tutti quelli che vanno in montagna sono dei pazzi»; in altre parole: la nostra esistenza è fatta anche di rapporti, relazioni, dipendenze e noi siamo tenuti a dare un contributo attivo all’ambiente ed alla società in cui siamo inseriti e che molto ci danno. In certo qual modo noi siamo responsabili non solo di noi stessi, ma anche di quanti ci circondano.

Ciò può voler dire, in positivo, che l’arricchimento che traiamo dall’andare in montagna può poi rifluire nei rapporti che abbiamo con gli altri. Ma occorre guardare agli altri con simpatia e riconoscere che, in definitiva, la tensione umana che giustifica e spiega l’alpinismo può viversi anche prendendo il metrò delle otto. Il problema è, per ognuno, quello di non sprecare la propria vita, giacché essa ha un senso che ultimamente non determiniamo noi e che non ci consente di metterla a repentaglio inutilmente. Siamo chiamati ad un rapporto di comunione con ciò che è altro da noi e ciò può trovar realizzazione sia andando in montagna, che prendendo il metrò. Ed alla fine solo il sapere che anche la vita del nostro amico morto è nelle mani di un Altro può consolarci della sua morte, non il solo «sapere che sapesse» di cui parla Siro.

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Il pezzo che segue non è una risposta diretta alta domanda del nostro dibattito, ma vi si inserisce naturalmente e con forza, per le considerazioni che vi sono espresse e che vertono in sostanza sullo stesso tema, nascendo dall’esperienza sia alpinistica, che di lavoro quotidiano dell’Autrice (Redazione della Rivista del CAI).

Accostarci alle montagne
di Oriana Pecchio (medico di guardia ai Pronto Soccorso Ospedale Molinette di Torino)
(pubblicato su Rivista Mensile del CAI, marzo-aprile 1982)

Spesso entrando in un rifugio mi sono sentita intorno l’aria greve dell’alpinismo eroico e mi sono chiesta se non era questo un modo delirante di andare in montagna. Non è forse delirio di grandezza quello che spinge l’alpinista incompiuto ad alzarsi ogni ora per vedere com’è il tempo, per poi decidere che è troppo tardi per partire quando si è messo al bello, o gli fa venire il mal di stomaco tremendo, che lo blocca in rifugio, o gli fa trovare il compagno di cordata non alla sua altezza? Per fortuna i deliranti sono pochi, anche se bastano ad impedirti di dormire, dato il loro stato esagitato.

Per sfortuna sono ancora molti i «conquistatori», quelli che intendono l’alpinismo come lotta con l’Alpe, come se fosse una donna o un nemico e mi pare un alpinismo tipicamente maschilista e sciovinista quello che usa termini come «violare la cima» — «vincere la montagna» — «conquistare la vetta». Sono ancora molti quelli che pensano di essere una élite e si lamentano di funivie e seggiovie, perché hanno modificato non solo il paesaggio alpino, ma un modo di andare in montagna, sovraffollando i rifugi e le vie. Può essere esasperante pensare di mettersi in coda anche all’attacco della parete (!!!), è vero, ma è pur vero che i lamentosi che rimpiangono i bei tempi andati non hanno fantasia a sufficienza per spaziare su vie meno famose e classiche e se per loro «esperienza di libertà» non consiste nel condividere la libertà con altre persone, ma nell’usarla per sfuggire a loro (Lito Tejada-Flores: Sovraffollamento in montagna e viaggio intorno all’io), probabilmente non hanno né l’abilità, né l’intraprendenza sufficienti e necessarie.

«Accostarci alle montagne con un nuovo spirito, prima di tutto considerando come e perché arrampichiamo» suggeriva ancora Lito Tejada-Flores nello stesso articolo. Una risposta compendiosa, ma chiara, potrebbe essere: «Perché mi piace» e tutte le altre considerazioni diventerebbero una perdita di tempo (da riderci su, se fossero divertenti), ma io perdo così tanto tempo a prendere fiato tra un passo e l’altro che inevitabilmente mi viene da riflettere su ciò che vedo, provo e sento, quasi nel tentativo di spiegare a me stessa certe sensazioni, forse per fissarle nella memoria, forse per riviverle nel tempo.

Oriana Pecchio

Accostarci alle montagne, allora, per sentire il piacere di immergersi nell’armonia, per provare quanto sia bello accarezzare la roccia per cercare l’appiglio, appoggiarci la faccia contro per sentire il fresco quando la fatica fa sudare, aggrappatisi per vivere. Una sensazione: sul ghiacciaio, il sole che sorge da dietro il colle, il calore che mi arriva finalmente sulla faccia, i raggi riflessi sui cristalli di ghiaccio, l’ombra del mio compagno di cordata, la fatica come condizione fisica di diversa sensibilità percettiva. Hermann Hesse scriveva guardando un temporale a Sumatra: «L’ora era proprio lì, l’ora straordinaria attesa con pazienza da tempo. Stavo in piedi e vedevo nella bianca luce dei mille lampi la foresta vergine perdere il suo mistero e rabbrividire per una profonda angoscia mortale e ciò che provavo era sempre quella sensazione che avevo già sentito, infinite volte, osservando un crepaccio nelle Alpi, navigando un mare in tempesta, o mentre venivo stordito dalle folate del föhn che si abbatteva su una pista di sci, ma che non riesco ad esprimere e che tuttavia seguiterò sempre a cercare di rivivere».

Se le sensazioni sono indescrivibili e inenarrabili perché i confini del linguaggio scritto e parlato sono troppo stretti, non del tutto sono inesprimibili ed incomunicabili. Non si tratta di capire, ma di sentire e partecipare, di accettare l’irrazionale: l’amore, la vita, la morte. Il mio «salire» (senza miti puntisti, ovviamente) vuoi dire forzare la mia volontà e le mie capacità fisiche ogni volta un po’ di più, obbligarmi a guardare il vuoto perché il vuoto esiste, per cercare di superare l’angoscia e l’orrore della morte, rischiando un po’ o, meglio, correndo un rischio socialmente non accettato, adottando una sorta di pratica tantrica come Milarepa, che per vincere l’orrore della morte della madre, delle di lei ossa fece un cuscino su cui dormì per sette notti.

Il nostro modello di «normalità» è l’uomo sano e ci presentano la malattia e la morte come al di fuori della norma, eventi straordinari da nascondere e ignorare, anziché da accettare. Mi è capitato talvolta di restare a lungo su una cima (se il sole era caldo e il vento mite) e non avere più voglia di scendere. Non avevo angoscia di morte, come salendo non avevo paura di morire (anche se, forse, avevo quella di cadere), ma più salivo più mi sentivo attaccata alla vita e ancor più chiaro era che accettare la morte voleva dire accettare la vita. Tornare a valle significava tornare nei problemi, angosce, ansie, affanni routinari. La sensazione di pace era solo lì, senza corrispettivo nella mia realtà di vita e di lavoro; una nuova dicotomia? Finora sì. Sono e mi sento diversa quando inevitabilmente mi ritrovo nel mio quotidiano; ogni volta che vedo morire una persona giovane mi chiedo ancora perché: perché lei ha il cancro nel sangue o il cuore malato. Me l’ha chiesto anche la bambina qualche notte fa, perché doveva stare così male. Ho stretto i denti e respirato lungo per vincere l’angoscia e accettare: le ho sorriso a fatica mentre lei stava male e il dolore le dilatava gli occhi e le incurvava la bocca; le ho iniettato la morfina mentre continuavo a ripetermi che la realtà era quella, che la morte per lei era il problema pratico del momento dopo.

Non ho la soluzione, se non forse quella di continuare a «cercare» (e Siddharta insegna) e una via, una delle tante, può essere nel ritornare in montagna, per vivere nuove esperienze, per rivivere sensazioni, per sperimentare ancora me stessa.

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Alpinismo e scelte… di vita? ultima modifica: 2024-08-31T05:16:00+02:00 da GognaBlog

252 pensieri su “Alpinismo e scelte… di vita?”

  1. Quelli che credono che Babbo Natale da piccolo fosse Gesubambino, ooh, yeah!
     
    Quelli che credono che con lo Jaegermeister passi tutto, anche il cancro. Oooh, yeah!
     
    Mi ricorda Jannacci.

  2. Quelli che non vogliono capire, quelli che vogliono convertire, quelli che non vedono altro da se’ fanno parte del mondo. 
    vero, solo che qui le caratteristiche si assommano in caso ad uno solo, pure logorroico

  3. “Cascami e ridondanze sono un prezzo sopportabile che si paga alla libertà di espressione.”
     
    Sono un po’ come il brutto tempo in montagna…non ci fosse sarebbe tutto secco, senza neve o ghiaccio.
    Quelli che non vogliono capire, quelli che vogliono convertire, quelli che non vedono altro da se’ fanno parte del mondo. 
     
     
     
    Ma che rottura di cojoni, però!

  4. Direi che sarebbe opportuno lasciare spazio anche al racconto di chi il dilemma lo vive oggi per ragioni anagrafiche più intensamente sulla linea del fronte di Montagna/Vita privata. Anche chi conosce la letteratura autobiografica degli “eroi” contemporanei nell’arena potrebbe contribuire, anche se ho la sensazione che in molti libri ci sia un pesante intervento degli editor per renderli “appetibili” al gusto dei lettori contemporanei. Anche il punto di vista femminile sarebbe interessabte. Ricordo un’intervista in proposito di Anna Torretta su maternità e montagna. Le storie di vita emerse finora rappresentano comunque un buon materiale sul quale ognuno può riflettere. Cascami e ridondanze sono un prezzo sopportabile  che si paga alla libertà di espressione. 

  5. Sì, penso di saper resistere perché uno dei pochi insegnamenti diretti di mio padre è stato: “lasla perdie le fumne, a rumpo mac le bale“.

    Ci avrei scommesso!  Il freddo sabaudo non si smentisce.

  6. durata delle riflessioni in tema: tre post.
    e poi un un altro paio di chili di banalità, inutili e fuori tema. 
    avanti così. 

  7. Oh finalmente Fabio riporta il dibattito su questioni spicciole, del quotidiano. Sì, penso di saper resistere perché uno dei pochi insegnamenti diretti di mio padre è stato: “lasla perdie le fumne, a rumpo mac le bale“. Se finisci nelle mani di una (o più donne), la situazione diventa esplosiva. Questo perché le donne sono (tutte) molto più intelligenti degli uomini. per cui sceglitene una e tienti quella per la vita, senza cacciarti in altre grane. Con tutto quello di interessante che c’è da fare nella vita, rovinarsela è da cretini, che sia per una via s’arrampicata o per una donna. Inutile insultarmi dandomi del maschilista/sessista (a parte che mia moglie, che ovviamente è una donna,  la pensa come me, per cui non solo gli uomnini pensano così), perché è la vita in sé che NON è politically correct. Questo (di non cacciarsi nei guai) vale per qualsiasi cittadino, ma se poi uno assume ruoli istituzionali deve stare lontano milioni di anni luce dalle donne e da situazioni pericolose, altrimenti finisci a piangnucolare in TV (il ministro fa tenerezza, per carità, ma pare un bambinetto…).
     
    La quantità di gente che mi cerca (con riferimento alle mie idee, in particolare a quella enunciata qui di saper fare delle rinunce in nome di responsabilità morali assunte) è rilevante sul tema “scelte di vita”, perché evidentemente non sono maggioranza quelli (come alcuni di voi) che esaltano gli eroi omerici sfracellati alla base delle pareti, ma probabilmente vale proprio il contrario. Infatti per moltissimi vale il proverbio veneto “soldato che scapa, xè bon per un’altra volta“. Anche questa è una scelta di vita che condiziona il rapporto con la montagna e si intuisce che vi faccia salire il sangue alla testa perché per voi dovrebbe esistere ed essere osannata solo la visione opposta, cioè quella del vivere principalmente per la montagna, fino ad arrivare a morirci a dispetto delle altre scelte di vita.

  8. Ora però è giunto il momento di sorridere con cose piú leggere. Vale anche per Carlo, se accetta la battuta scherzosa.
    … … …
    @ 87
    Carlo Crovella ministro?
    Il problema è che la Giorgia ora controlla. L’altra sera ha stabilito che condizione necessaria per diventare ministro è che bisogna resistere alla malía di una bella femmina seduttrice.
     
    Carlo, tu resisti?
    😀 😀 😀

  9. PAsini  / Bertoncelli – Dopo un brutto trauma alpino  ho scalato e vissuto dai 16 ai 20  posseduto dal demonio e costui non mi ha voluto, nonostante in quella fase il rischio fosse a livelli tossici, dai venti ai trenta mi sono fidanzato, sposato e separato, cose che hanno inciso anche sul mio andare in montagna ma ho comunque abbondantemente rischiato , seppur in modo più avveduto e consapevole e mi sono tolto  un pò di soddisfazioni alpine iniziando anche ad andare sottacqua in maniera impegnativa, altra attività che apparento  per rischi all’alpinismo.
    Erano gli anni ruggenti della prestanza e dell’adrenalina ma era anche un modo per riavvicinarmi a chi se ne era andato. 
    a 30 è nato mio figlio e ho bruscamente sterzato  dalla strada del rischio, eliminando totalmente  talune cose (cascate oltre una certa difficoltà, vie ad alto rischio oggettivo, immersioni impegnative, anche se si tratta di dati largamente aleatori e soggettivi, ma un tanto al chilo tutti sappiamo cosa va oltre…). Ho però continuato scalare estate e inverno in montagna a far scialpinismo e a scalare in falesia
    Da una decina di anni (ne ho sessanta) faccio i conti con minor prestanza fisica e con una visione delle cose più ampia e quieta: pur continuando a scalare anche in montagna mi sorprendo talvolta di trovare vie che avevo fatto trent’anni fa immondamente pericolose (mi son già detto almeno una decina di volte qui non ci torno più) e sempre con maggior frequenza escludo mete dove oggi mi sembra di  rischiare l’osso del collo (cosa che qualche decennio fa non mi accadeva).
    La bellezza dei monti, che per me sono sempre stato un mondo non solo di azione ma anche di meditazione, la trovo oggi anche nel solo movimento dell’arrampicata in falesia (possibilmente fuori dal casino), che grazie a una maggior ampiezza di vedute e al contemporaneo calo della forza è più efficace  e bello di quello dei vent’anni, in una camminata su un prato, in una tranquilla gita con gli sci  o talvolta in una notte da solo a dormire su un monte.
    Mi sono accorto poi di aver eliminato completamente progetti alpinistici arditi  che avevo in mente e di scalare per il puro piacere di farlo . 
    Certo, come molti hanno detto, se non andassi in montagna e non scalassi, seppur con i correttivi che l’invecchiare (a cui do valenza positiva, come un cammino di maturazione verso l’uscita) comporta, non sarei io e sarei cattivo come il veleno (anche se c’è chi dice che lo sia anche così 😀 )

  10. Oggi mi pare di vedere una forte influenza nello “spirito del tempo” delllo schema  razionale/emotivo del bene come “sottrazione”. Si parla di aenso del limite, di decrescita felice, di rinuncia agli eccessi, di ritorno ad una vita semplice…..molto diverso dallo schema “fantasia al potere” della mia gioventù, dove il limite, ka rinuncia erano percepiti con una valenza prevalentemente controllante e repressiva. Si tratta di uno schema che circola in vari ambiti dall’economia, all’ambiente, ai manuali di seilf help… È un po’ come se nell’eterna bilancia degli opposti, dopo un periodo di opulenza e di esagerazioni, si volesse fermare la macchina, riportarla entro limiti che sembrano più giusti, accettabili e sostenibili. Contemporaneamente però esiste, classico contraltare comportamentale ai discorsi da solotto/gruppo, un mondo di eccessi di consumo di ogni genere. Quanto e’ penetrato questo schema anche sull’andare per monti e nelle risposte ai dilemmi di cui stiamo parlando? Non lo so perché sono fuori dalla prima linea arrampicante, però mi hanno colpito alcuni fatto. Il progetto Montagna sacra, con la sua valenza simbolica “espiatrice”, Honnold che continua a insistere sul fatto dell’allenamento e della preparazione quasi a esorcizzare il contenuto “estremo” e anche un po’ deviante del suo esenpio, Gogna, un classico che viene dal tempo delle fiabe e del capello al vento, che interviene spesso sul tema del limite, gli atteggiamenti “prudentini” e “perbenino” che come altri anch’io ho visto nelle palestre indoor….sarebbe interessante approfondire per farsi un’idea degli eventuali mutamenti sugli eterni temi Rischio/Vita aggiornando quel vecchio dibattito che presto sarà abbandonato alla “critica roditrice dei topi”.  

  11. Ho 64 anni e arrampico da quando ne avevo 16, come ho già scritto in un mio intervento precedente la montagna è parte integrante della mia vita, non posso non pensarci non posso non andarci perchè altrimenti vado in crisi. Chiaramente il tempo ci plasma, non ho più la spensieratezza dei 20anni, ma ho sempre tanta passione. Se avessi il fisico dei miei amici 20enni non mi farei tanti problemi a buttarmi su certi itinerari. L’incidente tragico accaduto nel 1990 al mio amico, nel corso del tempo è stato superato. Nonostante la crisi dopo quel tragico incidente, la passione ha avuto il sopravvento e il tempo, come si sa,  cura le ferite. Mi sono anche  preso i miei spaventi sulla mia pelle, una bella sassata in testa con tanto di 4 punti di sutura, uno scivolone d’inverno al Pisanino dove mi sono detto ora mi faccio male, ma sono atterrato su un bel cespuglione, un altro sasso  sul collo che bastava fosse più grosso e addio. Certo ad ogni incidente che avviene, a te, ma anche agli altri, non si può non pensare se ne vale la pena, se è giusto nei confronti di chi è a casa. Ma è anche vero che non si può essere diversi da quello che siamo, altrimenti saremmo finti e repressi. E poi, magari, si pensa, forse ingenuamente, che certe brutte cose possano succedere solo agli altri. L’età avanzata fa fare scelte sicuramente più oculate di quando si era giovani, spensierati e anche un pò spavaldi come è giusto che sia, perchè un giovane non pensa certo alla morte. Come dice Manolo: a 20anni tutti ci sentiamo immortali.  Ma se la passione è ancora forte, come lo è, e il fisico tra un acciacco e l’altro assiste, la montagna ha ancora tanto da offrire con tutte le sfaccettature e i modi in cui la possiamo vivere.

  12. Gentile sig Crovella, ho l’impressione che a breve nsi libererà il posto di ministro della cultura.
    Ha mai pensato di farsi avanti?  Avrebbe l’occasione di formare 60 milioni di cittadini decannibalizzandoli tutti.
    Viste le sue competenze espresse così caldamente non avrà difficoltà.

  13. Crovella, se ce una cosa che non riesci a capire è quanto sei fuori tema: non ci crederai, ma non ce ne frega proprio nulla di quanti ti cercano.

  14. O forse ci sono solo tentativi di risposta, risposte parziali, risposte in sospeso, risposte variabili nel tempo…a me interessano molto le risposte che si danno gli altri, nella loro mescolanza di ragione e sentimento e nel loro mutare a seconda delle stagioni della vita. Stagioni che ci pongono diverse sfide evolutive come le chiamava un mio maestro, rispetto alle questioni decisive dell’esistenza: crescita, accoppiamento, riproduzione, decadenza, malattia, morte…e che intersecano anche la nostra “passione” specifica per i monti. A parte la mia curiosità personale penso anche che la condivisione, per quanto sia possibile anche senza tenda e fornelletto sotto le stelle, sia utile per capire meglio noi stessi, per relativizzare le nostre “verità”, per farci delle domande e perché no anche “copiare” con intelligenza cone fanno i bravi scolari dell’esistenza. Ciao

  15. In gioventú mi dicevo: “Sono libero e vado dove voglio, compatibilmente con le mie capacità e il rischio che sono disposto a tollerare e che riguarda solo me“.
     
    Anni dopo mi sono detto: “Sono marito e soprattutto padre. Non ho piú la determinazione di un tempo. Vado dove posso, compatibilmente con le mie capacità – in diminuzione – e il rischio che sono disposto a tollerare e che riguarda anche la mia bimba“.
     
    N.B. Questo è quanto successo a me. Un’altra persona può pensarla in maniera differente.
    P.S. Rammento molto bene le parole di Mario Giacherio, Filippo Gandolfo, Livio Siro e Silvia Metzeltin. Già allora ci meditai a lungo.
    Chi ha ragione? Come detto, ciascuno si dia la propria risposta.

  16. Tanto per tornare in argomento specifico, non ci crederete ma io sono “cercato”, fra le altre cose, anche per la tesi esplicita che ho riportato qui. Ovvero che chi si assume responsabilità morali, in primis verso i figli (ma ho già detto che può valere anche verso i propri collaboratori, es se l’unità professionale “vive” sulla mia persona e sul mio lavoro… cioè io rischio di lasciare i collaboratori per strada e con loro anche le famiglie…) dovrebbe arrivare da solo a rinunciare a quelle attività che hanno inevitabilmente un tasso di rischio più elevato. In montagna puoi divertirti lo stesso, cercando altre modalità. Se si parla di “scelte di vita”, anche questa lo è. E incontra “molto”.

  17. PAsini, mi rendo conto che lo scritto e
    senza il fornello consenta solo una comunicazione parziale e me ne dispiaccio.
    Non sono riuscito a spiegarmi. Ho reagito in maniera decisa di fronte ai toni e ai termini di quello specifico post, anche se in generale apprezzo la tua acutezza di analisi, anche quando non ne condivido gli esiti.  
    Il tema è certamente attuale, le riflessioni, ora come allora assai interessanti. Lessi il ” limite della vita” nel 1981, e lo trovai – proprio per vicende personali – un libro dolorosissimo ma anche rivelatore e davvero bello. Della stessa collna in quel peirod usci e lessi anche “La parete”, di gogna, altro libro che trovai per taluni aspetti molto “metafisico”…
    CErto che sarebbe interessante leggere il Gogna di oggi, anche alla luce della sua grandissima esperienza umana e alpinistica.
    Mi interrogo da sempre su questi temi, quello che mi piacerebbe è vederli svolti in maniera astratta, privi di alcuna valenza giudicante, in una dimensione meramente filosofica, come mi pare si pongano  gli interventi sopra riportati.
     
    E’ ovvio, che nelle reazioni, ognuno si porti dietro le proprie cicatrici e i propri dilemmi risolti e irrisolti, che hanno condizionato e condizionato, insieme all’età e all’esperienza il mio approccio ai monti. Resta il fatto che, a mio avviso, non vi sono risposte a certe domande. .
    Ma non un tantoalchilo, che è Nick che è totalmente  scherzoso e volto a irridere  la sottigliezza dei “ragionamenti” crovelliani (e allora forse era più indicato un tantoalquintale 🙂 
     
     

  18. Nessun regime è auspicabili. Non mi sono mai dichiarato a sostengo del ventennio e ho scritto milioni di volte, con ripetizioni che fanno soffrire il premiato duo Bertoncelli-Pasini, che essere di destra non significa, in modo stringente, essere sostenitori del regime mussoliniano. Fra fascismo (inteso come regime di Mussolini) e comunismo (vedi URSS) non ci vedo grandi differenze, entrambi contesti di una vita di “m” e quindi da fuggire in pari misura. Inoltre non credo che Cominetti faccia riferimenti al Duce nella modalità indiretta insinuata dall’altro fenomeno perché sono ragionamenti troppo fini per il primo. nonostante il mio fare autoritario che ad alcuni di voi mi fa associare al Duce, sono effettivamente cercato, ovviamente da chi ritiene che le cose che dico siano interessanti, ma tutti questi signori sono molto più numerosi di quanto possiate immaginare (invredibile dictu!)

  19. Untantoalchilo. Quindi tu pensi che quella riflessione di 45 anni fa fosse priva di senso? E che riproporla oggi sia inutile, anzi quasi quasi una istigazione  allo sciacallaggio? ps. il riferimento agli spesso banali discorsi post-funerale l’ho ripreso da Metzeltin e da alcune esperienze personali. Io penso che Gogna l’abbia ripresa perché ci sta riflettendo a che lui con i suoi interventi sul limite. Ho visto che ne ha appena fatto un’altro ieri ad Auronzo e magari sarebbe interessante se lo pubblicasse. Roba che scotta, non solo a proposito della montagna. Anch’io te lo dico da bivacco: sei sicuro che la tua reazione, con la sua carica emotiva aggressiva, non sia un po’ difensiva rispetto ad un tema che per te è caldo e coinvolgente e forse non così risolto “untantoalchilo” come ti sei soprannominato, forse non casualmente?  Ovviamente la risposta è solo tua e privata, visto che non siamo insieme in bivacco purtroppo, compreso”ma va in mona Roberto” ( o altre efficaci espressioni regionali) che potrebbe anche starci legittimamente e non mi offenderei affatto. 

  20. “Ribadisco che se scegli di assumerti delle responsabilità morali, che sono in primis verso i figli (e non sono solo di natura economica, ma proprio di “presenza” del genitore a 360 gradi nella loro sana crescita, passo dopo passo) dovresti saper RINUNCIARE  a quelle attività che inevitabilmente aumentano il rischio.”
    quali?
    spiegacelo, da istruttore, emerito, perchè continui con questa litania (inutile e vuota), che non ha senso.
    LA don quixote no e lo spigolo piaz al vaiolet si? La micheluzzi  al ciavazes può andare?
    qual’è il parametro che definisce quelle attività che inevitabilmente aumentano il rischio?. per te magari è a rischio anche passeggiare a pian dei fiacconi e per qualcuno è tranquillo il pesce. 
    Allora? cosa da confine ad tuo moralismo d’accatto che non riesci a frenare neanche davanti a due che non conosci  e non sai come sono morti? 

  21. “Siccome c’è gente che, sistematicamente, mi “cerca”, significa che viviamo in una società in cui la cacca di mosca ha un suo “perchè””
     
    Quanto a questo guarda che un qualunque spacciatore di quartiere e mooolto più ricercato di te.
     
    Non credo che chi ti associa al Duce lo faccia perché pensa che sia un sostenitore del ventennio (anche se ovviamente lo preferisci a un regime comunista), ma lo faccia per il tuo atteggiamento aperto alla discussione, per la tua intelligenza e propensione ad accettare le critiche o a considerare dati e fatti che potrebbero mettere in questione le tue ipotesi.
    Ipotesi che sai presentare con argomentazioni compiute e complesse, ma sempre attento a non offendere le sensibilità altrui.

  22. ./.la miglior forma di comprensione e rispetto è a mio avviso il silenzio.
    LA riflessione può essere oggettiva sulle cause, al fine di comprendere dinamiche da non ripetere; l resto è dietrologia inutile, quando non puro delirio da invasati alla Crovella che pensa di educare piccoli balilla alla sua moralità.
    Il tema era “un momento di riflessione sulla propria attività, sul proprio modo di vivere la montagna, o per lo meno un certo tipo di alpinismo, in un ennesimo tentativo di razionalizzare le cause, spesso inconsce, che determinano la loro scelta. ” 
    Cosa c’entra l’autocoscienza collettiva sul dolore di chi resta e la comprensione del perché uno è andato a morire?
    Cosa c’entra la didattica ciana con cui il sabaudo ci sta tritolando le palle da giorni?
     

  23. Pasini, te lo dico in maniera un pò brusca e diretta, come se fossimo a dormire su un monte (nei rifugi non vado più da tempo), non lo prendere come un attacco diretto ma è come mi rivolgerei ad un amico che bivacca con me se durante la notte se ne venisse fuori con il signore delle cime.
    per melassa emotiva intendo questo “Francesco, 43 anni, lascia due figli di 11 e 8 anni. Filippo, 36 anni, lascia una figlia di 2 anni. Entrambi nel pieno della loro carriera anche professionale.. fra compagni di corda dopo la sepoltura e aver cantato “Signore delle Cime”. 
    Cioè il richiamo ad aspetti strappalacrime e assai retorici, come di solito propongono i quotidiani locali dinanzi all’ennesima tragedia della montagna. 
    Ma su cosa vuoi riflettere? su cosa vuoi interrogarti? è il gruppo i autocoscienza sugli orfani /vedovi amici incolmabili dei morti in montagna?
    Non c’è una risposta, ho sempre trovato il silenzio, il rispetto e il non giudizio  le uniche reazioni di fronte a chi muore facendo un’attività che amava.
    Shit happens, e allora?, cosa vuoi capire?
    E’ l’eterno dilemma della vita dinanzi alla sua fine, che matura in chi resta. Cosa vuoi condivider quo sopra, su cosa vuoi confrontarti, sulla rimozione? sulla elaborazione del lutto, sull’anislisi del fatto se questi ultimi due saltati giù dalla Marmolada hanno riflettuto che lasciavano figli piccoli e una carriera nel pieno?.
    io lo trovo mero sciacallaggio mediatico;  in anni passati, quando ero un pò più giovane e irruento, qualche  compagno del soccorso mi ha dovuto portar via di peso perché non menassi il giornalista di turno che di fronte ad un sacco salma faceva domande e riflessioni analoghe.
    Quali riflessioni ho fatto di fronte ala morte in montagna? di volta in volta diverse, in funzione del mio stato di maturazione, di spiritualità, di incazzo, di dolore, ma è un fatto privato sia il mio dolore che la loro scelta.
     l’unica cosa che trovo intollerabile è ritenere di tirar fuori ragioni razionali o rompere i coglioni con riflessioni strampalate o, peggio, moralistiche. Come quello che all’inizio scriveva “non voglio giudicare i morti, ma…” (la peggior forma di insinuazione)
    ./.

  24. @73 Classica reazione isterica senza alcun fondamento di lucidità. Il solo fatto che continui ad associarmi al Duce conferma che non hai capito un belino della mia persona (non sono affatto un sostenitore del regime del ventennio, anzi, e ho più volte ripetuto il perché e il percome, ma non infastidisco ulteriormente il povero Bertoncelli- anzi mi pare si sia aggiunto anche Pasini). Mi limito a dire che preferisco di gran lunga la mia (apparente, perché è ovvio che non è così) nullità di cacca di mosca che  il becerume ideologico in cui si crogioli tu (e alcuni altri). Siccome c’è gente che, sistematicamente, mi “cerca”, significa che viviamo in una società in cui la cacca di mosca ha un suo “perchè”. Fattene una ragione.

  25. Untantoalchilo. Quello che io auspico è proprio il contrario della “melassa emotiva” che possiamo lasciare ai media generalisti letti da chi non ha esperienza di montagna. Su questi temi che ognuno ha affrontato e affronta se ancora operativo può essere interessante uno scambio di esperienze e di idee, emotivamente maturo, cioè intermedio tra lo sbrocco e la rimozione difensiva. Nella mia esperienza le reazioni al dilemma soprattutto dopo perdite e incidenti, propri o altrui, o eventi della vita privata, sono state diverse: c’è chi ha continuato, c’è chi ha smesso, c’è chi si è preso un periodo sabbatico, chi ha cambiato attività, chi si è “linitato”…..sono state scelte personali, indotte dal mix di ragionanenti ed emozini che ispirano le decisioni di noi umani, ma influenzate anche da ciò che si trovava sulle bancarelle all’ingresso del Circo nel corso del tempo. Questo sarebbe interessante approfondire, almeno per qualcuno. Proprio il contrario della melassa o del menamento del torrone. 

  26. A Crovella, ma ringrazia il Cai che ti consente di esistere.
    Al di fuori del Cai sei uno sfigato impresentabile ovunque. 
    La massima espressione del provincialismo sei tu, con i tuoi codici ottocenteschi già fuori luogo allora.
    Uno come te ha rovinato generazioni di umani, altro che cittadini maturi e responsabili. Gente che sta bene nell’ovile ma che appena esce fuori il lupo se li mangia.
    E le difficoltà tecniche in montagna non c’azzeccano niente. Se parliamo da uomini sei come la cacca di mosca a cui non sei mai riuscito a tenerti, ma questo è nulla a confronto del tuo sbraitare ideologico.
    Mi fai pena prima che morir dal ridere.
    Il tuo vorrei ma non posso spero sia d’esempio a chi in testa ha il cervello anziché lo scarpone vecchio che tu, e chiunque,  può aspirare a plasmare per soddisfare un ego da operetta. Ricordi il duce, uno sfigato. Ecco.

  27. Sul tema sollevato (anzi ri-proposto) pggi da Pasini, io non conosce le persone né voglio addentrarmi più di tanto nella dinamica dell’incidente. Ribadisco che se scegli di assumerti delle responsabilità morali, che sono in primis verso i figli (e non sono solo di natura economica, ma proprio di “presenza” del genitore a 360 gradi nella loro sana crescita, passo dopo passo) dovresti saper RINUNCIARE  a quelle attività che inevitabilmente aumentano il rischio. Anzi tale rinunce non dovrebbero neppure essere un peso psicologico,. sennò mi viene da pensare che le responsabilità non le hai assunte con maturità e lucidità. Ovvio che si può morire sull’autostrada o anche sul pianerottolo di casa o addirittura dentro casa, ma intanto se stai distante dalle attività ad alto rischio (alpinismo come qualsiasi altra), non te la vai a cercare, le grane. Queste considerazioni riguardano chi ha delle responsabilità morali (ecco perché considero “immorale” il violare questi principi, anche solo perché si snobbano i rischi). Viceversa se uno non ha queste responsabilità, il discorso sul piano etico cambia sostanzialmente.

  28. Caro Matteo, certe cose mi coinvolgono molto emotivamente. Sarà che con l’età si diventa più sentimentali o forse come ho già detto si ama ancora di più la Vita non solo la propria, nei suoi aspetti “eroici” e banali e si vorrebbe illusoriamente, come bambini di ritorno dallo sguardo ingenuo,  che tutti potessero vivere felici e contenti. In ogni caso sarebbe bello che qualcuno, più aggiornato nelle esperienze e nelle letture,  potessere riprendere questi stimoli di 45 anni fa riproposti da Gogna e analizzare se siamo ancora lì o se qualcosa oggi è cambiato nello spirito dell’epoca e nei nuovi protagonisti, attori, comparse e spettatori del circo della montagna. Basta però con i soliti scazzi che si ripetono sempre uguali come in un videogioco: Crovella e i quaranta babbioni. Per pieta’. 

  29. quanto la tema infradito-cannibali, a parte che mi pare ancora una volta che non abbiate compreso la traduizione più che centenaria del termine “cannibali” (cioè: non l’ho inventato io, si usa abitualmente), il tutto dipende dalla situazione. Se ti presenti alla prima del regio o 8peggio ancora) della scala, non credo proprio che ti facciano entrarese non hai un outfit adeguato. il che non significa il vestito di Armani, ma neppure jeans e infraduito. E chi “non caopisce” le situazioni è un inadeguato, ergo un cannibale (a prescin dere dalla montagna).
     
    Nelle serate di montagna, non è necessario il frac con cilindro come fece Preuss in una conferenza tenuta al CAI Torino verso il 1910. però una certa dignità s^. presentarsi in sandali da trekking lo trovo da sciamannati. A luglio ho fatto una presentazione di un libro in una nota località di villeggiatura. Sul tavolo dei relatoti c’erano anche due guide locali, sicuramente fra una giornata tecnica (quella appena finita) e una successiva altrettanto tecnica. tuttavia vederli in sandali da trekking mi ha fatto un po’ cascar le palle: mi sono apparsi davvero “pacu” (provincialotti, in dialetto torinese). Non dico che dovessero avere il frac, ma non vai a una serata, anche se modesta, ma cmq un impegno ufficiale istituzionale (dove tra l’altro rappresenti la Società Guide del luogo), “in ciabatte”. OI Se esci la sera e vai al bar a chiacchierare allora puoi anche farlo in ciabatte, in un contesto con una certa ufficialità e indiscutibilmente fuori luogo. Bastava in banalissimo paio di scarpe chiuse stile outdoor e risolvevano il problema.  Uno poi aveva i  sandali con i piedi nudi, ma l’altro con i calzettoni, dava l’idea del turista tedesco in spiaggia a Rimini. Sicuramente sono due fortissimi come alpinisti (certamente più di me), ma in quello specifico contesto li ho giudicati dei veri cannibali.

  30. Ho salito la Don Chisciotte nel 1986 assieme ad altri 2 amici. Sugli ultimi 2 tiri prendemmo una grandita sonora, un freddo cane. Meno male che non era un temporale con fulmini. E’ una delle vie più ripetute sulla sud della Marmolada , una delle prime ad entrre in condizioni, anche perchè non finisce per canali e camini, ma sul filo di un pilastro, quindi non ha il problema di un’uscita bagnata o peggio nevosa o ghiacciata come invece tante altre vie sulla sud.
    Cosa possiamo dire su questo incidente? Io penso che in questo momento non si debba dire nulla! Per rispetto di questi ragazzi e delle loro famiglie.

  31. Pasini, capisco, ma cosa c’è da dire purtroppo?
    Non credo siano stati imprudenti o mal preparati.
    Dovevano stare a casa?
    Dovevano fare qualcosa più facile?
    E se succedeva ugualmente?
    Non vedo molte risposte.

  32. @61 scusami, non voglio infierire, ma sei tu che, come al solito, non capisci. Se io utilizzo l’andar in montagna come strumento per formare una personalità seria e consapevole nella testa delle persone affinché siano cittadini maturi e consapevoli, tecnicamente non mi interessa un fico secco se poi gli allievi faranno il III grado i il 10 grado. Ognuno troverà il suo livello, in funzione del suo talento. A me interessa che siano cittadini maturi e consapevoli e ho già detto mille volte (Bertoncelli chiedo venia, ma vedi anche tu che è impossibile non ripetersi) che la formazione ideologica (cioè creare una forma mentis corretta nella testa degli allievi) aiuta a instradarli in modo corretto nella vita di tutti i giorni. io personalmente sono sempre stato molto più interessato a questo obiettivo, per cui l’insegnamento dell’alpinismo è “strumentale”, che all’insegnamento dell’alpinismo e basta. Ho sempre fatto così fin da quanto per un  giovane aiuto-istruttore ventenne, figurati adesso che sono stato sollevato dagli obblighi di insegnar il nodino X o la procedura Y. A scanso di equivoci, approfitto per dire che non sono io che, ora (nel mio attuale ruolo), “obbligo” le scuole a sopportarmi, ma mi propongo in questo speciale ruolo educazionale e sono sempre ben accettato e anzi spesso sono ricercato da scuole e Sezioni CAI.

  33. Pasini, senza polemica, ma a che serve tutta questa melassa emotiva?
    Mediamente quando accade un incidente è imputabile al 90% ad errore. La sfiga pura (non quella che conduce all’errore) è per mia esperienza diretta assai rara.
    Credo sia cognizione pacifica per  chiunque abbia frequentato  assiduamente i monti a buon livello
    Chi va a fare una via come don Quixote o si immerge a 40 metri o apre il gas in moto su per lo Stelvio sa perfettamente che ci può lasciare la pelle. Spesso per un suo errore di valutazione più che per il fato (che si tende a definire impropriamente di volta in volta montagna, mare o strada assassina…)
    é morale non è morale, doveva pensarci, è scorretto nei confronti dei figli, doveva anzi dare a far volontariato dalle carmelitane?.
    Ma a che serve una discussione simile? Cui prodest? 
    Chiunque di noi ha affrontato tragedie in montagna, talvolta anche molto personali, eppure ha continuato a scalare.
    per ragioni che sono tante quante gli esseri umani. Gli illustri autori dell’articolo hanno provato a dare le loro risposte, che sono in buona parte interessanti e motivo di riflessione. Soprattutto, a me sembra, ricche di diulelmi mia prive di giudizio. 
    L’esatto contrario di questa fila di commenti 
    E se mi dovessero cantare signore delle cime tornerò a tirare le coperte ai colpevoli per eternità…
     

  34. Mi domandavo se fosse apparso un nuovo quasi-clone…và che non sei messo mica tanto bene pure tu, però! 🙂

  35. Scusatemi ma l’emozione mi ha tradito e nel digitarlo ho storpiato il mio nome e cognome.

  36. Francesco, 43 anni, lascia due figli di 11 e 8 anni. Filippo, 36 anni, lascia una figlia di 2 anni. Entrambi nel pieno della loro carriera anche professionale. Certo poteva succedere ovunque, anche per strada o in casa. Ma è successo arrampicando in Marmolada. Fascia alta dei non professionisti. Senza sbrocchi emotivi o sensazionalismo,  ma il dilemma esiste, da sempre.  Eccome se esiste, soprattutto nelle fasi centrali della vita, le fasi più impegnative dell’impegno e della responsabilità su diversi fronti, vita e montagna. Inutile negarlo difensivamente. E va affrontato con pacatezza, umana comprensione, empatia e sincerità’. Senza strepiti e  giudizi moraleggianti. Da uomini adulti, maschi e femmine. Queste sono questioni cruciali su cui confrontarsi. Non le baruffe “gognotte” tra veneti, sabuadi e via cantando. Piccoli divertimenti e passatempi che passano in secondo piano quando la realtà ci ricorda che il gioco, ogni tanto, si fa duro. Riflessioni da fare, senza angosciarsi ma seriamente, non solo al bar tra amici e compagni di corda dopo la sepoltura e aver cantato “Signore delle Cime”. 

  37. “Chi si presenta a una sua “serata” vestito in modo inadeguato è un cannibale …Questa è la definizione generale di cannibale (inadeguato) nella tradizione delle nostre parti.”
    E perché mai? Se qualcuno deve parlare di tecnica o di storia dell’alpinismo dovrebbe venire in redingote e lobbia per fare piacere a te? Oppure pensi che se uno ha le Birkenstock le sue cognizioni in materia siano meno valide e la sua capacità di trasmetterle ne risenta? Oppure pensi che le tue dovrebbero essere più valide perché sei in giacca e cravatta…
     
     “me interessa che un mio allievo domani sia un cittadino responsabile, che si trovi un lavoro serio, che non sbandi nella vita 8no droghe, non scemenze, ecc), che formi una famiglia e che tiri su dei figli con cognizione”
    A te interessa definire e propagandare cosa sia un cittadino responsabile, cosa sia un lavoro serio e magari anche cosa si debba intendere per famiglia e cognizione, perché ti illudi di avere la risposta giusta per tutto.
    Per giudicare e affermare la tua illusione di superiorità.
     

  38. il vantaggio è che mi posso concentrare esclusivamente sui temi della formazione ideologica degli allievi,

    Prima, dici che a te non interessa se un tuo allievo fara il III° o il X°. Poi però parli  farmazione IDEOLOGICA. Qui siamo veramente di fuori.

    non abbia gli allievi sotto le grinfie

    Ma chi sei???

    un modo “sano” di andar per monti

    Perchè tutti gli altri istruttori, cosa fanno agli allievi?  Tirare le canne !!
    Dovresti darti una regolata quello che scrivi, e come lo scrivi!!

  39. Il fatto che, tra l’altro da relativamente poco tempo, io sia un “emerito” mi ha sollevato dall’obbligo di insegnar in prima persona agli allievi il nodino X o la manovra Y: lascio questi compiti ai miei colleghi più giovani che sono molto più capaci ed entusiasti di me. il vantaggio è che mi posso concentrare esclusivamente sui temi della formazione ideologica degli allievi, apportando contributi culturali, storici, ideologici. Il fatto che io non abbia gli allievi sotto le grinfie tutte le uscite poco rileva. nei mie interventi, i discorsi incidono su di loro sia direttamente sia attraverso gli input formativi che vengono recepiti da altri istruttori che poi agiscono sugli allievi. In realtà la mia attività didattica è sempre stata improntata a tale finalità formativa più ideologica che “tecnica”, fin da quando ho iniziato come istruttore, primissimi anni ’80 8avevo poco più di 20 anni). Come ho già detto mille volte (Bertoncelli pazienta, ma vedi ben che ripetere è necessario, con ‘ste teste dure), ancora oggi mi capita di incontrare per le montagne gente che è stata allieva 20 o 30 anni fa e che viene a ringraziarmi per aver insegnato loro un modo “sano” di andar per monti, un modo che li ha aiutati nel resto della vita e che ha permesso loro di coltivare una passione collaterale (quella della montagna) che dura per tutta la vita.

  40. Certo, confermo tutto quanto ho detto sul lockdown inteso anche  in senso lato (vaccini, greepass ecc) perché chi infrange le regole sbaglia, che sia un ministro zuzzerellone o la guida alpinisticamente capace. sta di fatto che mentre gli adulti corazzati hanno saputo fronteggiare gli effetti del lockdown, le generaioni giovani e giovanissime (liceali per intenderci) hanno dovuto fare i conti con una novità storica se4nza che la società fosse preparata anche solo a formarli nel fronteggiare tali difficoltà. Così come nessuna generazione prima di queste ha mnai dovuto fronteggiare gli effetti delerteri dell’isolamento che paradoissalmente deriva dall’iper connessione tecnologica (posso parlare con chiunque dalla mia cameretta e opercò non eswco neppure più dalla mia camneretta). Il “vuoto” che caratterizza le nuove generazioni è spaventoso, probabilmente è più accebntuato in realtà metropolitane, forse per questo sfugge a chi non bazzica quotidianemnte in realtà metropolitane. ma il prblema esiste eccome. La montagna è UNO dei mille strumenti per cercare di dare motivazioni ai ragazzi. “Fare” alpinismo significa anche utilizzarlo in quel modo, non solo praticarlo in prima persona.
    Chi si presenta a una sua “serata” vestito in modo inadeguato è un cannibale anche se ha fatto l’8 grado in Patagonia. Questa è la definizione generale di cannibale (inadeguato) nella tradizione delle nostre parti. Se tu ti comporti così, sei un cannibale (cosa peraltro che hai dimostrato ampiamente di essere), indipendentemente dalle difficoltà tecniche che superi in montagna.

  41. Rif.54.
    Voglio ricordare che Crovella era quello che difendeva a spada tratta i lockdown covidioti condannando chi andava a correre da solo nei boschi e che per lungo tempo ha sostenuto che NON FACEVA GITE con nessuno perché il suo essere titolato (ne avrei di titoli da darti) implicava l’avere responsabilità che in caso di incidenti l’avrebbero tirato in ballo rovinandogli la vita. Ma ve lo ricordate???
    È tutto agli atti, oltretutto.
    Anche che non sarebbe più andato in montagna ma che, anzi, si sarebbe dedicato a curare una vecchia zia.
    Mi tengo la testa con due mani.
    Ma sembra una commedia felliniana.
    Ma neanche il Truman Show…

  42. È che Crovella non riesce a spiegarsi come possa esserci al mondo qualcuno che va in montagna e non la pensa come lui.
    Siccome quei “qualcuno” esistono eccome e sono pure intraprendenti, curiosi, mostruosamente attivi e si divertono, questo lo manda in bestia.
    Io in jeans e ciabatte (non infradito, mai amate) ci vado OVUNQUE, anche a teatro, anche se tengo una serata (chiamarla conferenza mi sa di palloso) e mai nessuno mi ha giudicato per questo. 
     
    Infine, anche tra le guide alpine ci sono quelle emerite, molte di loro vengono ascoltate per la loro esperienza, ma mai nessuna si sognerebbe di rompere i maroni come il camerata sabaudo che con un colpo di reni è atterrato in piedi mentre tutti dicevano: il duce l’è spaccià, il duce l’è spaccià. 

  43. Crovella le tue intenzioni di creare degli ottimi cittadini, possono anche essere  apprezzabili. Anche se i tuoi sistemi educativi, mi danno da pensare.
    Detto questo, qui si parla di ALPINISMO!!!!! E non di metodo  Montessori.

  44. Termino con “assoluzione finale”. Spesso ho l’impressione che alcuni di voi riprendano i temi, a volte anche a distanza di tempo, e insistano continuamente come per prendermi per sfinimento, cioè con la speranza che a un certo punto io dica “ma sì hai ragione tu, basta che la smetti”, così assolvendovi, cioè legittimando le vs tesi. Invece con me siete cascati male: le vostri lamentele da tazebao maoista-leninista le pesto a mazzate e non sono il tipo che smette

  45. Cmq accompagno in montagna istituzionalmente quintalate di 18-20 enni  dal 1980 e ora, oltre a quelle volte in cui cmq mi affianco alle scuole, lo faccio in implicitamente in gite private, dove la gente gradisce aggiungersi proprio perché sanno che, a venire con me, si impara sempre, anche facendo una banalissima scialpinistica invernale.
    L’accenno ai giovani depressi e nichilisti non è riferito a chi mi gira intorno in montagna (quelli sono belli pimpanti e motivati), ma in generale alle giovani generazioni dei nostri giorni, perché hanno grossi problemi connessi al “vuoto” in loro lasciato dalla tecnologia, dagli effetti long del lockdown e dall’assenza di ideali (come invece avevamo noi allo loro età). Da educatore (e non da alpinista) mi preoccupo di compensare, nei giovani in generale, questo “vuoto” con del “pieno” e la montagna per alcuni, non per tutti, può esserlo. Questo concetto ha a che fare con l’articolo che si intitola “alpinismo e… scelte di vita”. Io appartengo a quella linea di pensiero per cui non indico (a questi ipotetici giovani disorientati sul piano esistenziale) la montagna come principale interesse di vita, ma mi pongo l’obiettivo di sfruttare strumentalmente l’andar in montagna come elemento per insegnare loro ad avere un approccio maturo e consapevole nel resto della vita, cioè nei risvolti che cerco di insegnare loro. A me interessa poco che un mio allievo, in un domani, da solo faccia il III grado o il 10 grado, oppure che faccia gite da 800 m D+ o da 3.000 m D+, o ancora che arrivi a sciare sui 55 gradi. A me interessa che costui/costei domani sia un cittadino responsabile, che si trovi un lavoro serio, che non sbandi nella vita 8no droghe, non scemenze, ecc), che formi una famiglia e che tiri su dei figli con cognizione. Queste sono le “scelte di vita” che io reputo infinitamente più importanti che andare semplicemente in montagna (magari ai massimi livelli) e però per le quali il saper andare in montagna (magari su difficoltà medie) ma con la testa sul collo è molto utile.

  46. O bertoncelli, ma nessuno litiga.
    talvolta lo scritto può apparire brusco, ma c’e sempre sotto un sorriso o, comunque nessuna attitudine litigiosa.
    rimane un gioco  :), tanto con il tetragono sabaudo mica ha senso stare a incavolarsi… è come prendere a testate il masso della fessura kosterliz (che però almeno una cosa positiva ce l’ha :D)

  47. Ragazzi, state buoni, se potete.
     
    Voi siete giovani e forti, ma sappiate che la vita è breve. Non vale la pena litigare sempre per “quisquilie e pinzillacchere”, come diceva un uomo saggio che ora non c’è piú.
    Ciascuno faccia e pensi e scali come meglio crede e sa.

  48. “Basta metterci buona volontà e si capisce”
    Certo Crovella, è ovvio. 
    E infatti tu non ci metti nemmeno la più pallida imitazione di buona volontà e continui a non capire per cui vedrò di essere un po’ più chiaro.
     
    Lasciamo pure perdere il “perpetrare”, il tuo pensiero si capisce benissimo lo stesso e potrebbe essere solo un refuso anziché maliziosamente inteso come voce dal sen fuggita (ma anche per dirla alla tedesca pissen höher als Arsch).
     
    Il problema vero, e confesso mi illudevo arrivassi a capirlo da solo, è: cosa mai ti porta a pensare che qualcuno, qui o nell’universo mondo, possa mai volere la tua assoluzione?!!
    Non sono sicuro tu focalizzi bene la figura patetica e imbarazzante, che automaticamente squalifica tutto quello che scrivi…
     
    Assoluzione!
     
     

  49. stai nuovamente inquinando la discussione con temi che nulla c’entrano con il contenuto dell’articolo.
    nessuno ha parlato di liberi tutti in questo contesto, nessuno ha espresso opinioni con una qualche connotazione politica, si è fatto esclusivo riferimento, per esperienza diretta e personale (Matteo, Benassi, io e non ricordo chi altri) alle ragioni che inducono ad andare in montagna e all’attuale approccio all’arrampicata delle nuove generazioni.
    Hai voluto infilarci dentro riviste osé e gente che si eccita, magari pensi di essere un figo spiritoso, e invece sono esempi che non c’entrano nulla e fanno pena. 
    Personalmente scalo in falesia una / due volte a settimana e almeno tre al mese in montagna e frequento una sala boulder. Talvolta mi capita di scalare con loro.
    Vedo parecchi ragazzi scalare anche per i fatti loro, non ho visto ne torme di depressi, né nichilisti, né gente che non sa quello che fa. E’ vero che ci inizia su resina ha timore di avventurarsi in montagna su vie tradizionali, anche se si tiene sul 7a, ma è solo questione di abitudine e forma mentis che ragazzi svegli e atleticamente preparati acquistano in breve tempo. 
    semmai oggi, rispetto a quarant’anni fa, vedo gente assai più consapevole della tecnica, dell’allenamento, che denota una costanza e una determinazione invidiabili
    Comunque  anche questo è tema che hai introdotto tu, sbrodolando sulla didattica chiana  per chilometri,  c’entra poco o nulla con l’articolo. 
    Sarebbe infine curioso capire, visto che sei passato dal “io accompagno gente di 18%20 anni su per i monti a quintalate” a “formo teoricamente e culturalmente perché non sono più operativo” ) c0n la consueta disinvoltura dialettica che adoperi ogni volta che ti mettono di fronte alla realtà, da quanti secoli non scali in una falesia o su una via in montagna, visto che hai inteso pontificare sui giovani alpinisti / arrampicatori.
    Buttarla sempre in caciara o in contrapposizioni noi/voi, liberisti/conservatori, comunisti/fascisti, morali/irresponsabili   serve solo ad azzerare il confronto.  
    macchetelodicoafaà
     
     

  50. tornando al tema “ripetitività, io credo che agisca un pregiudizio ideologico. infatti se io fossi uno dei tanti alfieri della filosofia “liberi tutti”, le mie sistematiche uscite della serie “montagna per tutti, andare sempre, fare qualsiasi cosa, rompere gli schemi, rifugi gratis, treni gratis, corsi gratis, fare a ogni costo è figo” ecc ecc ecc non solo non sarebbero percepite come “riopetizioni” ma innescherebbero una vera ola da stadio. Il fatto è che, salvo rare eccezioni, quelli che lasciano commenti concepiscono questo spazio web come un tazebao maoista-leninista, dove lanciare anatemi contro tutto ciò che è istituzionale, ovviamente iniziando dal CAI che è l’istituzione fatta persona nel mondo della montagna. Di conseguenza se sei allineato a quella posizione, vieni osannato, se ti contrapponi sei fischiato e, siccome non possono (dai loro stessi dettami ideologici) arrivare a chiedere la censura dei contenuti, spesso alimentano critiche indirette (ripetizione, lunghezza testi, verbi non perfettamente consoni e tutta ‘sta solfa) con la speranza di stroncare l’espressione di contenuti fastidiosi a tale manipolo.

  51. @43 Il primo verbo era evidentemente perseguire, può darsi che ci fosse un errore di battitura e il correttore è andato di sua iniziativa su un verbo non adeguato al concetto. Basta metterci buona volontà e si capisce. certo che se, invece, l’obiettivo è solo quello di cercare polemica, provocazione, ecc, ogni smagliatura viene strumentalizzata a tal fine. Ma i lettori non sono stupidi e comprendono.

  52. L’esser stato nominato emerito non pregiudica la possibilità di continuare a collaborare con la scuola anche con una certa sistematicità. E’ ovvio che la collaborazione che offro adesso è in termini di contributi culturali, storici, ideologici… Non avrebbe senso fare a sportellate con i mie colleghi più giovani per spiegare agli allievi l’ultima versione del nodino come da ultimo manuale CNSASA: quella la lascio agli istruttori più giovani di me, che certo sono più efficaci su quei temi. Ma i contributi di cui sono portatore sono altrettanto importanti, anzi!, nella formazione degli allievi, con i quali ho ancora occasioni di interfacciarmi regolarmente, cosa che peraltro ho fatto per decenni e decenni in modo diretto e sistematico, per cui ribadisco che “so” di cosa parlo. Anzi oggi sono richiesto dalle direzioni delle scuole proprio per questo altro tipo di contributo (non così diffusi) e non per spiegare agli allievi la procedura ARTVA o la progressione di conserva corta.

  53. “Il titolo di “Istruttore emerito” è un riconoscimento speciale conferito agli istruttori non più operativi che a giudizio della CNSASA abbiano operato meritevolmente per almeno 10 anni.”
    quindi tutta questa esperienza didattica giovanile, il polso della situazione, l’ampia e strategica visione con la quale perpetrare (oibo’ -LETT. verbo transitivo Compiere un’azione illecita)  obiettivi quali  il salvamento delle anime perse sarebbe curioso capire come e dove si svolge.
     

     

  54. Matteo. La ristrutturazione cognitiva è una tecnica usata dai terapeuti che adottano l’approccio cosiddetto “cognitivo-comportamentale”. Se la cosa ti interessa in rete trovi tutto. Ma oltre ad una tecnica è un processo naturale che mettiamo in atto tutti per gestire emozioni negative.  Semplificando il caso del mio gruppo giovanile che ho raccontato è un esempio. Un po’ sotto sotto vivevamo qualche senso di colpa e questo generava stati d’animo spiacevoli sotto traccia. Altrimenti ce ne saremmo sbattuti allegramente. Allora abbiamo cambiato la nostra “cognizione” cioè il nostro pemsiero in proposito: non stavamo perdendo tempo ma anzi investendo in qualcosa di utile per la causa che consideravamo il fine principale della nostra esistenza. Questo ha trasformato con un po’ di tempo il senso di colpa in orgoglio. Utilissimo dunque. Certo bisogna andarci cauti. Vale sempre il principio della modica quantità, altrimenti ristrutturando, ristrutturando un genocidio diventa un atto di giustizia e di prevenzione e allora il braccio armato si sente non un assassino ma un Angelo Vendicatore per conto del suo Dio e addio sensi di colpa se ammazzi anche un po’ di bambini. Adesso devo andare, ciao, ciao. 

  55. perpetrando gli obiettivi”
    “Altri lettori…vogliono quasi una mia assoluzione finale”
     
    Interessante scelta di termini…piuttosto significativa, ritengo.

  56. Sempre Bertoncelli: se la ripetitività dei concetti è fonte di fastidio, oltre al già “ripetuto” suggerimento di saltare a piè pari, il peccano accomuna diversi contributori, non solo il sottoscritto. forse l’unica differenza è che si “dividono2 il compito i 4 o 5, e quindi agli occhi degli altri appaiono meno martellantori, ma lo sono ugualmente, considerato la sistematicità in cui ripropongono tesi sempre uguali (il cui sottofondo è “ribellarsi a ogni forma di sistema costituzionale per sfogare proprie frustrazioni, infelicità e insoddisfazioni”). in più aggiungo: andando a cercare il pelo nell’uovo, neppure tu sei esente dalla critica di esser ripetitivo, quanto meno nel ripetere la critica a me che sono ripetitivo. Se volessimo sfrondare i commenti riducendoli al solo “valor aggiunto” rispetto a quanto già detto dalla stesso individuo, il 99% dei commenti, compresi i tuoi, sarebbero cancellati. Tra l’altro con un lavoro redazionale massacrante e costosissimo (in termini di costo opportunità di come Gogna investe il suo tempo). non capisco perché siate così infastiditi: prebndete i commenti per quello che danno. a me il 90% dei commenti mi fa ribrezzo, o per il contenuto o per lo stile o per la ripetitività. ormai, quando vedo il nigk o il nome, spesso salto a piè pari o sorvolo giusto per verificare se inseriscono collegamenti a me. Il resto delle considerazioni di certi individui non mi interessa minimamente e non ci perdo temo, neppure a criticare la ripetitività delle loro scemenze.

  57. Il cappuccino e maritozzo al bar la mattina sono certamente una bellissima cosa, ma una vita ridotta a soli cappuccini al bar forse un po’ meno.

    Sicuramente per essere felici a volte o spesso, bastano le cose semplici della vita.
    Ma godersi un tramonto o un’alba durante un bel bivacco in parete, credo possano regalare bel altre sensazioni che  un cappuccino o di un maritozzo.

  58. Bertoncelli: la tua critica è sicuramente propositivi, è vero che io sono un martellatore di carattere, ma sono felice di tale mia caratteristica perché, a fronte di qualche critica come la tua, questa mia natura mi ha permesso di andare avanti nella vita, perpetrando gli obiettivi che mi sono posto. A parte ciò, spesso mi accorgo che, qui, sono COSTRETTO  a ripetere i concetti e questo per due motivi chiave:
    1) alcuni  fenomeni “cambiano” nick e fanno finta di essere nuovi (o nuovi della chat specifica)  per cui si sentono legittimati a porre dei quesiti o delle obiezioni. se non rispondo, “insistono” come se il silenzio coprisse un mio punto debole. Le miei risposte tutte uguali annoiano i lettori corretti (che non ricorrono al suddetto giochino), ma dall’altra parte confermano la coerenza delle mie posizioni
    2) Altri lettori, pur senza arrivare al giochino del cambio nick (e di questa va dato merito), continuano a porre testardamente posizioni che io reputo infondate e/o sbagliate e vogliono quasi una mia assoluzione finale, sotto forma di mio silenzio. il tema CAI-caiani e soprattutto il tema Modello didattico del CAI sono i principali temi su cui si verifica tale fenomeno. Un esempio? ci sono alcuni che esprimono un approccio alla montagna che è in contrasto con il paradigma ormai consolidato (da 25 anni!) del modello didattico del CAI: costoro confondono la libertà soggettiva di scelta individuale con la coerenza che richiede esser coinvolti nel Modello didattico del CAI. Se ti piace un “certo” modo di andar in montagna, non è in discussione la libera scelta individuale di seguirlo, ma ci deve essere coerenza: non si può pretendere di stare dentro al modello didattico avendo idee contrastanti con tale modello. Invece si continua a sbandierare la libertà di pensarla come si vuole anche dentro al modello didattico del CAI. Siccome questo errore metodologico riemerge periodicamente, magari a distanza di settimane o anche di qualche mese, è necessario rimettere i puntini sulle “i”. Potrei farti mille altri esempi: cosa sono i cannibali? (c’è sempre qualcuno che lo chiede). Che cosa significa caiano? ( idem). in realtà il tema di fondo è che ai contrati al sistema istituzionale dà fastidio il sistema istituzionale nella sua totalità, compresi anche i risvolti con il mondo del CAI e suoi corollari. Molti utilizzabo questa piattaforma per “dare addosso” al sistema istituzionale nel suo complesso

  59. Roberto, credimi, anch’io ho avuto la mia parte di esperienze limite e mi sono posto delle domande e cercato delle risposte.
    Non ho idea di cosa sia una ristrutturazione cognitiva e del perché la mia risposta dovrebbe essere tale: a me pare una “strutturazione cognitiva”.
    E mi sembra la cosa più normale del mondo: si tratta di decidere (definire? scoprire? accettare?) cosa vale e cosa è buono per te, per che cosa la vita è bella.
    Il cappuccino e maritozzo al bar la mattina sono certamente una bellissima cosa, ma una vita ridotta a soli cappuccini al bar forse un po’ meno.

  60. ” sono allibito che vi siano alcuni di voi, specie se istruttori in attività, che esprimono posizioni che, a volte, si rivelano in contrasto con il Modello Didattico del CAI”
    Ma chi? Ma quando? Ma dove?
     
    Pensa piuttosto che la tua visione riguardo al modo attuale di andare in montagna (e in particolare di come ci vanno i giovani) è come minimo l’opposto di quello che è in realtà (almeno per l’alpinismo e l’arrampicata, come testimoniato da Benassi, me e altri)

  61. @ 31
    Carlo, conosco i tuoi articoli nel GognaBlog; sono tutti interessanti, specialmente i racconti di scialpinismo e quelli di storia o cronache di montagna. Perciò sono convinto che pure le tue lezioni al CAI siano stimolanti.
    Per quanto riguarda i contenuti, a volte concordo, altre no.
     
    Quel che invece disturba – permettimi l’osservazione – è ripetere i concetti per cinque, dieci, venti, trenta volte. Il che spesso causa fastidio oppure noia: è una reazione naturale.
    Tutto qui.
     
    N.B. Non voglio denigrare tanto per farlo. È una critica propositiva.

  62. Fra trivialita’ ed esperienze intense , ho un ricordo di tanti anni fa’.
    Brutto tempo , e noi , braccini, accampati poco sotto il Cosmiques.
    I due che erano con me li conoscevo poco , ed erano molto piu’ bravi di me , elicotteri della gendarmerie che continuavano a ronzare attorno cercando un ferito sotto i Capucin.
    .
    Non abbiamo combinato niente , ma il mio unico , banalissimo,  pensiero era : quando scendo da questo mare di ghiaccio voglio mangiarmi una fetta di anguria.
    Ci sara’ un chiosco fra Courmajeur e Aosta ?

  63. Matteo #20:

    Io sono ciò che sono perché vado in montagna.

    Bella sintesi.
    Io mi sento di dire che arrampico (e faccio altre cose, di cui “andare in montagna” è un sottoinsieme) perché sono ciò che sono, e non potrei fare altrimenti.

  64. Le mie posizioni personali, che qui possono apparire “radicali”, non sono in contrasto (anzi!) con la mentalità storica dominante nelle due citate scuole torinesi. La tradizione di un insegnamento serio e rigoroso nell’approccio alla montagna fa parte di entrambe ed è quindi condiviso da una ampia platea di persone. Le iscrizioni ai corsi si bruciano in un amen (adesso poi che si fanno on line… i posti – a volte 50, a volte quasi 100 a seconda delle scuole – vanno via letteralmente in due minuti) e questo dimostra che c’è una convinta domanda di quel “tipo” di didattica (seria e rigorosa). Per quel che mi risulta (attraverso conoscenze personali con istruttori di altre scuole, chiacchierate durante aggiornamenti LPV, visioni sul terreno quando incontro qualche scuola nelle uscite… ecc ecc ecc) affermo che l’intero mondo didattico CAI  sia orientato in quella direzione. Se parlo con colleghi di Genova o di Milano o del Veneto, i feedback sono all’incirca dello stesso tenore. Non parliamo dei documenti ufficiali CNSASA (circolari, manuali ecc) che anche loro confermano l’impostazione in essere nel mondo didattico del CAI. Per questo motivo, come ho già detto in passato, sono allibito che vi siano alcuni di voi, specie se istruttori in attività, che esprimono posizioni che, a volte, si rivelano in contrasto con il Modello Didattico del CAI.

  65. Matteo. Eh si…anche tu hai gestito il dilemma con una tua “ristrutturazione cognitiva” rovesciando i due poli del dilemma. Sai però cosa è successo a me? Ho apprezzato le triavilita’ e banalità della vita proprio quando sono state in pericolo. Sicuramente deve essere un fatto legato a certe esperienze minaccianti: hai presente uno degli episodi di Caro Diario nel quale Moretti racconta la sua malattia? L’episodio finisce con lui che va al bar alla mattina e si prende un cappuccino, un maritozzo e un bicchiere d’acqua e dice : “Come è bella la vita”. Succede che apprezziamo le cose proprio quando c’è il pericolo di perderle. Comunque la “ristrutturazione cognitiva” è uno stupendo meccanismo di difesa installato nel nostro genoma. Come sempre non bisogna esagerare nel suo uso per non perdere il contatto con la realtà e scambiare lucciole per lanterne. Ciao. Hai notato come la rissa sia più attrattiva di un pacato e sincero scambio di esperienze di vita  vissuta come succede tra compagni di corda in rifugio o in bivacco, la sera prima o la sera dopo? Così è. 

  66. 27) Fabio, le salite che hai elencato sono delle belle classiche, soprattutto il canale dei Carrubi alla Pania della Croce, sicuramente la più ripetuta tra queste. La traversata della aere cresta del monte Cavallo è decisamente estetica.
    In Apuane nevica sempre meno, e la stagione invernale è sempre più corta. Ma il fatto che non nevichi troppo per certi versi è un vantaggio. Le condizioni buone si creano quando c’è un continuo alternarsi tra scirocco e freddo. Allora la neve si trasforma e anche le pareti più rotte ed erbose ti regalano itinerari di alto interesse tecnico. Chiaramente dovrai piantare le lame degli attrezzi anche nelle zolle di paleo indurite dal freddo, la tenace erba apuana. Magari non ti potrai proteggere troppo, ma le lame piantate nelle indurite zolle (turf) sono ottime, danno sicurezza. Gianni Calcagno ci insegnò ad usare in queste zolle, i vecchi chiodi da ghiaccio warthog.   Al monte Cavallo sul pilastro a sinistra del classico canale Cambron c’è una via, di misto,  che abbiamo chiamato “DI TURF IN TURF” .

  67. Chissenefrega dei prerequisiti e dei titoli, come dice Pasini, altrimenti qui  parlerebbero sono in due-tre. A quei maniaci che hanno tempo da perdere per far ricerche nei siti delle scuole, dico che, se non trovate il mio nome, è perché il CAI mi ha recentemente nominato Istruttore Emerito (chiederò al webmaster di aggiornare il sito nella relativa partizione, così in futuro sarete tranquilli): https://www.caitorino.it/news/2024/03/14/tre-nuovi-istruttori-emeriti-di-scialpinismo/
     
    Tranquillizzo Bertoncelli che non solo non faccio addormentare nessuno, ma le mie conferenze e serate sono vivaci e stimolanti, con folta presenza sia di allievi che di istruttori. Infatti dalle mie serate giungono spesso spunti di riflessione anche per alpinisti/scialpinisti in pieno spolvero e quindi molti ci tengono a presenziare perché “da una serata di Crovella non torni mai annoiato”  (esplicito commento di un istruttore).

  68. “Ma la vita, questa vita così fragile, val la pena giocarcela per divertimento?”

    Ma questa vita cosi fragile, vale la pena di immolarla sull’altare del profitto?
    Ed è giusto o comunque giustificabile morire per lavoro?

  69. “Ma la vita, questa vita così fragile, val la pena giocarcela per divertimento?”
     
    Caro Roberto, io ho ribaltato la domanda: ma questa vita inconcludente, insensata e banale, val la pena di essere vissuta senza cercare nuovi orizzonti andando in montagna?

  70. Fabio ti dico il nome di una via di misto, bella e impegnativa che apprimmo al Colle della Lettera, parete negletta nel gruppo delle Panie, ma che d’inverno diventa un gioiello” GOOD BY 900. Dovresti aver capito che inverno era. 

  71. @ 25
    Alberto, che inverno fu?
     
    Le Alpi Apuane d’inverno sono molto capricciose: in genere o c’è troppa neve oppure non ce n’è. Per chi parte da lontano (Castelfranco Emilia) azzeccare le giuste condizioni è un terno al lotto.
    Con buon innevamento (anzi, ottimo) io riuscii a salire soltanto il Canale Sambuco al Pisanino e il Canale dei Carrubi alla Pania della Croce (quest’ultimo per due volte, di cui la prima da solo). La cresta sommitale del Pisanino assomigliava a quella dei Lyskamm: stretta e vertiginosa!
    La traversata del Monte Cavallo la tentai per due volte, ma ci stroncò la neve farinosa che arrivava alle cosce. Al terzo tentativo le condizioni erano perfette. E quando dico perfette intendo che servivano i ramponi fin sul sentiero. Dormimmo alla locanda della Iacopina, a Gramolazzo. Grande vigilia!
    Però durante la notte mi scoppiò un febbrone da cavallo. I miei tre amici partirono senza di me e tornarono entusiasti, mentre io agonizzavo a letto con 38,5°C (addirittura 39,5°C una volta rientrato a casa alla sera).
    Salii anche lo scivolo ONO della Bagola Bianca, con temperatura molto rigida ma con neve molle e quindi con scarsa soddisfazione.
     
    Ma queste sono storie vecchie di tanti anni. Oggigiorno nevica ancora lí?
    Da noi, sul Giovo e sul Rondinaio, la neve è sempre più effimera: a me piange il cuore quando penso a quelle meraviglie che stanno svanendo.
    Come dicono Roy Batty in Blade Runner e il buon Pasini nel GognaBlog, sono “lacrime nella pioggia”.

  72. Caro Bertoncelli, ci vuol ben altro. La tua citazione è un classico del nichilismo “passivo”. Speriamso che oltre al segmento brocchi e dilettanti di fascia alta magari intervenga raccontando la sua esperienza del dilemma qualcuno dall’Olimpo. Sarebbe interessante. 

  73. Parafrasando il titolo di un bel libro del Capo “Un alpinismo di ricerca” a me è sempre piaciuto aprire vie nuove. Sia su roccia che su ghiaccio e misto. E visto che le Apuane con le loro pareti dimenticate perche erbose e friabili, con l’insegnamento di Gianni Calcagno, avevano ed hanno tanto offrire per la scalata invernale, in un inverno particolarmente ideale per le condizioni che ti costringono a cogliere l’attimo , aprimmo ben 17 vie nuove oltre a varie ripetizioni. Insomma fissi in montagna, ma non si poteva lasciarsi sfuggire una simile manna dal cielo.

  74. “Quello che ho provato e visto nella lunga riabilitazione, (con me c’era un 35enne atleta di gare di sci alpinismo) mi ha scatenato da un lato un grande senso di fragilità e dall’altro un amore per la Vita, non solo la mia ma la Vita in generale, come il replicante di Blade Runner nella scena finale. […] Dite la vostra che ho detto la mia.”
     
    “La vita è come un’ombra che cammina; un povero attore, che si agita e pavoneggia per un’ora sul palcoscenico e del quale poi non si sa piú nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e di furore, e senza alcun significato.”
    Caro Pasini, visto che siamo entrati in ambito filosofico esistenziale, con questa citazione ho detto la mia.
    Basta per rovinarti la serata? 😀 😀 😀

  75. Aggiungo la mia testimonianza dal segmento “brocchi”. A differenza di Matteo mi è parso chiaro fin da subito che anche l’alpinismo “moderato” fosse pericoloso. Forse fui influenzato dal fatto che quando iniziai ad arrampicare negli anni ‘70 con un coetaneo, allora aspirante guida a Courmayeur, fummo coinvolti in un tragico incidente nel quale perse la vita  al Torrione di Entreves un suo collega : ma se è morto lui al Torrione di Entreves su una via di quarto qua bisogna stare in campana sempre. Memorizzai il messaggio ma senza mollare o rimuoverlo, negandolo e attribuendolo alla pura fatalità statistica. E questo mi rese molto attento, anche troppo, forse limitandomi (una scusa molta in voga tra noi brocchi).  Nella prima fase della mia modesta “carriera” ho vissuto il conflitto non tra famiglia e montagna ma tra montagna e impegno politico sociale. Nel mio piccolo gli stessi dilemmi della famosa lettera postuma di Rossa alla figlia. Come risolsi il dilemma? Con quella che gli psicologi chiamano “ristrutturazione cognitiva” non individuale ma di gruppo. Eravamo una piccola gang che si faceva chiamare per gioco “Polisportiva Pecchioli” (Pecchioli per chi è più giovane era il ferreo e spietato ministro degli interni ombra del PCI che colloboro’ con Dalla Chiesa nella eliminazione delle BR dopo l’omicidio Rossa). A chi ci criticava dicevamo che andare in montagna non significava sottrarre energie alla “emancipazione del proletariato” ma permetteva di sviluppare qualità utili per la causa. Una sorta di “scuola di partito” alpina, quindi che non ci rompessero i maroni con le loro lezioncine moraliste perché comunque alla domenica si andava a vendere l’Unita’. Mi vien da ridere (e anche un po’ da piangere) a pensarci oggi, di quali fossero i conflitti ideologici dell’epoca. Poi finiti gli anni delle fiabe di Cappuccetto “Rosso” ho accantonato il problema. Anche le mie due mogli (in sequenza non in parallello ????) non mi hanno posto più di tanto la questione, tranne qualche mugugno di routine compreso nella job description muliebre. C’è da dire però che non ho avuto responsabilità paterne. Qualche compagno di corda ha mollato dandosi alla bicicletta o al trail running dopo la paternità. La vera tranvata e’ arrivata due anni fa circa quando totalmente asintomatico mi sono ritrovato a dovermi operare al cuore.   Quello che ho provato e visto nella lunga riabilitazione, (con me c’era un 35 enne atleta di gare di sci alpinismo) mi ha scatenato da un lato un grande senso di fragilità e dall’altro un amore per la Vita, non solo la mia ma la Vita in generale, come il replicante di Blade Runner nella scena finale. Ma la vita, questa vita così fragile, val la pena giocarcela per diverttimento?  Mi dicono che è normale e che poi passa. Ho ripreso ma sono ancora molto cauto e ruminante. Dite la vosta che ho detto la mia. Sui giovani magari dopo. 

  76. @ Roberto Pasini
    Concordo , hai sottolineato quello che penso anch’io.
    .
    Io il rischio in attivita’ cerco di misurarlo , non mi nascondo troppo dietro famiglia e affetti , ma sono egoista : per una salita “esagerata” non voglio rischiare di abbandonare tutte le attivita’ fisiche che mi danno gioia.
    .
    E se le cose cambiano nel tempo , ti dico di si…
    Se una volta in moto o in auto , mi ingarellavo con tutti quelli che mi superavano , adesso ho visto passare vicino troppe storie che mi hanno portato a relativizzare certe pulsioni.
    .
    Per lo scialpinismo il discorso e’ ancora piu’ legato alle “condizioni” , quindi piu’ facile.
    .
     
     
     

  77. Io sono ciò che sono perché vado in montagna.

    Pasini, in questa frase di Matteo mi ci rivedo. E devo anche riconoscere a mia moglie che, invece di cambiarmi, come a tanti succede,  mi ha sostenuto. Proprio perchè sono quello che sono e non si capisce perchè uno dovrebbe essere diverso. Mica siamo degli attori.
    Nel dicembre del 1990 ho avuto una esperienza tragica. Un mio amico e compagno di tante scalate è morto assieme al suo compagno in montagna. Allora ero anche nel soccorso alpino,  ma comunque sarei andato ugualmente a cercarlo. Putroppo ho potuto solo riportare a valle un amico morto. E’ stato un momento molto difficile, avrei voluto smettere. Ma poi l’aiuto di mia moglie e la passione hanno prevalso e ancora oggi arrampico, vado in montagna, anche se al mio amico ci penso ancora, e tutti gli anni per il giorno dei defunti, con mia moglie, portiamo un fiore sulla sua tomba.
    Ho sempre cercato di fare un alpinismo per gradi, non sono un talento, ma sono un appassionato e ho praticato un alpinismo a 360 gradi. Ho fatto salite impegnative, ma ho fatto anche tante rinunce. Avrei voluto fare di più e adesso alla mia età mi rendo conto che certe salite mi sono sfuggite per sempre.  Pur sapendo che in montagna si può anche morire, non sono mai andato in montagna con il pensiero della morte,  sicuramente ci sono andato da persona prudente, cercando di impegnarmi in ascensioni che mi sentivo in grado di fare,  di gestire le situazioni pericolose, ma anche rinunciando se era il caso,  anche se ogni rinuncia brucia. Poi è chiaro bisogna mettersi in gioco, bisogna anche saper un pò azzardare, buttarsi, altrimenti certe salite non le fai.
    Penso che il tempo un pò ci cambi tutti, anche per motivi evidenti degli anni che passano e non sei più quello di prima, sia fisicamnente che psicologicamente, Non hai più la spensieratezza degli anni giovanili.
    Sicuramente i giovani di adesso hanno un inizio e un approccio diverso dal nostro. Noi abbiamo cominciato in montagna, molti di loro iniziano in palestra su un pannello di vetroresina con sotto un materasso. Noi andavamo al muro di cinta dei Salesiani ad allenarci.

  78. Pur se dal basso della mia broccaggine, sottoscrivo direi parola per parola quanto scritto da Alberto, con la differenza che se lui quando non arrampica si sente in crisi, io invece mi incattivisco e risulto insopportabile a chi  mi è vicino!
     
    Sul tema generale invece vorrei dire che mi pare che noi alpinisti “generici” ci si faccia un po’ troppe pippe.
    Primo, non è poi così facile lasciarci la pelle. Nella mia vita ho conosciuto (non sentito dire, eh) più gente morta a causa del lavoro o delle droghe che in montagna. Ma di gran lunga!
    Secondo. Mi rompe un po’ i coglioni ‘sta storia delle “scelte di vita” come scusa. E sempre le solite scelte, poi: famiglia, figli, lavoro. Ipocritamente sempre enunciati in quest’ordine, ma in realtà con il solo significato di “essere membri funzionali di questa società”.
     
    Io sono ciò che sono perché vado in montagna.
    Chi mi sta intorno, chi mi vuole bene lo sa perfettamente e non può che accettarlo, altrimenti non amerebbe me ma la loro idea di me. Io ho avuto la fortuna con la C maiuscola (e un po’ la bravura) di circondarmi di gente così.
    Del resto, le responsabilità sociali, il lavoro, ecc. me ne frega proprio niente (e spera apprezziate la mia automoderazione!)

  79. Benassi. Bella la tua testimonianza sulla passione di una vita, tuttora forte. Tu da quello che scrivi sei un apinista dilettante di fascia alta, quella fascia alla quale appartengono molti contributori del blog, intermedia tra gli amatori e i professionisti.  Come hai risolto il dilemma oggetto degli articoli ? O non te lo sei mai posto? Come hai reagito a certe esperienze magari tragiche? Sei cambiato nel corso del tempo? Pensi che oggi nei giovani che incontri ci siano approcci diversi? Se ti va di condividere, ovviamente in piena libertà, la tua esperienza potrebbe essere molto significativa. 

  80. certamente ce ne freghiamo delle credenziali, se non quando pretendono di fondare una deriva di oltre cento commenti su esperienze vissute quale istruttore che legittimerebbero  deduzioni assolute sullo stato della gioventù dell’arrampicata dello sci della spiritualità e della filosofia giovanile.
    Un pò di baruffa rimane comunque un gioco estivo, visto che l’estensore di quel note direi che si qualifica in autonomia già con quel che scrive.
    Temi  assai lontani, come giustamente rilevi, da quello iniziale.
    I testi della Metzelin, della Pecchio, di BAstrenta sono davvero assai lontani nel tempo eppure fondano riflessioni che, per l’uomo in quanto tale, a mio avviso non sono cambiate di molto e che, soprattutto, non possono essere incasellate.
    Temo che la conclusione sia che alla fine esistono tanti modi di andare in montagna (o per mare o per foreste o sottacqua)  quante sono le persone e il rapporto con il rischio diventi una faccenda talmente individuale e personale da essere incodificabile e incomprensibile.
    Lascerei stare il rischio istituzionale (da Guido Rossa ai magistrati esposti), poiché a mio avviso in quei casi  i fattori di condizionamento sono diversi 
    L’innalzamente delle competenze tecniche dell’allenamento, delle difficoltà, della visione ha allargato gli orizzonti di gioco (per professionisti e non) ma è plausibile pensare che le motivazioni di fondo non si discostino di molto da quelle di allora, poiché attengono a vicende che sono immanenti, quali il significato della vita, il rapporto con la morte, la spiritualità, l’avventura, etc.
    Certamente il professionista avrà anche fattori economici nella sua azione, ma tendo a pensare  che non siano quelli determinanti 
    Ognuno da proprie risposte, in base al proprio animo. 
    Se posso consigliare due letture, che tracciano profili individuali interessanti, diversi e attuali su questi temi indico Silvain Tesson “Bianco” e Della Bordella “la via meno battuta”. 
    Tutto il resto (indottrinamento, scuole di vita, etc.) è semplicemente fuffa. 

  81. Pasini, io non sono un alpinista professionista, ma ho dedicato e dedico ancora tanto tempo all’alpinismo. Posso benissimo affermare che l’alpinismo fa parte della mia vita, è una bella fetta della mia vita e che l’ha sicuramente condizionata. Ed ammetto senza timori, che quando non riesco ad andare in montagna, per un motivo o l’altro, mi sento in crisi. Sono un malato? Può darsi. Ma me fare alpinismo, facile o difficile che sia, piace. Ho avuto anche una compagna che non ha mai cercato di cambiarmi, anzi con lei ho fatto tante salite, stimolandomi nei momenti di crisi.
    Cesare Maestri disse che quando non fosse stato più in grado di fare certe difficoltà , avrebbe smesso. Io invece mi adatterò e continuerò perchè la montagna mi piace a 360 gradi. Anzi mi sono accorto che certe cose le faccio meglio ora che quando avevo 20anni.

  82. Francamente chi se frega delle credenziali di Tizio e di Caio. Le baruffe “gognotte”, nella loro ossessiva ripetitività, non producono alcun valore aggiunto, se non per qualcuno un certo divertissment quotidiano, leggeremente perverso oserei dire, anche se si tratta di una perversione minore e socialmente non dannosa. Il tema è davvero importante e stimolante e forse nei prossimi 100 commenti sarebbe utile tornare alla questione di partenza: alpinismo e scelte di vita, visto che l’alpinismo è un’attività che ha una probabilità di rischio decisamente superiore al gioco delle bocce, come ben sanno gli attuari delle compagnie di assicurazione che calcolano il prezzo delle polizze infortunio e vita. I testi pubblicati documentano come questo tema veniva affrontato negli anni “80, quasi 45 anni fa. Un altro mondo, in tutti i sensi, culturale, sociale, alpinistico. Oggi come affronta la questione il mondo dei praticanti e dei professionisti? Ci sono dei cambiamenti di atteggiamento e posizione in chi oggi è sulla breccia per mestiere o per passione? Come soggettivamente, ciascuno nel suo grande o nel suo piccolo, ha affrontato in passato questi dilemmi e come li affronta oggi, quando una vita è quasi ormai trascorsa? Come hanno influito le esperienze della vita, in montagna ma anche nel quotidiano? Si vedono emergere nuovi dilemmi o siamo sempre lì, tra Scilla e Cariddi? Forse un confronto di idee e soprattutto di esperienze su queste domande o su altre collegate ci arricchirebbe di più che non il solito “Fight club”. Qualche spunto, anche autobiografico, è già emerso e potrebbe essere ripreso e approfondito.

  83. @ 11
    Carlo tace perché si appella al Miranda Warning.
     
    Miranda Warning (o quasi)
    «You have the right to remain silent. Anything you say can be used against you in the GognaBlog.»
    «Lei ha il diritto di rimanere in silenzio. Qualsiasi cosa dirà potrà essere usata contro di lei nel GognaBlog.»

  84. E qui emerge uno che parla dei tempi che furono
    https://www.lastampa.it/montagna/2022/02/14/news/settant_anni_con_le_pelli_sotto_gli_sci_orgogliosi_di_essere_la_prima_scuola_di_scialpinismo_in_europa_-2855200/
    insomma, molto rumore per nulla… 
    in un blog dovrebbero rilevare le idee (che appaiono 3 da sempre e del tutto disancorate dal reale) e non le identità, salvo che l’interessato non banfi ripetutamente sulle proprie referenze e continui a riferire di avere il polso delle falesie, delle gite, dei pendii, delle cascate, delle sale boulder, della gioventù e – in senso piu lato- dell’intero universo criato (cit)

  85. Dice Bertoncelli:

    … se tu rifili ai tuoi allievi simili sermoni interminabili, ripetuti implacabilmente a tutte le lezioni, non è che poi questi pian piano cedono e si appisolano sulla sedia con la testa ciondoloni?

    Ma soprattutto: CHI SONO questi presunti allievi?
    (terza e, per quanto mi riguarda, ultima volta che reitero la domanda a Crovella, che evidentemente, e peraltro legittimamente, non vuole rispondere)

  86. Carlo, toglimi una curiosità: se tu rifili ai tuoi allievi simili sermoni interminabili, ripetuti implacabilmente a tutte le lezioni, non è che poi questi pian piano cedono e si appisolano sulla sedia con la testa ciondoloni?

  87. Crovella ti si è dimostrato che sul nulla sono fondate le tue impressioni sugli arrampicatori, dalle quali derivi le tue certezze sull’insegnamento, la vita, l’universo e tutto quanto.
     
    …adesso magari viene fuori che io sono il clone untantoalchilo di Crovella… 🙂

  88. c’è una connessione nei discorsi che facciamo, Il titolo dell’articolo è “Alpinismo e… scelte di vita”. Ve ne sono infinite, di scelte. Per la mia mentalità, io non potrei concepire l’andar in montagna incoerente con la mia visione dell’esistenza e il paradigma di valori che la sostiene. In particolare una montagna “scollegata” dal resto dell’esistenza è qualcosa che io vedo come malsano, morboso, una specie di droga interiore. Invece la montagna si deve inserire armonicamente nella tua vita e questo in qualsiasi fase esistenziale, dalla frenesia giovanile alla pacatezza della maturità. La montagna ci accompagna nel nostro incedere lungo l’asse temporale, se sappiamo vederla così. Coerentemente con tale mia visione derivano due corollari: 1) la montagna che fai deve essere coerente con le responsabilità che ti sei assunto, specie verso i figli, sennò diventa un qualcosa di immorale (ho motivato perché); 2) Se interessato alla didattica e alla formazione dei giovani, la montagna è uno strumento privilegiato per dare un contenuto al vuoto esistenziale in cui si imbattono le giovani generazioni, in particolari quelle dei nostri tempi per i problemi già indicati.

  89. @ 4 (che in realtà è il 104)
    “Io avevo scritto un intervento, credo bello e pertinente, ma era troppo lungo e il sito me lo ha cancellato.”
    Quindi ammetti di essere stato censurato perché logorroico! Ma la logorrea è una peculiarità del buon Krovellik!
     
    Ti rendi conto che – incredibile ma vero – avete un punto in comune? Forse due, magari tre. Magari mille.
    E io già vi vedo in cordata insieme, vicini vicini.
    😀 😀 😀

  90. Matteo, guarda che se scrivi queste cose poi ti dicono che sei un tantoalchilo che ha ceduto alle sirene dell’anonimato senza esserne capace … 🙂

  91. Che esistano infiniti approcci alla montagna è fuori discussione, che quelli, fra gli approcci, che non vi piacciano siano per definizione fondati “sul nulla” è invece la solita solfa di un certo “orientamento” (che va ben oltre la montagna) quando le cose dette non vi piacciono…

  92. In realtà l’articolo sono cinque articoli e dicono tutti cose diverse e qualche volta opposte, quindi non è certo facile rispondere ed è facile fare polemica.
    E con ciò? Dire cose diverse o discutere prendendo spunto dal post è lo scopo di un blog, credo.
     
    Io avevo scritto un intervento, credo bello e pertinente, ma era troppo lungo e il sito me lo ha cancellato.
    Non ho voglia di riscriverlo, quindi mi limito a polemizzare con chi è mosso da granitiche certezze fondate sul nulla…che era un po’ anche il succo del mio intervento: non esiste un modo morale o un modo immorale, un modo giusto e uno sbagliato di andare in montagna e fare alpinismo.

  93. Io la mia sull’articolo l’ho già detta 100 commenti fa’ , la riflessione su quali rischi correre o meno è una cosa molto intima , che non c’entra con il Crovella e forse nemmeno con la “passione”…

  94. visto che hai fatto 100 , ora fai 101 e dicci la tua. Noi siamo polemici, te invece quando mai…

  95. Sto proprio parlando di un certo stress (istruttori a carico di allievi di corsi di arrampicata) che vedo in falesia. ovviamente sto sottolineando gli episodi negativi, non sto assolutamente affermando che TUTTI siano così. Ma mi balzano ripetutamente agli occhi, quindi vuo, dire che il fenomeno è abbastanza diffuso. Tutto ciò non c’entra un piffero con il fatto che la gente sia cauta o numericamente rarefatta “in ambiente”.
     
    Il tema generale delle difficoltà esistenziali e sociologiche a carico delle giovani generazione attuali (a prescindere dalla montagna) è un tema sul tavolo, si leggono continuamente articoli e interventi quasi ogni giorno, per esempio c’è un articolo sul Corriere: https://www.corriere.it/cultura/24_settembre_01/social-l-adolescenza-rovina-ragazzi-oggi-sempre-connessi-quindi-depressi-angosciati-0783e332-6888-11ef-9aeb-f3c12d704d0d.shtml
     
    Giovani depressi ce ne sono sempre stati.  Non è quella la novità. La novità si incerta sulle cause: “dipendenza digitale”, isolamento, effetti long del lockdown, fragilità, senso di fallimento perché non tieni dietro al modello di successo proposto dalla società (belle auto, belle ragazze, belle vacanze…), ecc ecc ecc.
     
    Non è che una “sano” approccio (sereno e consapevole) montagna sia la soluzione strutturale per risolvere i problemi di depressione, sbandamento e senso di vuoto di TUTTA la gioventù occidentale, ma è un  piccolo contributo per quei ragazzi che si avvicinano lo può essere. iniziamo dal “poco”, piano piano affronteremo i grandi problemi.

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