Metadiario – 137 – Brividi rovesci (AG 1986-003)
Volevo far conoscere a Nella l’ebbrezza dello scalare sulla puddinga, il conglomerato delle Rocche del Reopasso, terreno dei miei giochi pericolosi di gioventù. La via più classica, che avevo già percorso più volte, è quella che Emilio Questa aprì con Bartolomeo Figari il 30 ottobre 1904. E’ lo spigolo sud-sud-est della Cima Biurca Meridionale, che presenta un’arrampicata sempre delicata e in un punto particolarmente difficile e pericolosa, senza alcuna assicurazione. Proseguimmo salendo anche il famigerato diedro Ovest della Carrega del Diavolo, facendo quindi il pieno delle salite stupidamente pericolose. Da seconda, lo stile leggero di arrampicata di Nella le fece perfino apprezzare quella strana “prelibatezza”. Era il 9 giugno 1986.

Il mio stato di forma era alto, perciò avevo voglia di fare qualcosa di davvero impegnativo. C’era il vecchio disegno di una via nuova sulla parete nord-ovest del Pizzo Cavregasco, nella Catena Mesolcina. E c’era un nuovo amico, un compagno di merende di Marco Ballerini, che era desideroso di avventure: il lecchese Roberto Red Crotta. Con lui avevo già arrampicato qualche volta in falesia e mi ero legato sulla via Eisbrecher della Grauewand nel 1984. Forte e affidabile, simpatico e veloce. Esperienza di aperture in montagna zero, ma quella ce la mettevo io…
Partimmo ancora al buio dalla Val Bodengo, era il 28 giugno 1986: avevo un ricordo vago di quella parete, più che altro intravista scalando sullo sperone ovest. Ma confidavo di trovare almeno un modo per salirla, prevedendo già un po’ di zig-zag tra i tetti che ricordavo. Nel lungo accesso alla parete scambiammo poche parole, chiusi nella nostra buia solitudine. Ma quando l’alba fece schiarire le cime circostanti, mentre la visuale si apriva finalmente sulla parete, Red si profuse in esclamazioni di sorpresa. La cosa che più lo colpiva era l’esistenza di una tale parete di un totale di 700 m in un gruppo di montagne vicino a casa sua del quale non sapeva nulla.
Nella risalita dell’estesa ganda che da Corte Prima 1540 m porta verso sud-est all’attacco, decidemmo di fare il nostro tentativo nel settore destro della parete, sul pilastro che fa capo alla Q. 2313 m dello spigolo ovest, su per un vago diedro molto aperto compreso tra un’evidente zona di placche verdastre a sinistra e una zona di rocce più scure (e in alto bianche) a destra. Dopo 2 h e 40’ di cammino attaccammo a q. 1845 m c., a sinistra del punto più basso dello spigolo ovest.
All’inizio salimmo su grandi placconate, non difficili, per quattro lunghezze di corda (III). Puntando a un’evidente macchia bianca, per un caminetto raggiungemmo un pulpito sulla sinistra (IV, V). 35 m. S5. Salimmo poi una fessurina a sinistra di rocce scure, in contrasto con le superiori rocce biancastre, (V+, VI, V). 30 m. Sosta 6 accanto a spuntone, dove lasciammo un chiodo. Obliquammo poi leggermente a sinistra al limite della zona di rocce chiare per un vago diedro (VI–, VI). 25 m. S7. Lì però le cose si fecero più complicate e continuammo con più difficoltà per una quarantina di metri (A1, V+, A2). S8 su staffe. Eravamo sotto al passo chiave, era evidente.
Salii in artificiale ad una fascia strapiombante (A2) che superai sfoderando tutte le mie capacità chiodatorie (A3) e poi mi portai in obliquo a destra (VI–, V+) per un’altra ventina di metri fino a una cengia. Il tiro è lungo 40 metri e ci lasciammo 4 chiodi. S9. La sensazione di avercela fatta cominciava a prevalere sui dubbi. Evitammo una seconda fascia strapiombante traversando in leggera discesa a destra (III, II–) per 40 m, fermandoci per la S10 su terrazzino pochi metri a sinistra del filo dello spigolo ovest. Salimmo poi a sinistra di questo superando qualche spuntone (III, IV, V) per 45 m. S11 sul filo di spigolo (ore 7 dall’attacco). Da qui continuammo per la via Meroni fino alla vetta.
Già mentre ero sul tiro chiave mi frullava per la testa il nome da dare alla nostra via: la roccia presentava pochissimi appigli e quei pochi erano tutti disposti al contrario. Mi fu spontaneo pensare a via dei Brividi Rovesci. In generale, un’arrampicata difficile che alterna movimenti di precisione ad una laboriosa chiodatura per la salita artificiale. Dislivello: 470 m + 230 di spigolo ovest. Difficoltà: ED.
Non era tardi, eravamo solo al primissimo pomeriggio. Ci godemmo la lunga discesa, contenti di ciò che avevamo fatto, senza neppure protestare quando ci si perdeva in mezzo agli ontani nani.

Il 4 luglio salii con Nella da Còlere al rifugio Albani in Presolana, allora tenuto dall’amico Andrea Savonitto, il Gigante o anche Giga. Il mattino dopo ci avventurammo sulla parete nord della Presolana, per quella che credevamo essere una prima ascensione. Ero legato con Andrea, ma con noi erano anche Jolly Galelli e Lino Illi Filisetti. Dopo qualche lunghezza di corda, e già in mezzo a tanta difficoltà che ci faceva dubitare di voler continuare, ci venne in soccorso un bell’acquazzone con grandine che ci costrinse a una precipitosa ritirata a doppie. Molto tempo dopo venimmo a sapere che avevamo percorso la prima parte di una via di Livio Piantoni. Per quel giorno ne avevamo avuto abbastanza, perciò ci dedicammo a una lunga merenda al rifugio ben annaffiata da bottiglie di vino. Il giorno dopo era ancora incerto, così andai con Nella al Vascello Fantasma, una falesia che il Gigante aveva cominciato ad attrezzare. Salimmo la via Ogò (riportata sulle nuove guide come via Otto, senza sapere che Ogò era il primo nomignolo del giovane Savonitto) e la via Mozzarì, poi decidemmo di scendere a Còlere.

Sempre al lavoro per la guida Mesolcina-Spluga, la sera dell’8 luglio 1986 ero con Angelo Recalcati in tenda al Lago Cama, un luogo da noi particolarmente amato. L’intenzione era di esplorare finalmente la cresta che unisce il Piz Martel al Pizzo Campanile. Questo a causa di un dubbio creato dalla nostra curiosità la cui mancata soluzione però alimentava, a sua volta, la curiosità stessa.
Da tempo sapevamo che la carta svizzera aveva fatto confusione: il Pizzo Campanile era scambiato con il Piz Martel. Ma già Angelo Zecchinelli aveva chiarito le cose. Questi aveva pure compiuto la prima traversata della cresta Martel-Caurga-Fil del Martel-Campanile. Nella sua relazione è citato un aguzzo gendarme tra il Piz Caurga e il Campanile. Angelo nell’agosto 1985 aveva ripetuto da solo la traversata e fu costretto anche lui ad evitare un arcigno gendarme perché troppo difficile da salire senza alcuna assicurazione. La cosa lo aveva amareggiato, così in settembre, dopo che avevamo appena terminato una via nuova (via degli Italiani) sulla parete nord-est del Piz Martel, tentò di convincermi ad attraversare ancora il Caurga e affrontare il famoso gendarme. Io ero steso sulla vetta, masticavo stanco un morso di panforte, c’era poca acqua. Riuscii ad evitare di proseguire per un pelo! Confesso che in quel momento non mi importava nulla del gendarme. A quel modo, dicevo, se si cedeva al desiderio di salire ogni metro di roccia disponibile, si poteva prevedere la pubblicazione della guida per il 1999!
E, combinazione, fu proprio quello l’anno della pubblicazione!
Nell’ottobre 1985 Angelo tornò sul Piz Caurga con Lorenzo Merlo, per altra via nuova. In vetta, tentò il colpo anche con Lorenzo, che però non ne volle sapere. Angelo diceva che quel gendarme poteva essere il “vero” Piz Martel, per le forme che ha.
Passò un altro inverno, e venne l’ora di sciogliere quel mistero che ormai aveva contagiato anche me. Il 9 luglio 1986 ripetemmo in integrale la classica Cresta dei Sette Nani: questa giunge su una punta, facente parte della Cresta Martel-Caurga-Campanile, che battezzammo Settimo Nano 2421 m. Subito dopo procedemmo verso est per una crestina affilata e pressoché orizzontale di III (inizio della cresta Fil del Martel 2434 m) fino ad approcciare subito dopo il monolite tanto misterioso. Per una comoda sosta ci fermammo sotto una liscia cuspide subito prima del nostro obiettivo, da qui abbastanza impressionante. Vi lasciammo anche un chiodo.
Mi affacciai nel vuoto del versante nord e in piena esposizione traversai in leggera discesa a sinistra per una netta fessurina (2 chiodi lasciati in posto, 6 m, VII–) fino a raggiungere un camino. Lo risalii (VI+, 1 chiodo lasciato) uscendo per il ramo di sinistra ad una spalla che precede l’aguzza vetta. Traversammo poi per cengia ancora sul fianco nord e salimmo così in vetta per una bella placca esposta (VI–, sprotetto). La discesa la facemmo sul versante opposto (est) e proseguimmo poi per il Fil del Martel. Chiamammo quel monolite, sicuramente mai salito prima di noi, Testa del Martel 2430 m c.
Altri dubbi e problemi ci avrebbero occupati in seguito: risolti alcuni se ne crearono altri, per non dichiarare mai conclusa l’indagine della nostra vita.
Dopo questa bella soddisfazione, mi rivolsi alle Dolomiti. Tra i miei scopi c’era quello di riaggiornare la vecchia guida escursionistica della Val di Fassa che avevo scritto per Tamari: dovevo ripercorrere alcuni itinerari soprattutto per fotografare ciò che mi mancava.
Il 21 luglio ero da solo sulla Punta Vallaccia dei Monzoni, salita per la cresta nord-nord-est da Forcella Vallaccia; poi proseguivo verso nord per il Sass Aut allo scopo di percorrerne la via ferrata, per poi scendere al bivacco Zeni.
Il giorno dopo portai Nella su una bellissima via, la combinazione della via Rizzi + via Schroffenegger alla parete est della Roda di Vael. Allora non molto frequentato, in seguito quell’itinerario lo divenne meritatamente.
In quel periodo eravamo ospiti di Heinz Mariacher e Luisa Iovane, nella loro bellissima baita di Carezza, dove io mi trovavo un po’ a disagio per via delle vene d’acqua presenti in abbondanza sotto alle fondamenta. Non riuscivo a dormire bene, ma in compenso in loro compagnia si stava davvero bene.
il 23 luglio andai con Heinz nella nuova palestra della Val San Nicolò, sopra ai massi da me tanto frequentati in gioventù. Mi fece salire (con un resting) Frà Martino e subito dopo la prima lunghezza di Antibiotico. Tanto per dare l’idea, pur salendo da secondo, mi furono necessari 10 resting per arrivare in sosta!
Durante la discesa vidi un fungo porcino enorme e sanissimo. Mi venne in mente di lasciarlo lì per vedere l’effetto che mi avrebbe fatto. Ad Heinz non faceva né caldo né freddo raccoglierlo o meno, perciò gli confidai questo mio esperimento. Lì per lì fu facile proseguire: ma, come il monachello allievo del maestro zen, me lo portai dietro fino ad oggi.
Un giorno maestro e allievo nella loro peregrinazione incontrarono un fiume in piena. Una giovane contadina non se la sentiva di traversare, così senza esitazione il Maestro se la caricò sulle spalle e la traghettò fino all’altra sponda. Salutata la giovane, i due proseguirono il loro cammino. Alla sera, dopo la parca cena, l’allievo chiese:
– Maestro, sicuro che la nostra azione di oggi fosse in linea con gli insegnamenti zen?
– Perché, figliolo?
– Perché la giovane era carina… e c’è stato un contatto fisico che forse…
– Andiamo figliolo! Io quella giovane ho smesso di portarla sulla riva del fiume. Tu la stai portando ancora adesso!
Allo stesso modo, il fungo non raccolto me lo sto portando in carico ancora; ma forse oggi è più solo un ricordo e non più un rammarico.
Il 24 luglio altra gita per la mia guida escursionistica, questa volta da solo al Lagusel raggiunto da Malga Crocefisso, con discesa su Malga Ciampié. Il 25 luglio con Nella, da Alba al Ciampac e alla Sella Brunec fino in vetta a Su l’Aut per percorrere il Sentiero Pederiva.
Il giorno dopo ancora da solo per la Val Setùs al rifugio Pisciadù, con discesa nel Vallon de Tita e Valle de Mesdì.
Come ormai di consueto aggiungo le tabelle delle arrampicate sportive di quel periodo (qui mescolate alle vie in montagna).
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Mi sono bevuto il racconto: avvincente e da dipendenza. Oltretutto sono luoghi da me conosciuti.
Suppongo che Nella sia stata la Sig.ra Ornella Antonioli.
Posseggo la guida grigia Mesolgina-Spluga, l’ho acquistata nella 2000, ma da un paio d’anni la sto letteralmente consumando.
È fatta in modo perfetto, d’altronde è stata creata da due interpreti dell’eccellenza montana: uno in quanto a bravura e l’altro in quanto a conoscenza letteraria.
Grazie, Alessandro, continuerò a leggerti
Menomale che tra una follia e l’altra ci sono le poesie di Alessandro che ci tengono con i piedi ben piantati a terra e lo sguardo perso nell’orizzonte.