Sul n. 9-10/1980 della Rivista del CAI abbiamo pubblicato una lettera di Mario Giacherio intitolata Un appello per la vita. Vi ha fatto seguito un’altra lettera di approvazione e sostegno da parte di Filippo Gandolfo, pubblicata sul n. 5-6/1981. Nello stesso periodo abbiamo ricevuto questo articolo di Livio Siro, che pubblichiamo insieme a una replica di Silvia Metzeltin. Si direbbe che gli alpinisti siano giunti una volta di più a un momento di riflessione sulla propria attività, sul proprio modo di vivere la montagna, o per lo meno un certo tipo di alpinismo, in un ennesimo tentativo di razionalizzare le cause, spesso inconsce, che determinano la loro scelta. Alla base di questo ripensamento vi è certo il ripetersi frequente di incidenti mortali, spesso fra i giovanissimi e il carattere stesso che ha assunto l’alpinismo di punta: salite in libera, solitarie, invernali solitarie, sci estremo, tutti modi di spostare più avanti il limite delle possibilità umane, che sempre più coincidono di conseguenza con il limite della vita, a un passo dalla Todeszone, la zona della morte.
E’ questo il titolo anche di un recente libro di Reinhold Messner (Il limite della vita, Zanichelli 1980); la domanda individuale si fa quindi coscienza collettiva. I due articoli che seguono pongono una base di discussione e di indagine partendo da esperienze personali, senza lasciarsi tentare da quelle spiegazioni psicoanalitiche di scarsa credibilità, tentate in passato, rispondenti sempre a schemi applicati dall’esterno e in cui gli alpinisti non si riconoscono (Redazione della Rivista del CAI).
Alpinismo e scelte… di vita?
di Livio Saro
(pubblicato su Rivista del CAI, luglio-agosto 1981)
So di toccare gli alpinisti molto nel vivo, nell’intimo, con queste righe. Ma non voglio farlo con aggressività: voglio prendervi per un braccio, costringervi a fermarvi, a fermarci, e a discutere.
Parlare di alpinismo, di scelte di vita, di morte, ci spinge in difesa: troppe sono state le saccenti Analisi Psicologiche che hanno sentenziato sul ruolo dell’alpinista schiavo del super-io o frustrato suicida; giudizi impietosi, ma soprattutto «estranei», che più che capire vogliono classificare.
Dietro le citazioni dotte, cui si ricorre in questi casi, c’è un banale ragionamento, che suona pressappoco così:
«Gli alpinisti se la vogliono; è molto meglio la certezza di una lunga vita al riparo dai rischi, che il cercare non-si-sa-cosa sulle pareti delle montagne».
Si dice cioè: la vita, magari anche solo per se stessa, è sacra e basta. Sarei portato a dire che non ci può bastare.
Eppure. Eppure da parecchio tempo sui giornali, anche su quelli specializzati, si parla troppo spesso di disgrazie in montagna, di soccorsi, di feriti, di morte.
Ricordi
La mia memoria recente, come quella di tutti noi, è piena di queste morti in montagna. Giorgio ci invita a casa per una serata di diapositive: l’attacco, l’arrampicata, la foto di gruppo.
«Quello è Mario, quello è Grongo (Enzo Cozzolino, NdR) — due mesi prima della disgrazia — quella è Paola, quello è Gianni, già, è morto anche lui, e quello sono io».
Andiamo avanti. Giorgio un mese dopo moriva in Civetta, dopo una notte di agonia in parete. Morto di freddo e dissanguato. Si parla con gli amici di una spedizione in Himalaya: «Ti ricordi il povero Luigino (Henry, NdR)? E l’altro che portammo giù vivo per miracolo?». Dei componenti di quella spedizione, una mia amica meravigliosa (Tiziana Weiss, NdR) cadde in montagna dieci mesi dopo; al rifugio dove la portarono mi dissero che il suo corpo «era come quello di un uccellino». Franco (Piana, NdR) è morto all’Everest.
Incontro per caso un sacerdote, sul corpo i segni della vita di un vecchio alpinista; parliamo di caccia, di fiori, di gioia, di cime, di «vie» e in breve (sarà per la vista di uno di quei muri di rifugio che, a forza di «immolatosi sull’alpe», di «nel supremo sacrificio si diede», di «nella lotta con l’alpe», si sono trasformati in ossari della montagna) con il prete non si fa altro che parlare di incidenti: «Celebravo un matrimonio, giù al rifugio, proprio mentre, lassù in parete, quell’altro poveretto finiva strangolato dalla corda. Pensa, nello stesso istante!» Continua: «Arrampicavano affiancati, tutti e due in libera. L’altro vide il fratello volare e sfracellarsi per trecento metri. C’erano solo le sue mani e i suoi nervi ad aggrapparlo alla vita. Con quella visione di morte nel cervello riuscì ugualmente a salire in vetta e a salvarsi. Sì, ma qualche mese dopo un’altra salita, sempre da solo. Lo abbiamo raccolto tutto in un sacchettino di nylon!». Perché tanti morti?
Il mondo non prometteva niente di meglio, a tutti questi nostri amici, che l’arrampicare, al prezzo della loro stessa vita?
Le scelte siano consapevoli
Soprattutto un pensiero mi tormenta: se chi fa questa scelta, la scelta di arrampicare duro e di rischiare forte, è consapevole. Perché credo che «la coscienza di sé» sia un valore enorme, non so, forse la ragione ultima della nostra esistenza.
E vedo fare tanta retorica attorno a queste morti, tanti ragionamenti a metà, vedo tanta incoscienza negli amici che iniziano o che continuano. Non c’è il coraggio di guardare la realtà a viso aperto; quando qualcuno cade, subito ci si informa sul «come» è successo e si cerca la spiegazione tecnica: il chiodo, il cordino. Per tranquillizzarsi. Mi accorgo che manca l’accettazione consapevole che purtroppo quando si arrampica duro, la morte è una probabilità statistica. Una probabilità molto, molto forte. Mi domando perché questi amici non cerchino un senso per la loro vita anche nelle azioni sociali, politiche, affettive, sportive, culturali.
Cerco di capire.
Lascio stare i libri; penso agli alpinisti che frequento, alla nostra vita, alla mia esperienza. Qual è la molla che spinge a rischiare? Trovo due risposte. Le do con modestia, ma le voglio dare. Cominciamo dall’atto stesso dell’arrampicare.
Due perché del rischio
Il rapporto uomo-natura e (non nascondiamocelo) quello uomo-morte nell’arrampicata è diretto, non sono possibili mediazioni. L’esperienza di chi fa roccia sul serio (tanto più se in solitaria) è quella di chi ha la vita nelle proprie mani; è il continuo atto di presunzione di chi non vuole ammettere l’errore umano: per un’ora, per dieci ore se apro le dita crepo o resto storpio. Tutto, assolutamente tutto quello che posso essere, volere o desiderare dipende dai miei riflessi, dalla mia forza, dalla mia calma. La vita di tutti i giorni è invece così complicata e così poco lineare: le nostre decisioni non sembrano sortire mai risultati chiari e sicuri. Il voto non pare provocare mutamenti politici, così è per le ore che spendiamo in fabbrica o in ufficio. I nostri stessi affetti vanno per il verso loro: nulla risponde più a regole semplici e mutabili dalla nostra sola volontà.
Credo che per l’alpinista arrampicare significhi inconsciamente tentare di restituire alla vita semplicità e forza di emozioni, una specie di ritorno all’antica lotta dell’uomo contro la fame, il freddo, le forze della natura, un ritorno alla lotta — in fondo — contro la morte, in un estremo rifiuto delle complicazioni: le guerre degli sceicchi, la vecchiaia, l’inquinamento, ecc. Lo ripeto, il protagonista non è più la vita, ma la morte; è con essa che l’alpinista dialoga salendo, è essa che gli fa sembrare l’alba in parete troppo bella, rispetto alla realtà, già così meravigliosa; è essa che gli fa sentire così pienamente lo scatto dei muscoli e così profondo il contatto con la roccia: perché potrebbero essere gli ultimi.
La seconda risposta alla domanda sul perché del rischio mi viene dai momenti passati con gli amici — mi capirete? — vedendoli parlare di «vie» e di materiali, leggere il libro di sezione, commentare i resoconti delle salite pubblicati dalle riviste o fatti pubblicare sul giornale cittadino.
Tra quelli che «vanno» in montagna molti hanno un soprannome, di tutti sono noti i difetti e i pregi più evidenti, i tic, le piccole manie e in più — settimana dopo settimana — dei più bravi leggiamo delle salite compiute, magari in solitaria, delle vie nuove… di quanto rischiano. Sarebbe ingiusto dire che ci si conosce solo per il coraggio dimostrato in montagna, perché non sempre chi rischia di più diventa il leader, ci vuole anche il fascino di una personalità forte, ma è certo che chi non arrampica «è uno che ha paura», «uno che non può parlare perché non ha mai sentito la corda penzolare nel vuoto dall’imbragatura». Il rischio insomma rientra dalla finestra come un battesimo necessario per venire accolti tra gli iniziati (non si valuta forse il valore dell’attività alpinistica del candidato per ammetterlo nei gruppi-rocciatori, sorta di super-circoli, all’interno delle sezioni del CAI?). Arrampicata e rischio e perciò confronto con la morte, di nuovo. Non cerchiamo di nascondercelo.
Il rischio è morale?
Sono un laico, ma al mio sacerdote alpinista ho voluto chiedere: «Arrampicare, arrampicare forte, magari in libera, è morale?». Mi ha solo sorriso, e poi, quando ci siamo salutati, mi ha stretto forte il braccio, quasi facendomi male. Se lo ricorderà, se leggerà questo scritto.
Perché per me chi arrampica sceglie inconsciamente di stare vicino alla morte, ad ogni appiglio, ad ogni nodo, ad ogni scarica di sassi. Perché, lo ripeto, statisticamente è provato che dopo tanta attività l’incidente arriva. Non voglio trarre banali conclusioni moralistiche, non voglio sostenere che non bisogna arrampicare duro perché si può — con forte probabilità — morire, no.
Voglio solo che questo sia chiaro per gli amici che iniziano o che continuano: arrampicare non è scelta matura di vita, ma tentativo di riempire il nostro vuoto con le sensazioni forti che ci dà il confronto diretto con la morte.
Se si decide che ne vale la pena, se si ha la presunzione di credere di scegliere consapevolmente il confronto con il rischio, ripeto «con coscienza di sé», lo si può fare. Ma che sia chiaro per Dio!
Ci sarà allora più facile sopportare la perdita di tanti amici. Senza il dubbio che non sapessero, di non averli — noi — aiutati a sapere.
La scelta di Messner
Lasciatemi fare ancora una considerazione. Accettatela come inizio per un dibattito, non solo come una provocazione.
C’è chi, partendo per l’Everest, aveva calcolato il rischio statisticamente e il calcolo è stato rispettato: è morto Franco Piana. Non era stato calcolato che sarebbe morto anche un portatore nepalese. Si può finire sotto una valanga durante una spedizione liberamente intrapresa (ma mi domando quanto tutti noi siamo liberi, oggi), oppure per guadagnare 1000 o 2000 lire al giorno e non mi pare la stessa cosa. Nel suo libro sull’Everest, Reinhold Messner accenna quasi in sordina al fatto che «uno sherpa scomparve in un crepaccio. Gli altri sono tutti guariti, anche quello che era rimasto semiparalizzato…». Quanto dire e non dire c’è in quel «uno sherpa scomparve… gli altri sono guariti»! In fondo, si tratta della morte di un uomo, morto sul lavoro.
Anche Messner, che pare aver scelto liberamente il rischio individuale, mostra qui di cadere nella tremenda contraddizione della civiltà moderna: l’uso dell’uomo da parte di altri uomini più potenti o più ricchi, uso che si verifica anche durante le spedizioni extraeuropee.
Il suo cercare anche lì le salite solitarie è una estrema dimostrazione di «coscienza di sé»? Arrampicare rischiando da soli, senza «usare» nessuno, rischiando il meno possibile la vita dei portatori, in un estremo confronto negativo con la morte?
Messner è l’idolo dei rocciatori moderni; vorrei almeno che la scelta di questo mito fosse consapevole, fino in fondo.
Io vorrei che tutti potessero scegliere le tante cose che la vita può dare. In montagna la scelta della via solitaria è possibile, il rischio può far sentire forti, protagonisti; nella vita vera tutto questo non serve.
Sì, alpinismo scelta di vita
di Silvia Metzeltin
(pubblicato su Rivista del CAI, luglio-agosto 1981)
Chissà se riuscirò a farmi capire con queste righe, con questa presa di posizione che mi viene sollecitata, quasi provocata, quando nei ricordi di Livio c’è il riferimento alle stesse persone scomparse, alle quali ambedue abbiamo voluto bene. Farsi capire con un articolo è tanto più difficile che con una discussione al tavolo, sotto il pergolo dell’osteria, dove abbiamo iniziato questo discorso, smarriti dopo un funerale. Eppure è un discorso che va fatto ogni tanto.
E’ vero che si discute già da un secolo sull’argomento, cioè sulla liceità del rischio e sulla migliore utilizzazione delle nostre energie apparentemente sprecate nell’alpinismo. Ma è anche giusto che ogni generazione si confronti di nuovo con il problema. Alpinismo come momento di riflessione: avrebbe già senso solo per questo. Non si possono nemmeno mettere a fuoco insieme tutti gli aspetti, che s’intrecciano in modo complesso nella vita di ognuno. Si può tentare con qualche tema. Proviamo.
La scelta
Penso che sia veramente una scelta, anche se avvenuta qualche volta solo per esclusione, qualche volta spinta da passionalità di cui ci sfugge il significato, per divenire poi maturata e meditata, per qualcuno anche sofferta. Comunque, è una scelta. Non una scelta di morte; piuttosto, semmai, una scelta di saper guardare in faccia alla morte, che è tutt’altro. La nostra cultura ha elaborato modelli di comportamento che eliminano la riflessione sulla morte. Ma la morte è una certezza per tutti noi, solo che la maggior parte della gente vive, o viene «fatta vivere», come se non dovesse mai morire. Muore anche chi non ha mai voluto accettare nessun rischio di nessun tipo.
Il rischio
Esistono forme di alpinismo con quota rischio elevata e con quota rischio ridotta, ambedue di alto valore tecnico-sportivo anche se diverse nel contenuto e nel modo di attuazione. E’ stata fatta spesso confusione in questo campo: non credo vi sia uguaglianza tra il concetto di rischio e quello di difficoltà. E poi, di quale rischio? Che importanza ha il rischio fisico nella nostra attività?
Può sembrare contradditorio, ma non amo il rischio fisico. Nella pratica alpinistica sono di quelli del cosiddetto chiodo in più, di quelli che si legano, come si suoi dire, anche sull’erba. Dovrei dire perciò che accetto il rischio più come idea che come realtà e in ogni caso faccio di tutto per valutarlo e tenerlo sotto controllo, perché non sia il rischio a gestire me, ma io a gestire lui. Penso che molti alpinisti siano come me.
Fra i due estremi della libera integrale senza assicurazione alcuna e il chiodo a ogni metro esiste una saggia «via di mezzo» che la maggior parte di noi adatta alle condizioni della montagna e di se stesso, senza dogmatismi e con un po’ di buon senso. Questo non elimina il rischio fisico, ma lo riduce a un livello normale. Quello che esiste in qualunque attività umana.
Il nòcciolo della questione è un altro. In un intorno sociale in cui siamo schedati, classificati, medicalizzati, fiscalizzati dalla nascita alla morte, iper-protetti in nome di un nostro ipotetico «bene», ogni tipo di rischio individuale consapevolmente accettato è un elemento ritenuto di asocialità e di disordine. Il rischio viene sventolato come un ricatto. Che l’alpinismo sia più pericoloso, non per la cassa in cui presto o tardi finiremo tutti, ma per i ragionamenti e sentimenti che possono svilupparsi ancora un po’ «in proprio» nelle teste degli alpinisti? Considerare il solo rischio fisico è una distorsione del problema. Nell’alpinismo vi sono altri rischi, altri prezzi pagati: certe emarginazioni, incomprensioni familiari, mancate carriere professionali e così via. E inoltre ancora il rischio di una strumentalizzazione dell’alpinismo stesso, che la collettività tenta di ricuperare — ma questo è un discorso a sé. L’alpinismo è una delle attività che mettono a nudo la scarsa tolleranza che hanno gli intorni sociali per i «diversi», e anche la subdola gamma delle loro tattiche di ricupero.
La vita non aveva niente di meglio da offrire?
Se su un piatto della bilancia pesano i rischi, sull’altro ci sono pure le ricchezze dell’alpinismo che tutti conosciamo. Qualcosa di meglio? Non saprei. L’alpinismo può essere una forma di vita ottimale, dipende dal quadro che gli vogliamo o sappiamo dare.
Nei generici «impegni sociali» che ci vengono spesso proposti quale alternativa nell’additarci come egoisti, nel colpevolizzarci nella situazione di marginali, di critici o di scettici, credo sempre meno. Ben pochi hanno le qualità e le convinzioni di un Guido Rossa. Gli alpinisti non sono un esercito di mancati Guido Rossa: sono individui molto diversi fra loro, nelle inclinazioni e nelle capacità, spesso assetati di spazi liberi e di autonomia.
Sono un po’ meno pigri e conformisti delle persone «normali» : cercano una propria via esistenziale. Nell’essenza, non è questa anche una testimonianza filosofica e politica? Mai come oggi, mi sembra, salvare qualche possibilità di libera realizzazione individuale costituisce un impegno importante. D’altra parte mai come oggi s’avvicinano proposte filosofiche e sociali e forme di vivere l’alpinismo. I bestseller di Bach e di Fromm hanno milioni di tirature e la maggior parte degli alpinisti si può ritrovare nelle loro considerazioni e forse anche nelle loro utopie. In questo quadro, la vita non aveva nulla di meglio da offrirci dell’alpinismo: una delle tante strade possibili, ma adatta alle nostre attitudini e al nostro carattere.
Il nostro «coraggio di essere»
Chissà perché, noi alpinisti ci lasciamo colpevolizzare abbastanza facilmente. Ma prendiamocelo il nostro «coraggio di essere»! Quando Nicolas Jaeger definiva eroi quelli che prendono la metropolitana tutte le mattine, ne era davvero convinto? Non è la retorica dell’antiretorica? Parigi non mi sembra così diversa da Milano e le facce di chi prende la metropolitana delle otto alle stazioni di Lotto o Cadorna sono così espressive di pallida rassegnazione e stanchezza esistenziale da escludere parentele con qualunque forma di eroismo. Anzi, quello squallore mattutino, così simile a quello descritto da Saint-Exupéry in una famosa pagina di Terre des Hommes, mi angoscia ogni volta. Eroi? Giusto ridimensionare eccessive velleità di riconoscimento degli alpinisti, ma giusto anche non alimentare l’autoinganno di quelli del metrò. Jaeger è scomparso nell’inaccessa parete sud del Lhotse. Rischio voluto, ponderato, accettato. Calcolo sbagliato? Sì, sbagliato e pagato. Ma quanto più sbagliato il calcolo di chi fatica tristemente e malvolentieri per un magro stipendio e per una pensione che non avrà mai perché muore di cancro a quarant’anni, magari dopo aver inconsapevolmente contribuito all’inquinamento ambientale che lo farà morire ben più atrocemente che sotto una valanga himalayana… Ci vogliamo pensare ogni tanto e non sempre contrapporre l’alpinismo «cattivo» alla «buona» vita quotidiana della maggioranza? I nostri calcoli di vita li dobbiamo fare noi stessi: non i dirigenti, non le autorità, non la pubblica opinione.
I «valori» possiamo sceglierli noi, perché in primo luogo siamo noi stessi a pagare per le nostre scelte. Ma non possiamo rimproverare all’alpinismo una tragicità che è intrinseca alla limitatezza temporale della vita umana e alla sua fragilità nell’assoluto.
Non è colpa dell’alpinismo se non siamo immortali. Muoiono anche coloro che non hanno mai visto le montagne, anche coloro che non hanno mai fatto un tentativo di dare significato e qualità alla loro vita. Le morti sono uguali, le vite no: è il tentativo che fa la differenza. Per me, è una differenza abissale. Amo profondamente la vita e non ho nessuna voglia di morire. Metto anche cinque chiodi in terrazzino se occorre e penso di saper tornare indietro dove non passo. Ma se un giorno mi arriverà in testa la pietra che non ho saputo prevedere o evitare, ebbene, almeno non avrò sprecato la vita e rinchiuso i sogni sul metrò delle otto. Capisci?
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Concludiamo con questo gruppo di lettere il dibattito sugli articoli di Livio Siro e Silvia Metzeltin: Alpinismo e scelte… di vita? pubblicati sul n. 7-8/1981 della Rivista del CAI. Con questi scritti non si esauriscono certo le argomentazioni pro e contro, che ciascuno porta in sé e che si potrebbero estrinsecare a sostegno di una tesi o dell’altra. Né si può pretendere di trarne conclusioni definitive: è un dibattito che può durare eternamente, perché le sue radici affondano nelle origini stesse dell’alpinismo e delle sue motivazioni più profonde. Era comunque un test che andava fatto, la cui necessità era nell’aria, in questo momento evolutivo dell’alpinismo e ci auguriamo che questo campione di opinioni contribuisca per lo meno a chiarire a ciascuno i “perché” del “proprio” alpinismo (Redazione della Rivista del CAI).
Alpinismo e scelte… di vita?
di Ottavio Bastrenta
(pubblicato su Rivista Mensile del CAI, marzo-aprile 1982)
… Terminato lo scritto di Livio Siro, mi sono detto: qualcun’altro ha finalmente il coraggio di rompere questo velo di omertà, questo silenzio colpevole del mondo alpinistico di fronte all’accentuarsi di un fenomeno allarmante non meno di quello della droga… Mi riferisco, lo dico subito a scanso di ogni equivoco, non all’alpinismo in genere, ma a certe sue forme esasperate che in questi ultimi anni hanno mietuto tante giovani vite. E parlo di una serie di fenomeni che vanno dal semplice arrampicare solo e senza assicurazione in palestra alla «grande» solitaria; da talune attività alpinistiche collettive, a certe spedizioni extraeuropee con mete e modalità irragionevoli.
Ma qui voglio replicare soprattutto allo scritto di Silvia Metzeltin, perché contiene affermazioni che sembrano giustificare qualsiasi forma, e quindi anche la più esasperata, di alpinismo.
Una prima considerazione: nell’articolo di Silvia Metzeltin manca qualsiasi riferimento a quegli «altri» ai quali ciascuno di noi è legato, non da una corda, ma dagli affetti, cioè al nostro compagno di vita, ai figli, ai nostri vecchi…
Neppure un accenno al dolore che la nostra scomparsa può arrecare loro e soprattutto alle altre conseguenze pratiche per la loro vita.
Quando ero istruttore della Scuola d’alpinismo Gervasutti di Torino, spesso prima della salita discutevamo — istruttori e allievi — di ciò che era per noi importante oltre all’alpinismo, a cominciare dai nostri cari che avevamo lasciato in città e ci interrogavamo sul nostro diritto di farli soffrire.
La consapevolezza da parte dell’alpinista «estremo» della sua scelta e dei tremendi rischi che comporta, di cui parla Livio Siro, deve essere allargata innanzi tutto alle conseguenze per questi «altri». Deve, se si sa amare e se si ha il senso del dovere. Altrimenti, naturalmente, si è liberi anche di morire.
Ma noi possiamo assistere indifferenti ad una simile conclusione?
Silvia Metzeltin ci propone una visione della società nella quale viviamo estremamente semplificata: da una parte la massa amorfa dei «normali», dei conformisti, di «quelli che prendono il metrò delle otto» stanchi e rassegnati; dall’altra l’élite degli alpinisti, «diversi fra loro, nelle inclinazioni e nelle capacità, spesso assetati di spazi liberi e d’autonomia», che trovano nell’alpinismo il meglio che la vita poteva offrire in quanto tra le «tante strade possibili è quella più adatta alle loro attitudini e al loro carattere».
Molte cose si potrebbero replicare a questa visione di Silvia Metzeltin. Mi limiterò qui solo a qualche accenno: molti dei «grandi» alpinisti sono tra quelli che prendono il metrò alle 8 (e ad altre ore meno comode); questa massa anonima di «normali» guardata così dall’alto è pur sempre quella che produce per tutti noi e quindi anche per lei quello che occorre per vivere (e per andare in montagna); questa società è ben poco protettiva e sa cavar soldi da ogni diversità; chi detiene il potere è ben lieto che individui potenzialmente «pericolosi» per l’assetto sociale esistente rivolgano le proprie energie verso mete innocue quali il sesso, la droga, il misticismo, l’alpinismo, ecc… Quanto alle «altre strade possibili» a cui accenna Silvia, lasciamo parlare uno che ha dimostrato di «saper guardare in faccia alla morte» non solo in montagna, ma soprattutto nella vita.
«L’indifferenza, il qualunquismo e l’ambizione che dominano nell’ambiente alpinistico (…) sono tra le squallide cose che mi lasciano scendere senza rimpianto la famosa «lizza» della mia stagione alpina. Da ormai parecchi anni mi ritrovo sempre più spesso a predicare agli amici che mi sono vicini l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza; un interesse che si contrapponga a quello quasi inutile (e non nascondiamocelo, forse anche a noi stessi) dell’andar sui sassi. Che ci liberi dal vizio di quella droga che da troppi anni ci fa sognare e credere semidei o superuomini chiusi nel nostro solidale egoismo, unici abitanti di un pianeta senza problemi sociali, fatto di lisce e sterili pareti, sulle quali possiamo misurare il nostro orgoglio virile, il nostro coraggio, per poi raggiungere (meritato premio) un paradiso di vette pulite, perfette e scintillanti di netta concezione tolemaica, dove per un attimo o per sempre possiamo dimenticare di essere gli abitanti di un mondo colmo di soprusi e di ingiustizie, di un mondo dove un abitante su tre vive in uno stato di fame cronica, due su tre sono sottoalimentati e dove su sessanta milioni di morti all’anno quaranta milioni muoiono di fame!…».
Inizia così la ormai «storica» lettera di Guido Rossa pubblicata dai giornali dopo la sua morte.
Un uomo eccezionale? Molti alpinisti hanno qualità simili alle sue. Lui aveva però certe convinzioni ed è stato «solo» un po’ più coerente di altri nell’applicarle alla prassi. Ma anche Guido aveva le sue contraddizioni. Scriveva queste belle frasi e poi ritornava ogni anno a salire quelle «lisce e sterili pareti» lungo vie di grande difficoltà. Ma alla fine ha pagato con la vita il prezzo delle sue convinzioni più profonde, lasciando un «segno» nel cuore ed una «traccia» nella coscienza di molti uomini. Tornando allo scritto di Silvia Metzeltin quello che più colpisce è l’assenza di ogni condanna delle forme esasperate dell’alpinismo. Sembra che l’Autrice ritenga che la scelta di qualsiasi forma di alpinismo, purché sia consapevole, sia lecita. Ella accenna al suo modo prudente di andare in montagna, non come al modo o ad uno dei modi ragionevoli (con implicita condanna di modi diversi), ma solo come ad uno dei tanti modi possibili di praticare l’alpinismo. Silvia non prende posizione sul problema del rispetto della vita. Eppure ha la capacità, l’autorità e soprattutto il dovere di dire chiaramente ai giovani quali sono i limiti morali dell’alpinismo. Perché ogni attività umana sensata (cioè «a favore dell’uomo») è soggetta innanzi tutto a delle regole: e la prima è quella del rispetto della vita. E un alpinismo «senza limiti» non può derivare da una scelta consapevole, ma da cause interne che nulla hanno a che fare con la ragione. Che dipendono da una disperazione esistenziale che deve far riflettere. Il problema centrale del dibattito non è quindi quello della scelta, ma dei limiti di questa scelta. Limiti sensati, ragionevoli. Limiti non certo imposti, ma proposti alla coscienza degli alpinisti.
Chi nel mondo della montagna sentirà il dovere di promuovere incontri-dibattiti, soprattutto tra i giovani, su questi temi? E i giovani avranno il coraggio di parlare?
Alpinismo e scelte… di vita?
di Maurizio De Bortoli e Roberto Nebuloni
(pubblicato su Rivista Mensile del CAI, marzo-aprile 1982)
Volentieri aderiamo alla proposta di dibattito costituita dai due articoli di Livio Siro e di Silvia Metzeltin, pubblicati sul numero di luglio-agosto 1981 della Rivista e riguardanti l’alpinismo come scelta di vita e confronto con il rischio di morte.
Nei due articoli, accanto a profonde osservazioni, ve ne sono altre che ci lasciano perplessi. Soprattutto non ci appare condivisibile la prospettiva individualistico-egoistica in cui viene affrontato il tema complessivo «valore della vita/rischio di morte». L’esistenza individuale appare assolutizzata in una mancanza di riferimenti — che sono invece parte essenziale di ogni esistenza vera e personale — e solo per questa premessa si può tollerare (come sembra fare Siro) che «il protagonista non sia più la vita ma la morte». In realtà la vita, anche se intesa — come fa Siro — come «coscienza di sé», non è l’assoluto; al contrario è stata posta da Altro e ne dipende. A noi compete viverla in pienezza: rischiando, certo, perché ogni gesto che consapevolmente compiamo comporta una scelta e un rischio, ma non per il gusto irrazionalistico di un’affermazione da superuomo, o per quello masochistico (e un po’ macabro) di un faccia a faccia con la morte.
Il «rischio» è una componente normale dell’esistenza «umana», anche di quella apparentemente più banale, ma non ha senso, ci pare, una scelta del «rischio di morte» in quanto tale; chi sceglie l’arrampicare impegnativo non sceglie di stare particolarmente vicino alla morte, ma sceglie un gesto di vita particolarmente pieno e gustoso, nella prospettiva di un proprio arricchimento. In molti modi l’uomo tende a ritrovare la verità di sé e l’alpinismo, come altre imprese umane che appaiono inutili e pericolose a molti, è l’espressione di questa sua ricerca, che è insieme ricerca dell’essenziale. Questo «cerca», consciamente o inconsciamente, la persona naturalmente e psicologicamente sana. Ci sentiamo perciò concordanti con la Metzeltin quando precisa di «non amare il rischio» e di «fare di tutto per tenerlo sotto controllo».
E giustamente la Metzeltin precisa ancora che, una volta prese le dovute precauzioni, «non dobbiamo rimproverare all’alpinismo una tragicità che è intrinseca alla limitatezza temporale della vita umana ed alla sua fragilità nell’assoluto». Ma anche nel contributo della Metzeltin la prospettiva individualistica prevale, evidenziandosi in particolare nella scarsa considerazione in cui viene tenuto il rapporto con gli altri (familiari, amici, società, ecc.) e nella punta di disprezzo per la gente comune, quella del metrò delle otto. Diceva bene Filippo Gandolfo su un precedente numero della Rivista (5-6/1981) che «è discutibile il discorso che ognuno è libero di andarsi ad ammazzare dove vuole, in quanto per lo meno lascia dei genitori in lacrime e l’opinione pubblica sempre più convinta che tutti quelli che vanno in montagna sono dei pazzi»; in altre parole: la nostra esistenza è fatta anche di rapporti, relazioni, dipendenze e noi siamo tenuti a dare un contributo attivo all’ambiente ed alla società in cui siamo inseriti e che molto ci danno. In certo qual modo noi siamo responsabili non solo di noi stessi, ma anche di quanti ci circondano.
Ciò può voler dire, in positivo, che l’arricchimento che traiamo dall’andare in montagna può poi rifluire nei rapporti che abbiamo con gli altri. Ma occorre guardare agli altri con simpatia e riconoscere che, in definitiva, la tensione umana che giustifica e spiega l’alpinismo può viversi anche prendendo il metrò delle otto. Il problema è, per ognuno, quello di non sprecare la propria vita, giacché essa ha un senso che ultimamente non determiniamo noi e che non ci consente di metterla a repentaglio inutilmente. Siamo chiamati ad un rapporto di comunione con ciò che è altro da noi e ciò può trovar realizzazione sia andando in montagna, che prendendo il metrò. Ed alla fine solo il sapere che anche la vita del nostro amico morto è nelle mani di un Altro può consolarci della sua morte, non il solo «sapere che sapesse» di cui parla Siro.
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Il pezzo che segue non è una risposta diretta alta domanda del nostro dibattito, ma vi si inserisce naturalmente e con forza, per le considerazioni che vi sono espresse e che vertono in sostanza sullo stesso tema, nascendo dall’esperienza sia alpinistica, che di lavoro quotidiano dell’Autrice (Redazione della Rivista del CAI).
Accostarci alle montagne
di Oriana Pecchio (medico di guardia ai Pronto Soccorso Ospedale Molinette di Torino)
(pubblicato su Rivista Mensile del CAI, marzo-aprile 1982)
Spesso entrando in un rifugio mi sono sentita intorno l’aria greve dell’alpinismo eroico e mi sono chiesta se non era questo un modo delirante di andare in montagna. Non è forse delirio di grandezza quello che spinge l’alpinista incompiuto ad alzarsi ogni ora per vedere com’è il tempo, per poi decidere che è troppo tardi per partire quando si è messo al bello, o gli fa venire il mal di stomaco tremendo, che lo blocca in rifugio, o gli fa trovare il compagno di cordata non alla sua altezza? Per fortuna i deliranti sono pochi, anche se bastano ad impedirti di dormire, dato il loro stato esagitato.
Per sfortuna sono ancora molti i «conquistatori», quelli che intendono l’alpinismo come lotta con l’Alpe, come se fosse una donna o un nemico e mi pare un alpinismo tipicamente maschilista e sciovinista quello che usa termini come «violare la cima» — «vincere la montagna» — «conquistare la vetta». Sono ancora molti quelli che pensano di essere una élite e si lamentano di funivie e seggiovie, perché hanno modificato non solo il paesaggio alpino, ma un modo di andare in montagna, sovraffollando i rifugi e le vie. Può essere esasperante pensare di mettersi in coda anche all’attacco della parete (!!!), è vero, ma è pur vero che i lamentosi che rimpiangono i bei tempi andati non hanno fantasia a sufficienza per spaziare su vie meno famose e classiche e se per loro «esperienza di libertà» non consiste nel condividere la libertà con altre persone, ma nell’usarla per sfuggire a loro (Lito Tejada-Flores: Sovraffollamento in montagna e viaggio intorno all’io), probabilmente non hanno né l’abilità, né l’intraprendenza sufficienti e necessarie.
«Accostarci alle montagne con un nuovo spirito, prima di tutto considerando come e perché arrampichiamo» suggeriva ancora Lito Tejada-Flores nello stesso articolo. Una risposta compendiosa, ma chiara, potrebbe essere: «Perché mi piace» e tutte le altre considerazioni diventerebbero una perdita di tempo (da riderci su, se fossero divertenti), ma io perdo così tanto tempo a prendere fiato tra un passo e l’altro che inevitabilmente mi viene da riflettere su ciò che vedo, provo e sento, quasi nel tentativo di spiegare a me stessa certe sensazioni, forse per fissarle nella memoria, forse per riviverle nel tempo.
Accostarci alle montagne, allora, per sentire il piacere di immergersi nell’armonia, per provare quanto sia bello accarezzare la roccia per cercare l’appiglio, appoggiarci la faccia contro per sentire il fresco quando la fatica fa sudare, aggrappatisi per vivere. Una sensazione: sul ghiacciaio, il sole che sorge da dietro il colle, il calore che mi arriva finalmente sulla faccia, i raggi riflessi sui cristalli di ghiaccio, l’ombra del mio compagno di cordata, la fatica come condizione fisica di diversa sensibilità percettiva. Hermann Hesse scriveva guardando un temporale a Sumatra: «L’ora era proprio lì, l’ora straordinaria attesa con pazienza da tempo. Stavo in piedi e vedevo nella bianca luce dei mille lampi la foresta vergine perdere il suo mistero e rabbrividire per una profonda angoscia mortale e ciò che provavo era sempre quella sensazione che avevo già sentito, infinite volte, osservando un crepaccio nelle Alpi, navigando un mare in tempesta, o mentre venivo stordito dalle folate del föhn che si abbatteva su una pista di sci, ma che non riesco ad esprimere e che tuttavia seguiterò sempre a cercare di rivivere».
Se le sensazioni sono indescrivibili e inenarrabili perché i confini del linguaggio scritto e parlato sono troppo stretti, non del tutto sono inesprimibili ed incomunicabili. Non si tratta di capire, ma di sentire e partecipare, di accettare l’irrazionale: l’amore, la vita, la morte. Il mio «salire» (senza miti puntisti, ovviamente) vuoi dire forzare la mia volontà e le mie capacità fisiche ogni volta un po’ di più, obbligarmi a guardare il vuoto perché il vuoto esiste, per cercare di superare l’angoscia e l’orrore della morte, rischiando un po’ o, meglio, correndo un rischio socialmente non accettato, adottando una sorta di pratica tantrica come Milarepa, che per vincere l’orrore della morte della madre, delle di lei ossa fece un cuscino su cui dormì per sette notti.
Il nostro modello di «normalità» è l’uomo sano e ci presentano la malattia e la morte come al di fuori della norma, eventi straordinari da nascondere e ignorare, anziché da accettare. Mi è capitato talvolta di restare a lungo su una cima (se il sole era caldo e il vento mite) e non avere più voglia di scendere. Non avevo angoscia di morte, come salendo non avevo paura di morire (anche se, forse, avevo quella di cadere), ma più salivo più mi sentivo attaccata alla vita e ancor più chiaro era che accettare la morte voleva dire accettare la vita. Tornare a valle significava tornare nei problemi, angosce, ansie, affanni routinari. La sensazione di pace era solo lì, senza corrispettivo nella mia realtà di vita e di lavoro; una nuova dicotomia? Finora sì. Sono e mi sento diversa quando inevitabilmente mi ritrovo nel mio quotidiano; ogni volta che vedo morire una persona giovane mi chiedo ancora perché: perché lei ha il cancro nel sangue o il cuore malato. Me l’ha chiesto anche la bambina qualche notte fa, perché doveva stare così male. Ho stretto i denti e respirato lungo per vincere l’angoscia e accettare: le ho sorriso a fatica mentre lei stava male e il dolore le dilatava gli occhi e le incurvava la bocca; le ho iniettato la morfina mentre continuavo a ripetermi che la realtà era quella, che la morte per lei era il problema pratico del momento dopo.
Non ho la soluzione, se non forse quella di continuare a «cercare» (e Siddharta insegna) e una via, una delle tante, può essere nel ritornare in montagna, per vivere nuove esperienze, per rivivere sensazioni, per sperimentare ancora me stessa.
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No Marcello, tra il dire e il fare c’è di mezzo “e il” [cit. Elio]
🙂
Molti pare di no….
Lungi da me voler censurare Expo, o pretendere che porga delle scuse, però sono d’accordo con Massimo (#59).
Il punto non è l’offesa verso Matteo (che sa benissimo difendersi da solo), ma l’uso della parola “mongoli” come offesa.
Tra il dire e il fare, c’è di mezzo (sempre) il mare.
Dell’acqua calda sei a conoscenza?
@ Alberto
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Parole piene di buon senso !
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Quello che mi preme dire e’ che troppo spesso per contrabbandare rischi enormi presi a piene mani , la gente dice che : ” In fondo Edlinger e’ caduto dalle scale di casa…” ,
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Ma sono cose che fanno a pugni con la probabilita’ e il buon senso : se mi metto a fare il pugile professionista o di MMA , so che prendero’ un sacco di cazzotti in testa e di concussioni , e la mia probabilita’ di sviluppare disturbi motori o morbo di Parkinson sara’ almebo 10 volte quella del mio compagno di briscola al bar.
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Pero’ nella vulgata popolare le due cose vengono date alla pari.
Non ti preoccupare Massimo, Espò ogni deve cambiare l’aria nella scatola cranica e quindi quando apre la bocca esce la puzza di marcio che c’è dentro.
E’ una misura sanitaria, non mi offendo mica.
Il confronto tra le difficoltà ed i rischi a cui si va incontro tra attraversare una strada in città e una salire via sul Nanga è abbastanza banale e anche senza senso . Mi sembra abbastanza evidente che sul Nanga ci siano pericoli ben maggiori, anche se attraversare le strisce pedonali dipende se sei in Italia, oppure in Germania. Diciamo che farlo in Italia è come salire una via sul Nanga costantemente esposta al tiro di seracchi.
Però nella vita nulla è scontato e il futuro è incerto per definizione (meno male). C’è chi ha passato quasi tutta la sua vita a rischiarla, e di brutto, professionisti o amatoriali che siano, poi quando ha appeso la “scarpette” o le “staffe” al chiodo, od ha parcheggiato la Ferrari, od ha riposto gli sci in ripostiglio, è scivolato sulla classica buccia di banana.
“Se trovi un buon insegnante per mongoli, studia ”
Qui mi sa che con la volgarità lei ha ecceduto.
Delle scuse sarebbero necessarie.
Un numero vicino a 100 sulla via di Nardi al Nanga , e vicino a zero sulle strisce pedonali.
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Se trovi un buon insegnante per mongoli, studia :”Teoria della probabilita’”
“Il rischio zero non esistera’ , ma il rischio esiste eccome , ed e’ un numero.”
Ah si? E che numero è? Giusto per sapere neh…
52) ma te guarda che c’è da sentire da uno che già per arrivare al rifugio, per mangiarsi la minestrina e spinaci essi, gli ci vuole tutta.
Il rischio zero non esistera’ , ma il rischio esiste eccome , ed e’ un numero.
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Chi dice che rischi sia attraversando la strada che aprendo una via nuova sul Nanga , quasi a parificare le due cose , non ha capito cosa e’ il rischio.
Crovella, i dilettanti amatoriali di oggi sono quelli che ripetono le vie che trent’anni fa erano considerate estreme, poi vanno a bersi la birra in centro.
Il rischio zero, te l’hanno già detto tutti mille volte, non esiste, quindi amatoriale o professionista non cambia nulla. Se non accetti il rischio te ne stai a casa e vai a giocare a bocce. Il resto sono cagate ai limiti del delirio che è meglio che tu tenga per te e i tuoi amici del Cai di Torino.
Sprecata la vita sul metrò delle otto? Vorrà dire che alla prossima emergenza sanitaria gli infermieri incroceranno le braccia perché stufi del metrò delle otto.
Anni fa ho sentito dire da un alpinista abbastanza noto che qualcuno è bravo a scalare gli ottomila mentre qualcun altro è bravo a fare il dirigente d’azienda. Ma c’ero già arrivato da solo a pensare che anche tra coloro che prendono il metrò delle otto ci sono persone che trovano soddisfazione, anche senza diventare dirigenti, nello svolgere al meglio il proprio lavoro che “magari” è anche utile a qualcun altro.
Dopo l’ondata dell’alpinismo spettacolarizzato degli anni Ottanta, a partire dai Novanta si è progressivamente consolidato un trend che, dal 2000 in poi, è diventato statisticamente dominante, fino a essere quasi la regola. il trend è il seguente: a differenza del passato, i progressi dell’alpinismo (inteso nell’accezione più ampia, dalle grandi pareti ai progressi nei “gradi” dell’arrampicata sportiva, dalla cascate sempre più eteree alle discese in sci sempre più ripide…) sono quasi esclusivamente appannaggio di persone che si dedicano a tempo pieno. ne senso che se non sono in montagna si allenano specificamente. In genere sono sponsorizzati, al massimo sono guide che (mescolando l’accompagnamento stile mandria ai programmi difficili con clienti di alto profilo) realizzano performance di rilievo. Ci sono, è vero, rare eccezioni di amatori che si muovono nel week end e viaggiano forte, ma sono eccezioni numericamente ridicole, inutile appellarsi ad esse: il quadro è profondamente cambiato rispetto ai decenni in cui noi boomer ci siamo avvicinati alla montagna. Non credo proprio che oggi l’elevata tensione che impera nel mondo del lavoro (per tutti, dall’affermato chirurgo al turnista in fabbrica), con gli stress e il nervosismo e le litigate ecc, tensione che brucia energie nervoce e mentali fino al venerdì sera (e qualche volta anche nel week end), al sabato mattina la mente sia serena e sgombra per partire sistematicamente (cioè OGNI weekend) a fare grandi imprese, sia vie nuove che ripetizioni. Ripeto: eccezioni di alpinisti amatoriali di altro livello ce ne sono, ma non sono più così diffuse come nei decenni passati. Quindi la stragrande maggioranza di chi, OGGI, va in montagna, è un “dilettante amatoriale” nel senso anche tecnico del termine, tendenzialmente un alpinista “medio” che va in montagna per rilassarsi e non per aggiungere ulteriore impegno a quello che la società attuale richiede (compreso il senso della famiglia oggi imperante). Inutile quindi ragionare su standard estremi che riguardano ormai una percentuale tendente a zero fra i “dilettanti”. Per l’alpinista amatoriale come l’ho definito, il discorso del rischio è veramente stupido: se vai in montagna per passare una giornata di relax, per ritempranti e ricaricare le energie mentali (in previsione di una settimana di stress che ti attende dal lunedì in poi), non ha proprio senso “andarsela a cercare”. Stare abbottonati è l’approccio più indicato. Questo a prescindere dalla presenza di figli, i quali accentuano ancor di più i ragionamenti esposti.
Appunto Crovella, parla per te che è meglio per te.
speriamo nevichi, così si fa un po di sana e completa arrampicata su misto.
Travolti da un insolito destino nel caldo mare di Agosto. Non a caso il protagonista, impersonato da Giancarlo Giannini, si chiamava anche lui Gennarino. Una coincidenza del destino che interrompe con un po’ di leggerezza un tema, quello delle passioni, soprattutto quelle pericolose, da coltivare, da controllare, da rimuovere, da equilibrare, da promuovere, da vivere….intorno al quale si tormenta da sempre probabilmente la nostra specie. Ricordo una mitica vignetta dei cavernicoli Flinstone nella quale lui usciva carico di passione e di prorompente virilità con la sua clava per catturare il dinosauro e la moglie Wilma gli diceva: “va bene, ma ricordati di comprare il latte”. Buona nottata, forse abbiamo svoltato stagione.
@ Pasini. Per me le due tematiche (1-quanto siamo disposti a rischiare, sia direttamente che come effetto indiretto sui ns cari, e 2-quanto e come dividiamo il tempo fra le attività) sono profondamente intrecciati. Ricordo ancora una volta che c’è una differenza abissale fra chi compie una scelta per la montagna di vita professionale e chi ci va in modo amatoriale nel tempo libero, portando avanti un interesse che dura tutta la vita. L’alpinista amatoriale, settore in cui mi situo io, non ha senso che rischi MAI, a maggior ragione se ha figli piccoli cui rischia di sottrarre la propria presenza (il cui risvolto economico è uno dei tanti, non l’unico). Ma aggiungo un tassello: se la passione oltre a farti sragionare (Seneca docet) ti rapisce alla vita familiare in modo massiccio (ho già fatto gli esempi, non voglio ripeterli), quella passione non è affatto un elemento positivo. Le passioni (tutte: dall’innamoramento al lavoro alla montagna) bisogna tenerle a debita distanza, trattarle sempre tenendo noi il coltello dalla parte del manico. fatti di cronaca di questi giorni dimostrano che un uomo travolto da una qualsiasi “passione” finisce a piagnucolare. Lo stesso vale per la cosiddetta passione per la montagna: va tenuta viva, ma senza farsi prendere la mano. E quando non riesci a staccare e un week end passato con i figli in bicicletta ti “pesa” perché ciò che vedi non è la bellezza di una giornata con i figli ma solo la mancata ascensione alpinistica cui hai rinunciato, bene quello è un importantissimo campanello d’allarme. Io sono profondamente convinto di questa impostazione, la adotto da che ho contezza e la insegno da oltre 40 anni. Non sarei credibile se insegnassi altre cose incoerenti. I feedback che riscontro sono positivi, in genere le persone che ho instradato alla montagna con questa impostazione, se ci incontriamo magari a distanza di 30 anni, in genere mi ringraziano. Non è mai accaduto che uno mi abbia detto: “disgraziato, io avrei potuto diventare il nuovo Messner e tu mi ha tarpato le ali!” per cui io dico: di necrologi dove si racconta che il tipo “non ha saputo resistere alla passione travolgente” ne ho letti a vagonate. Non ne vale la pena. in montagna ci si può divertire anche con morigeratezza (intendendo con questo termine il saper controllare la spinta interna). E’ un lavoro di punta e tacco: se strozzi troppo, si spegne la voglia di andar in montagna; se la sci troppa corda lasca, il volo può diventare incontrollato. Nel dubbio, filo corda alla passione, ma con massimo controllo
Pasini, funzionare funziona, ma sinceramente non vorrei vedere se funziona da morto. Saluti.
Cominetti. Quella che hai descritto è la tua soluzione. Se per te ha funzionato e funziona tuttora, va bene anzi benissimo. Magari qualcuno ne potrebbe anche trarre ispirazione: ma sai che il Cominetti forse ha ragione, è inutile farsi troppi patemi, un po’ di “sano egoismo” e anda. Non vale però per tutti. Altri potrebbero invece essere attratti dal “calvinismo” sabaudo e dal tranquillizante fascino del sacrificio e della rinuncia che li fa sentire giusti come il “Giusto” . È il bello di questi confronti: fanno emergere che una sola misura per le scarpe non vale per tutti i piedi. Poi bisogna stare attenti a che i piedi non si gonfino, non vengano delle vesciche o le unghie nere ed essere disponibili ad eventualmente cambiare misura se i piedi cominciano a fare male, ma è sperabile e auspicabile che una volta trovata la misura e il modello adatto a noi si possa andare avanti fino a fine carriera. A me non è successo putroppo e ho dovuto cambiare un paio di modelli e anche un numero in più e uno in meno. Roba piccola, non radicale, ma prima mi sono fatto un po’ del male e ho cambiato dolorosamente qualche unghia, e come è noto ci vuole tempo a cambiare le unghie nere. È andata così ma non mi lamento. Poteva andare peggio. Saluti.
Continuo a non capire. Forse non voglio.
Ma non mi sono mai posto in vita mia, se dovessi crepare, cosa farebbero i miei figli, mia moglie, i miei amici, clienti, parenti, ecc.Non mi sento di essere un incosciente, anzi, mi considero molto prudente e non solo in montagna, ma proprio non mi preoccupa cosa potrebbero fare gli altri, tutti, dopo la mia eventuale morte.
Pensare di avere responsabilità cos’ grandi verso altri la vedo come una forma di esagerato egocentrismo di cui, forse non sono dotato.
Mi direte che sono egoista semmai ed avete pienamente ragione. L’egoismo lo insegno anche ai miei figli, guai a non averne! Ma forse lo intendo in forma di sicurezza in se e autostima. E credo si possa essere estremamente altruisti praticando l’egoismo. Anzi, se tutti fossimo egoisti andrebbe meglio il mondo.
Vabbè, ora non andiamo fuori dal seminato che mi sa che c’è già abbastanza materiale sul rischio si e rischio no.
Il rischio più grande è quello di vivere.
Cominetti. La pesca alla trota o le bocce non c’entrano. Ho solo voluto allargare quello che c’è su uno dei due piatti della bilancia e che molti, io oserei dire tutti, in alcuni monenti della loro vita si sono trovati a pesare. Non solo i figli ma anche tante altre responsabilità e obblighi che si mettono in gioco, compresi quelli imprenditoriali, con maggiore o minore probabilità ovviamente a seconda delle attività. Sull’altro piatto, secondo le tabelle degli assicuratori anche lo sci fuoripista con l’elicottero o la speleologia sub non scherzano. Per non parlare del volo con le tute alari.
La questione si pone ai professionisti ma anche ai dilettanti. Anzi forse con più forza a questi ultimi proprio perché non possono contare sulla stessa preparazione fisica e mentale e sulla stessa consuetudine dei professionisti. Quindi sanno bene, da qualche parte del loro cervello, anche se magari non lo esplicitano, che rischiano di più. E poi, anche se gentilmente e con umana comprensione, qualcuno fuori dal giro gliel’ha posta almeno una volta nella vita. Sono dunque interessanti le storie e le considerazioni degli uni e degli altri.
Perché Pasini, i dipendenti si fanno problemi a lasciare libero il loro posto di lavoro in caso di morte se appassionati di montagna o di pesca alla trota facilitata?
Voglio ricordare l’incidente di Costigliola Rubicona in cui un pescatore rimase folgorato….col sole.
Di questo passo (mi riferisco ai numerosi commenti da dementi, inclusi i miei) non si potrà manco più scoreggiare per scongiurare pericoli di incendio domestico.
Si vede che oggi piove al nord. Qui da 3 minuti, cosi da avere avuto il tempo di fare una bella gita.
Ma dai…
Benassi. Intendevo mettere a repentaglio non la vita fisica degli altri ovviamente (a meno che uno abbia inconsci istinti assassini) ma la vita materiale ed emotiva dei propri “relativi” come si dice oggi, compresi i collaboratori ad esempio se sei un datore di lavoro.
quella degli altri, credo di non averla mai messa a repentaglio, perchè ho sempre cercato di fare le cose per il meglio, anche in situazioni evidentemente pericolose. O comunque in certe situazioni le decisioni prese sono state condivise, almeno con un compagno di pari livello e fiducia.
La mia vita invece qualche volta l’ho messa in gioco visto che un po di solitarie le ho fatte, anche se non tutte in free solo (come si dice oggi).
comunque le volte che mi sono fatto male i montagna non è stata per mia responsabilità diretta, quindi a volte è il fato/caso/sfiga/destino che gioca con noi.
Comunque gestire una propria vita intorno a una pratica alpinistica coerente e con cognizione, credo che sia più impegnativo che farlo avendo una vita lavoro-famiglia-vacanze. Fisicamente intendo, perché devi gestire tutte quelle cose “normali” come il lavoro, la famiglia, la vita sociale e l’allenamento con tutto quello che ne consegue. E non devi farti mancare nulla e non devi scendere a compromessi.
Senza adeguato allenamento (oltre alla preparazione in generale: fisica, mentale e attitudinale) non si pratica alpinismo ma si respira aria buona. Mi spiace, ma chi non è arrivato a queste conclusioni, non può capire.
Magari si diverte ma rischia tantissimo, probabilmente a sua totale insaputa. Lo dico perché lo noto spesso.
Quindi tutti i discorsi contenuti nell’articolo, cosi come i pareri nei commenti, hanno valenza relativa. Per fortuna.
Il tema oggetto di riflessione non era quello dell’equilibrio tra tempo dedicato ai propri “relativi” e tempo dedicato al lavoro o ad altre attività. Questione relativamente semplice da affrontare e risolvere. Era un tema ben più inquietante e ricco di implicazioni personali, conscie e inconscie. Quanto siamo disposti a mettere a repentaglio la nostra vita individuale prima di tutto e poi quella degli altri esercitando un’attività “ricreativa” che è classificata da tutti i venditori di polizze vita e infortuni tra le cinque più pericolose (in realtà non la prima)? Qui Rodi qui salta dicevano gli antichi. Le storie personali raccontate qui con sincerità hanno fatto emergere schemi mentali e emotivi con i quali ciascuno ha affrontato il dilemma nelle diverse stagioni della sua vita. Io ci ho trovato conferme di cose che avevo trovato in letteratura e rispecchiamenti di mie esperienze personali. Peccato per le solite deviazioni e per la relativamente ristretta gamma di testimonianze in merito. È stato comunque interessante. Speriamo che sui media di montagna o su questo stesso blog qualcuno riprenda con coraggio e onestà intellettuale quel dibattito degli anni ‘80 magari dando voce ai protagonisti che oggi sono sulla scena e che si trovano a vivere concretamente ogni giorno il dilemma in prima persona. Sarei curioso di capire se c’è del nuovo e quanto le trasformazioni dello spirito del tempo intervenute in questo quasi mezzo secolo hanno influenzato anche il microcosmo dell’alpinismo.
Gli impegni serali non sono solo quelli “lavorativi” in senso stretto (di chi accumula soldi), ma spaziano in campi diversissimi. A puro titolo di esempio, se uno è organizzativamente coinvolto nel CAI, ha almeno due sere a settimana impegnate: consiglio di Sezione, Assemblee periodiche, commissione rifugi, commissioni eventi, mille altre cose ecc. Non parliamo se uno è anche dentro all’organizzazione di (grandi) scuole: assemblee con istruttori (pre corsi e post corsi), aggiornamenti vari, riunioni di direzione (pre gita-post gita), grane varie. Ciascuno deve saper creare il giusto equilibrio fra tutte le sue cose (a partire dalle responsabilità morali verso i suoi) e la montagna deve essere adeguata al suo stile di vita.
“Gli individui maturi sanno prendere decisioni mature e adattare la propria fruizione della montagna”
Sarebbe una banale (e inutile) tautologia se non si risuonasse al fondo un pregiudizio ideologico.
Comunque quanto di più diverso si possa immaginare dall’onesta esposizione di una scelta personale.
Raddoppiando l’inutilità e esaltando il fastidio.
sai quanto c’è ne frega a noi della considerazione di uno che pensa solo a lavorare, accumula soldi, che poi ci penseranno i sui eredi a sperperare.
Evidentemente ci riferiamo a fattispecie diverse, molto diverse. Tuttavia va rilevato che le aree metropolitane, non solo di grandi città come Milano-Torino-Roma, ma anche di città medie e medio-piccole, genera presumibilmente il più elevato numero di frequentatori amatoriali della montagna. E’ lì che si può generare il cortocircuito che ho descritto (e che non ripeto). Gli individui maturi sanno prendere decisioni mature e adattare la propria fruizione della montagna alle altre scelte che hanno fatto. Per esempio condividere, nei week end, giornate in montagna con i figli è potenzialmente un felice compromesso. E’ chiaro che con un bimbo piccolo non è che vai a fare la Nord delle Jorasses…
Circa le scelte personali, sono troppo opinabili per trarne conclusioni oggettive: per esempio uno che non ha la “cissa” della montagna e che, invece, “ama” il lavoro (magari anche solo per quello che ne consegue: denaro, prestigio, potere…) molto probabilmente ti considera un coglione proprio per come vivi e per quello che esprimi.
Per farti capire mi esprimerò con parole che potrai capire.
Se per tutta la settimana rientri dal lavoro quando i tuoi figli sono già a dormire: SEI UN COGLIONE!
Non c’è scusante per chi lavora troppo. Non è una persona migliore di chi sa organizzarsi per lavorare il giusto. È un c-o-g-l-i-o-n-e.
Ritengo di essermi spiegato.
Dimenticavo ci sono persone che se gli togli il lavoro non sanno cosa fare. Vedono il lavoro come la loro una attività. Tanti di questi quando vanno in pensione si rincoglioniscono. Saranno immorali anche questi come certi alpinisti? Oppure questi sono giustificati?
Certo che è l’assenza in sé (e non la sua causa) che pesa sui figli, ma tu continui a non cogliere la sequenza, sistematicamente ripetuta, fra assenza lunedi-venerdì per lavoro-ufficio, cui si lega l’assenza dal sabato mattina alla domenica sera (magari anche dopocena) per “soddisfare” la passione alpinistica del genitore, cui si lega il lunedì mattina l’inizio di una nuova settimana lavorativa con annessa assenza per lavoro… Sto ovviamente esasperando i concetti, ma se non spezzi mai questa catena di assenze, l’assenza (del genitore) è una costante. A qualcosa si deve rinunciare: do per scontato che (purtroppo) non si possa rinunciare al lavoro, ergo bisognerebbe saper sacrificare il tempo per la “passione alpinistica”. Certo,. sono scelte personali, legittime, ma anche opinabili. Io mi situo su una posizione diametralmente opposta a chi osanna la passione alpinistica come superiore a qualsiasi altro valore esistenziale. La penso così da sempre e così insegno a gestire l’andar in montagna, non potrei essere credibile se dicessi cose contradditorie.
Se ti perdi gli anni dei figli, con la suddetta sequenza protratta a manetta, oltre a provocare un danno emotivo-educazionale ai figli, procuri un danno anche a te genitore: non c’è passione, neppure quella alpinistica più fulgida e incontenibile, che possa compensare il mancato “godimento” del condividere il tempo (libero) con i figli, step by step nella loro progressiva crescita.
Crovella, ma non pensi che al bambino non faccia differenza se il genitore è assente per lavoro o per altri motivi?
È l’assenza che sente. Non il motivo per cui non c’è.
Certo che sei proprio tanardo!
non è per tutti così. in tantj lo fanno perché nella vita non vedono altro che il lavoro sacrificando i rapporti familiari, altri perché sono dei fanatici, altri per sete di denaro e potere.
Precisazione aggiuntiva: ho già detto almeno 100 commenti fa che le GA, avendo fatto una particolare scelta professionale che coinvolge la montagna nel campo del “lavoro”, costituiscono un insieme statistico completamente differente dall’ampio comparto degli “alpinisti amatori”, cioè composto da chi lunedì-venerdì lavora in ufficio e poi sabato-domenica “sparisce” per una sua “passione” che non ha niente a che fare con il concetto di “lavoro”. io ho a che fare con persone (allievi, ex allievi, potenziali allievi) che appartengono statisticamente a questo specifico insieme statistico (peraltro molto ampio) e non ho cerco a che fare con il mondo delle GA, in riferimento alle quali mi guardo bene da esprimere valutazioni.
Per preciso ulteriormente che il discorso sull’immoralità della suddetta scelta (“troppo rischi in montagna a fronte di figli piccoli) può invece riguardare le scelte di alpinisti professionisti ma non GA, o quanto meno che in quel frangente non esplicano l’esercizio della professione di GA (intendendo per questo “accompagnare clienti”). L’alpinista al top, sponsorizzato, che va a tentare una cosa sconclusionata (come, a puro titolo di esempio, lo Sperone Mummery del Nanga Parbat in invernale) dal mio punto di vista è esecrabile, a maggior ragione se ha un bambino nato poche settimane prima. Ma le GA mentre accompagnano clienti i queste mie considerazioni non c’entrano nulla, perché tali GA stanno facendo un lavoro concettualmente corrispondente a quello che io espleto alla scrivania
Sei tu che NON cogli. il padre che torna a casa quando i figli dormono, lo fa (si rpesume) perché lavora e con il lavoro porta a casa ciò che consente a tutti di mangiare, dormire, stuidiare ecc. (Paretntesi: io parlo di “padre”, ma vale anche per “madre”, oggi le moglie-mamme contribuiscono al budget familiare spesso PIU’ dei padri). il punto non è l’assenza per motivi di lavoro. Il 2cattivo” padre è quello che, dopo una intera settimana in cui è tornato a casa quando i bambini già dormivano, che poi al sabato mattina “sparisce” per soddisfare la sua passione, tornendo la domenica sera (magari consentendosi pure una impiolata con gli amici post ascensione). per cui: lunedì-venerdì il padre non vede i figli per lavoro, poi sabato-domenica il padre non vede i figli per la sua “incontenibile” passione alpinistica. Ma che cazzo di padre è? oltre al danno sui figli, produce un danno su ste stesso. Non parliamo poi se, nell’ambito della sua incontenibile passione alpinistica, ci resta pure secco e a quel punto priva del tutto la famiglia della sua presenza…
Cmq, io ho fatto questa scelta di vista e non potrei né esprimere una visione diversa né tanto meno insegnare una viosione diversa. Anzi il fatto che sistematicamente incontro ex allievi che, magarti a distanza di decenni, mi vengono a salutare e mi ringraziano per aver loro trasmesso questi valori, mi conferma che la posizione è “sana” e soprattutto che nella base degli allievi c’è molta “domanda” di tale visione e relativamente poca (quasi nulla) di quella antitetica.
Suggerirei una rilettura collettiva de I Falliti di Motti.
Crovella 25, ma vedi che ragioni col paraocchi!?
Il padre che lavora tutta la settimana rincasando quando i figli piccoli sono già a dormire è tollerato, mentre quello che si dedica a una sua passione è uno snaturato. Sono schemi rigidi che non aiutano di certo ad avere una società serena.
Secondo il tuo ragionamento uno che fa il mio mestiere non dovrebbe avere/poter avere figli.
Io vedo che ne ho 5 che hanno tra i 20 e i 35 anni e mi sembrano sereni e realizzati. Lavorano, studiano, girano il mondo, parlano 3/4 lingue correttamente, fanno sport e hanno amicizie. Hanno avuto infanzia che tu guudicheresti sregolate, senza routine e con genitori impegnati in vari modi, baby sitter da mezzo mondo, ma la maggior parte dei giorni della loro infanzia i genitori, uno o l’altro, li vedevano ogni giorno. Non abbiamo mai messo il lavoro prima dei figli, come fanno i tuoi eroi, e non abbiamo mai vissuto per lavorare, e lo insegnano ai nostri figli, ma per le nostre passioni.
Avere una passione forte è dare valore e senso alla vita.
È una visione diversa dalla tua che sicuramente non invidierai, come io non invidio di certo la tua.
Le differenze sono ricchezza.
A parte che io “non impongo”, ma espongo tesi (è evidente che il solo esporre tesi antitetiche al mainstream dominante in un certo “ceppo” di lettori/commentatori è fonte di fastidio), sono convinto che uno stile di vita più semplice e spartano, non solo in montagna, sarebbe prerequisito di una maggior serenità generale. Mai come in questi ultimi decenni sta aumentando a vista d’occhio il ricorso a psicoterapie e psicofarmaci. Esagerando, dico che, se fossimo ancora nelle caverne, vivremmo con meno comodità, ma forse saremmo in media più felici di oggi. Ma questo esula dal tema. La domanda cruciale è: vuoi fare alpinismo “impegnato”? Fallo, ma sii coerente, scegli “quello” nella vita ed evita di coinvolgere altri, specie se figli piccoli, nelle conseguenze negative della tua “passione”. Anche senza arrivare alle situazioni drammatiche, un padre che non vede i figli durante la settimana perché lavora tutti i giorni, e poi “va via” ogni sabato-domenica per dar spago alla “sua” (del padre) passione alpinistica è un “brutto” padre. La dico senza girarci introno. La vita corre veloce e i figli te li trovi adulti in un amen. Se non hai passato ogni minuto possibile con loro, hai fatto un danno enorme a loro, ma anche un danno a te stesso. Infatti non c’è ascensione/arrampicata che giustifiche questi “danni”. Il tema c’entra eccome con il titolo “scelte di vita”.
Le scelte di vita sono strettamente personali. Crovella non deve continuare a imporre le sue come le uniche possibili.
L’umanità è quantomai variegata, fortunatamente, e i tre schemi crovelliani sono troppo pochi per inquadrare l’inquadrabile.
Le battute che sentivo alle medie, una ristrettezza intellettuale anacronistica anche per un gallina, le continue banalità, l’assenza di guizzi d’intelletto, la ripetitività e la continua ricerca di plauso da parte di chiunque (addirittura da suoi estimatori che per scelta non commentano sul gognablog pur leggendolo), la sbandierata infallibilità del Cai e del sistema e chi più ne ha…
Ci dimostrano un homo Crovellibus palloso, mitomane e inefficace con cui nessuno vorrebbe avere a che fare.
21. Se gli esseri umani ragionassero come te, abiteremmo ancora sulle palafitte o nelle caverne. Ulisse si sarebbe accontentato di zappare l’orticello di casa.
Fossimo stati meno intelligenti come specie animale, di conseguenza meno intraprendenti e spinti dal desiderio della conoscenza, il pianeta ne avrebbe sofferto meno, questo è certo.
Buon divano.
Bertoncelli. Chissa’ magari Messner, avvicinandosi gli ultimi tiri della via e ri-energizzato dal nuovo amore di cui ci ha tenuto tanto parlare pubblicamente, in questa riflessione sulla “Vita controvento” dice qualcosa di più interessante sul tema. Per lo stile si può contare su Luca Calvi, il traduttore. Lui con la levita’ acquisita negli anni veneziani riesce a rendere digeribili anche alcune terribili zuppe slave (Attenzione! Questa è un’inserzione di Pubblicità Progresso). Visto che hai fatto 30 potresti fare 31 e poi ci dici. Io i miei pochi neuroni rimasti attivi non posso permettermi, come Jeep Gambardella, di investirli in troppe direzioni e tantomeno nei videogiochi un po’ consunti dall’uso ormai pluriennale e questa limitazione mi fa soffrire ma l’accetto con laica rassegnazione.
Io i contributi nel merito li ho dati, eccome. 1-Chi vuol fare un certo tipo di alpinismo che, volere volare, implica elevati livelli di rischio, deve fare la scelta di vita di evitare altre responsabilità, principalmente verso i figli. E viceversa che chi ha messo al mondo dei figli dovrebbe autolimitarsi e rinunciare. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. 2-Ho anche detto un’altra cosa importante: che la montagna non è solo un “fine” per fare alpinismo, ma soprattutto un “mezzo” educativo per creare una forma mentis negli allievi e instradarli correttamente nella vita normale verso gli obiettivi che contano davvero nella vita. Apriti cielo. Il videogame scatta perché le cose che dico sono fuori dagli schemi degli alpinisti incistati ed estremi e li manda fuori di zucca.
Se sul Blog potessero esprimersi solo quelli che “sanno” di montagna ad alto e addirittura altissimo livello, il 99% dei commentatori non avrebbe diritto a lasciare neppure mezza riga. Per quel che conosco Gogna, non era sua intenzione creare un Blog di soli topclimber. Ergo può esprimersi chiunque, dallo scialpinista all’escursionista all’alpinista medio, e lo può fare anche su argomenti “severi” come questo. Il fatto è che, se poi un alpinista medio non inneggia al “viva l’estremo”, la cosa dà fastidio ai soliti quattro gatti spelacchiati, i quali per tacitarlo dicono “tu non puoi parlare perché non fai alpinismo difficile e quindi non sai”. Se non scattasse questa reazione, che è il vero cancro di tutto il problema, il videogame non si innescherebbe.
Concordo.
Roberto, possiedo 38 libri di Messner, tutti letti e riletti (dicesi trentotto, senza contare le copie doppie o le riedizioni).
Ebbene, ti dirò: lo riconosco certamente tra i piú grandi e innovativi alpinisti della storia, ma come scrittore è scarso (ancor peggio come fotografo!).
Il suo libro che apprezzo di piú è Ritorno ai monti, soprattutto nella prima edizione (Athesia), che si presenta in elegante veste editoriale ricca di fotografie. È un libro pieno di romanticismo, il che suona incredibile per chi conosca il personaggio, ma è davvero cosí.
Esistono poi alcuni suoi testi molto interessanti che riguardano la storia dell’alpinismo, per esempio Vertical e altri.
I racconti di spedizione (Everest, Nanga Parbat, Manaslu, ecc.) sono mediocri, l’uno uguale all’altro e di prosa banale, se non sciatta.
Per quanto riguarda altri temi, pure lí il livello letterario è insufficiente, tranne poche eccezioni.
N.B. Parere mio, eh!
E comunque Pasini, personalmente un paio di contributi nel merito li ho ben provati a dare, ottenendo anche qualche riscontro.
15) Pasini, te hai ragione, ma quando ci si sente dare continuamente del: frustato, infelice, sfigati, immorali, adesso anche spelacchiati (m’ immagino il Crovella che fa concorrenza a Bred Pitt), scappati di casa, ect. ect.
A tutto c’è un limite. E quel limite, nonostante Crovella abbia dichiarato di non essere immorale, l’ha superato con la sua arroganza.
Quindi se vogliamo confrontaci nel rispetto delle diverse opinioni, mi va bene. Ma se la vogliamo buttare nella rissa, a me i TANK (come si fa vanta di essere chiamato) non mi spaventano.
“l’idea che impera qui” in realtà alberga solo e unicamente nella tua testa.
In particolare le frasi che continui a ripetere come un fastidioso disco rotto “montagna che monda”, “montagna eletta”, “osannare come eroi omerici”, “liberi tutti” non le ha mai usate nessun altro (e nemmeno lontanamente ipotizzate) e sono frutto del tuo cervello convinto che il mondo sia solo quello che concepisce e debba esaurirsi in quello che fa lui. E che tutto il resto sia malvagio e sbagliato e un nemico da distruggere.
Fina ad arrivare all’assurdo che il propugnatore di #piùmontagnaperpochi addebiti come “colpa” ai “nemici” di volere “una montagna impegnata e impegnativa, riservata a pochi”…
Ma neanche su questo tema cruciale, che sono sicuro tutti hanno affrontato almeno una volta nella vita, si riesce a mantenere un minimo di focalizzazione e a non cadere nell’ennesima puntata del videogioco che veramente non interessa più a nessuno, tranne pochi ormai in preda alla ludopatia ? È davvero scoraggiante. Eppure basterebbe poco. Sarebbe sufficiente l’ascolto selettivo, grande risorsa. Nel frattempo è uscito l’ultimo libro di Messner,se qualcuno lo legge magari potrebbe riferire. L’uomo, pur con tutte le sue contraddizioni, ha avuto una vita intensa e spericolata come Rintintin e sul tema può essere che dica cose interessanti. Alziamo un po’ il tiro, altrimenti davvero non c’è nessun valore e diventa una perdita di tempo.
Bertoncelli: negli anni di piombo frequentavo il liceo. Per quanto possibile nelle facoltà di un 15-16-17enne, ho sempre combattuto apertamente con il terrorismo, sia rosso che nero. Non potevo certo andare io a mitragliare i brigatisi, ma con interventi espliciti (in infuocate assemblee studentesche con tanto di parata di gagliardetti della FIGC: il rapporto numerico era uno a 200) ho sempre avuto posizioni molto dure. non affermo certo che il problema del terrorismo sia stato risolto grazie al mio agire, ma sono sempre stato diretto e schietto, se tutti fossero così la vita sarebbe più semplice.
per il fenomeno meneghino: dipende da cosa si intende per montagna. l’idea che impera qui, di una montagna impegnata e impegnativa, riservata a pochi e come tale eletta a fattore che monda l’umanità dalle sue bassezze, è un’idea di montagna che riguarda quattro persone. Da lì derivano tutte le conseguenze: quelli che non sanno rinunciare alla montagna impegnata, nonostante le responsabilità morali assunte, sono da alcuni osannati come un eroi omerici, ma la maggior parte egli alpinisti normali li considerano come individui da non imitare… (eufemismo)
@ 11
Comunque, ragazzi, dite quel che volete, ma io non avrei mai sospettato che la guida alpina macho Marcello Cominetti, conquistatore delle vette patagoniche, in realtà fosse un “frocio” (parola sua; io non avrei mai osato).
Non c’è piú religione.
A questo punto ci manca solo che salti fuori che Krovellik è un ex fiancheggiatore delle Brigate Rosse e poi siamo a posto.
P.S. Chiedo scusa ai due menzionati. Marcello probabilmente non è un culattone. E mi pare – cosí, a naso – che Carlo non sia mai stato a capo di una pericolosa banda sovversiva di stampo marxista-leninista.
Gli interessati confermano le mie convinzioni?
😀 😀 😀
Magari sei un frustrato perché stai alla montagna come un mattone al nuoto e pretendi di compensare con la patacca.
Testina.
Crovella, ti ci vorrebbe un po’ di galera in India.
Firmato un frustratissimo no vax anti sistema comunista frocio e bandito.
Balengo, ma come è possibile che io sia un frustrato in quanto respinto dal sistema istituzionale, se ne sono parte integrante e apprezzata?
“Vi sono diversi personaggi che qui sul Blog sfogano le loro personali frustrazioni”
Contati pure nel gruppo, tu sei il primo che cerca di condurli col tuo passo dell’oca (e con questo non mi riferisco al passa da parata nazista).
Ah già: sorprenditi pure.
Vi sono diversi personaggi che qui sul Blog sfogano le loro personali frustrazioni, connesse al mondo istituzionale in generale e della montagna in particolare, da cui sono stati “esclusi” (o, per reazione, si sono esclusi) a vario titolo (di storie ne conosco a iosa). Ovvio che costoro sputano fiele “a prescindere” su tutto ciò che è “istituzionale”, a partire dal CAI (che è l’ “istituzione” fatta carne) in là (NO VAX ecc) e di conseguenza coinvolgono anche chi, come il sottoscritto, del sistema istituzionale (nel mondo della montagna come in quello della vita a 360 gradi) è parte integrante e apprezzata.
Siccome ho sistematici dialoghi personali con i principali esponenti della comunità dei torinesi appassionati di montagna, sarei sorpreso ad apprendere che individui che mi parlano con cordialità e interesse (spesso complimentandosi al termine di mie serate), vanno in giro a dare di me una considerazione negativa. Li ho visti per un evento, purtroppo triste, non più tardi di 10 gg fa e se io fossi da loro considerato un “appestato, inopportuno e rincoglionito” sarei stato ostracizzato e tenuto in disparte. Invece si sono svolti dialoghi sereni e anche di rispetto verso la mia persona, alcuni mi sono venuti a salutare: chiacchierando è emersa anche l’idea di trovarci prossimamente per “parlare di montagna”, se mi disprezzassero non lancerebbero questi inviti. Forse vale anche a livello cittadino la considerazione generale che ho esposto sopra: dipende da chi avete interpellato. Anche a Torino c’è magari un sottoinsieme di persone un po’ frustrate che mi vedono, per il mio ruolo di parte integrante nel sistema istituzionale, come il fumo negli occhi, ma rappresentano una risibile minoranza (quindi non rappresentativi dell’opinione largamente diffusa).
Ho conosciuto anche parecchi soci CAI e istruttori di famose scuole torinesi che hanno un’opinione di te simile alla mia, ma un po’ più forte, diciamo così.
Confermo.
Meglio che crogiolarsi nell’illusione che essendo solo-contro-tutti renda le tue opinioni migliori o ti dia una qualche patente di eccezionalità. O che essere istruttore emerito possa compensare tutte le tue altre mancanze e incapacità.
Pensa che io conosco persone che invece dicono l’esatto contrario (anche se a onor del vero usano termini molto più ficcanti di “scappato di casa” nel riferirsi a te).
Qualcuno qualche volta interviene anche, ma evita accuratamente di interagire con te
Ho conosciuto anche parecchi soci CAI e istruttori di famose scuole torinesi che hanno un’opinione di te simile alla mia, ma un po’ più forte, diciamo così.
Crovella ha ragione.
Io leggo spesso e commento poco.
Essenzialmente perché preferisco evitare di sostenere il suo (di lei Crovella) narcisismo che si pasce degli pseudo conflitti creati al fine di sentirsi prevalente.
Crovella sfigato, spelacchiato e frustrato ci sarai te e i tuoi accoliti.
Per quello che ho fatto io in montagna, sia a titolo personale, che come istruttore, e nella vita in generale, te a me, non mi leghi manco le scarpe!!
E visto che continuamente usi termini offensivi e cerchi la provocazione e la rissa, te lo dico sinceramente con me caschi male, per me poi andare AFFANCULO insieme ai tuoi amici, così vi fate compagnia e state belli caldi.
E ora Gogna può anche cancellare.
Alcuni di voi si crogiolano nell’illusione che, siccome su questa blog c’è il solo sottoscritto (o quasi) a contrapporsi con sistematicità alle vs. tesi strampalate, la visione del “liberi tutti” (sintetizziamola così, per semplicità) sia di stragrande maggioranza fra chi va in montagna. Beata illusione! E’ vero addirittura il contrario, persino fra i lettori abituali degli articoli qui pubblicati. Leggono e non si impegolano nei dibatti perché considerano inutile farlo con gente come alcuni di voi. Un mio conoscente, che legge quotidianamente gli articoli ma non scrive (per scelta) mezza riga, mi prende bonariamente in giro per il tempo che perdo con casi umani irrecuperabili: “ma che stai a battibeccare con ‘sti scappati di casa? E’ talmente ovvio che sono dei frustrati e infelici, in più sono quattro gatti spelacchiati in croce. La gente con la testa sul collo la pensa diversamente da questi quattro sfigati”.
Se la versione originale di Tricarico non fosse bastata:
https://youtu.be/PyYEVyU1y9g?si=o2gZ5RrFdqDa3ke7
Oooh yeah!
🙂