I recenti divieti di frequentazione della montagna dopo le nevicate abbondanti dei giorni scorsi hanno provocato un gran discutere attorno al problema.
Partendo dall’ovvia constatazione che nessuno mette in dubbio la gravità delle situazioni, sia con riferimento all’insistente pericolo sia alla generale insufficienza d’interesse che il pubblico riserva ai bollettini e ai consigli degli esperti, vorrei fare qui il punto sulle diverse “filosofie” che sono alla base delle polemiche, e quindi alla base anche delle nostre possibili reazioni.
A questo proposito, due interviste apparse su MontagnaTV, la prima alla guida alpina Fabio Lenti, la seconda alla guida alpina Fabio Salini, esemplificano le diverse opinioni che caratterizzano il pensiero di una categoria professionale, con importanti ricadute sul pensiero dell’opinione pubblica e dell’Amministrazione.
In questo mio contributo cercherò di tenere ben distinti i legittimi interessi della guida alpina da quelli più generali dell’appassionato di montagna.
Fabio Lenti afferma: “… (l’ordinanza di divieto) è intervento mirato per far sapere alla gente che in quel momento c’è un pericolo fuori dal normale. E nelle situazioni eccezionali bisogna intervenire, non si può star lì, tapparsi gli occhi e poi andare a recuperar morti. Bisogna dare un segnale, che poi va sui giornali, quindi se ne parla, e la gente alla fine si accorge che c’è”.
Prima di tutto occorre notare che vietare è una cosa, segnalare un’altra: nessuno si oppone ad alcun genere di segnalazione.
Fabio Salini osserva (riferendosi alla propria professione): “… (il divieto) può essere interpretato e utilizzato in futuro da altri Comuni. Le ricadute sono molteplici:
– limitazione geografica delle nostre gite alpinistiche e sci alpinistiche;
– nessun riconoscimento della nostra formazione di figura professionale;
– crea dei precedenti importanti che possono essere presi ad esempio da altri comuni che si vogliono lavare le mani dalle responsabilità sul loro territori”.
Salini, come guida, si sente mortificato: “… (dopo il divieto) ho pensato che il diritto di muovermi e di poter lavorare sul mio terreno veniva meno. Mi sono cadute le braccia, è stata una mortificazione. Ho dedicato tutto il mio percorso professionale cercando di apprendere conoscenze relative alla movimentazione sul terreno di avventura e da qualche anno a questa parte come istruttore delle guide cerco di trasmettere queste esperienze alle future guide alpine. Poi i sindaci emettono queste ordinanze che impediscono ai professionisti di svolgere la loro professione”.
Invece Lenti accetta il divieto e, riferendosi nello specifico a quello del Grignone, sottolinea quanto quell’ordinanza, con quelle condizioni da “possibile strage”, fosse doverosa: “Il sindaco quindi, che è responsabile della zona e anche dei cittadini, oltre a tutelarsi – perché se muoiono 30 persone il primo inquisito è lui, e gli verrebbe chiesto perché non ha fatto niente – ha deciso di emanare un’ordinanza per la sicurezza collettiva”.
Aggiunge che la guida, di fronte a un divieto, può sempre scegliere di andare con il cliente da un’altra parte.
Ma proprio quello che si vuole evitare è che ci siano altre ordinanze “da un’altra parte”. Lo sottolinea bene Salini.
Già, la responsabilità dei sindaci. E’ facile accusarli che le loro ordinanze siano il facile rimedio alle proprie responsabilità. Ma al di là di queste illazioni non provabili e inutili, quanta responsabilità hanno davvero i sindaci?
Se un sindaco potesse dimostrare di aver coscienziosamente avvertito delle cattive condizioni del manto nevoso, di aver premuto sulle redazioni dei TG regionali perché evidenziassero l’eccezionalità delle precipitazioni indicando la presenza del pericolo 3 o 4 su una scala fino a 5, di aver agito in passato favorendo la formazione dei propri concittadini, di avere nei fatti equiparato la figura della guida alpina a quella di altri pubblici ufficiali, di aver operato in modo che essa potesse tenere corsi nelle scuole, per insegnare che cosa sono il nord e il sud, cos’è un bosco, come orientarsi, cosa fare sulla neve… quanta discutibile responsabilità rimarrebbe ancora a carico dei sindaci?
L’accettazione incondizionata della pratica dei divieti comporta con sé la fondamentale riflessione che, in assenza di divieto, un pubblico disinformato e riottoso ai consigli interpreterebbe la montagna come del tutto priva di pericoli: in sostanza, se c’è divieto lo osservo, se non c’è posso andare dove e come voglio, sicuro che non mi succederà niente. Questo modo di pensare, purtroppo assai probabile, sarebbe pericolosissimo.
Ecco perché ci si oppone ai divieti, non è solo una questione di principio. Il principio della libertà è sacrosanto, ma nessuno può ragionevolmente pensare che non vi si possa porre limite. Il limite è una questione di buon senso, pertanto non può essere un divieto. Sempre Fabio Salini: “… questi divieti sono facili da emanare, ma non fanno cultura”.
Una mia osservazione: bene hanno fatto i sindaci, nel disporre le ordinanze di divieto di questo primo mese del 2013, a non seguire l’esempio del sindaco di Livigno che dispose, a parte qualche perdonabile errore nella costruzione della frase, con ord. n. 34 del 24 aprile 2012 – Prot. 8504 cat. II/1 fasc. 10, successivamente revocata con ord. n. 48 del 16 maggio 2012: «dalla data odierna e fino alla revoca della presente, all’interno del territorio comunale di Livigno (SO), è vietato lo sci fuori pista in ogni sua specialità, ad esclusione delle guide alpine italiane e straniere abilitate (art. 4 della Legge 2/1/1989, n 6 ”Ordinamento della professione della guida alpina” e degli artt. 20-26 ”Regolamento regionale 6/12/2004 n. 10”) e delle persone accompagnate dalle stesse, sotto la responsabilità delle medesime guide alpine».
L’ordinanza metteva esplicitamente in atto una discriminazione fra gli utenti “esperti” della montagna prevedendo una deroga al divieto esclusivamente per le guide alpine (e le persone da questi accompagnate) e non già per tutti i soggetti dotati di idonea (o analoga) preparazione tecnica (si pensi all’alpinista esperto e che, tuttavia, non abbia la qualifica di ‘guida’).
Infine Fabio Lenti affronta direttamente il problema della limitazione alla libertà: “La libertà delle persone termina dove inizia quella degli altri. Se uno resta dentro la valanga, la mia libertà dovrebbe essere quella di non andare a rischiare la vita per tirarlo fuori, invece (come soccorritore) devo andare”.
A mio parere ciò di cui si dovrebbe discutere è proprio il cosiddetto obbligo che ha il Soccorso Alpino di operare. Chi ha stabilito che c’è un obbligo, sempre e comunque? Chi ha detto che la squadra di soccorso debba partire comunque, in qualunque condizione? Nessuno, presumo. Chi va a soccorrere condivide la stessa passione della montagna di colui che è soccorso, per questo lo fa, non per obbligo. Se no, che volontario sarebbe?
E poi c’è il discorso dei costi. Lenti sostiene che sarebbe giusto che proprio chi è stato soccorso debba sobbarcarsi i costi dell’operazione, per non gravare sulla comunità. E cita anche il caso di Trentino e Valle d’Aosta dove non si paga un ticket solo nel caso che il soccorso sia anche infortunato.
Domanda: se nessuno si è mai opposto al fatto che la comunità sostenga i costi sanitari dell’alcolismo, o della circolazione stradale, incomparabilmente maggiori di quelli degli incidenti in montagna, come mai ci si accanisce? Viene purtroppo da pensare al giro economico-sanitario che si andrebbe a turbare, ecco perché è meglio che il cane possa continuare a dormire senza essere molestato. E l’accostamento delle due valenze economiche potrebbe pure spiegare perché finora nessun sindaco ha ancora proibito sul suo territorio la pratica dell’eliski, quand’anche purtroppo permessa dal regolamento regionale.
Lenti e Salini concordano pienamente sulla necessità dell’informazione e della formazione.
Lenti: “Noi alla Casa delle Guide abbiamo un bollettino e un numero da chiamare per dei consigli che sono gratuiti! Ma (alla gente) non viene nemmeno in mente di chiamare. E’ proprio una cultura che manca”.
Salini: “La formazione sarebbe interessante farla partire da molto lontano. Dalle scuole materne e dalle scuole primarie come viene fatto in altri paesi. Questa sarebbe una proposta interessante. Uno o più progetti pilota che potrebbero portare avanti, in collaborazione con le guide alpine, proprio i Comuni che si sono distinti per i divieti. Viviamo ai piedi delle Alpi, sarebbe un passo avanti per la cultura delle nuove generazioni”.
Salita al Grignone
10 febbraio 2014
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Tema delicatissimo. Da un lato comprendo e condivido la posizione di Andrea Savonitto, preoccupato per le conseguenze di queste “limitazioni”, ma ugualmente credo giustificato il parere di Fabio Lenti: entrambi sono professionisti che conoscono il tema e i disastri che una sciagurata frequentazione della montagna “senza regole” comporta e determina. Sui media leggiamo idiozie su idiozie, gente che non sa distinguere un ghiacciaio da un nevaio, pontifica e spara sentenze. Giornalisti inclusi. Che una formazione adeguata e diffusa sia utile -quanto necessaria- pare evidente, ma la formazione – come chiunque se ne sia occupato sa – è un investimento a medio o lungo termine. E poi i modelli niveometeorologici sono in profonda trasformazione, gli sconvolgimenti climatici (come l’incidente della scorsa estate all’Ortles ci suggerisce) rendono infatti le nostre convinzioni più vacillanti.
Non dobbiamo dimenticarci anche di una cosa: siamo un paese con una litigiosità giudiziaria senza eguali, quindi è evidente che su temi sensibili gli amministratori stiano con le antenne dritte (soprattutto se sono sollecitati dai loro avvocati). Tutela del cittadino o ponziopilatismo, poco cambia. L’ordinanza quindi potrebbe esser un bene, in casi circoscritti, ma se questo atteggiamento si replica ad libitum alla lunga serve solo a disorientare i frequentatori, rendendo quasi impossibile andare in montagna senza diventare fuorilegge. Come sappiamo, la repressione di una passione (o di un vizio) leggittima oltre ogni regola ogni abuso. E posizioni radicali e dicotomiche (pro o contro), senza valutare il merito specifico, rischiano di complicarci la vita. Dobbiamo da un lato convincerci che la sicurezza assoluta non è un obiettivo sensato e praticabile e nel contempo lavorare perché quella relativa sia un concetto che ci appartenga e sia diffuso nella cultura di massa. Bene sarebbe se, prima di far decidere un amminisitratore o un carabiniere, siano le stesse organizzazioni di montagna a pilotare questo processo. Come funzionò per la richiodatura delle vie classiche, il purista e il trapanatore folle dovrebbero parlarsi e trovare un’intesa: un uomo vivo è sempre preferibile alla sua lapide.
Penso che l’ORDINANZA di divieto sia cosa fondamentalmente sbagliata, lesiva delle opportunità di chiunque (non solo dei professionisti) di muoversi sui territori liberamente. Comprendo e condivido la preoccupazione di fondo per cui sovente l’ignoranza “tecnica” e la superficialità con cui troppa gente si muove in montagna possa innescare incidenti ed eventi anche potenzialmente catastrofici. Ma penso che il codice civile e penale abbiano già ampiamente gli strumenti per intervenire sui danni improvvidamente cagionati a terzi.
La formazione e l’informazione capillare ed autorevole credo siano le uniche azioni che possano determinare comportamenti virtuosi.
Su questo punto fermo i discorsi poi si possono ampliare senza limite.
Mi permetto due considerazioni, disgiunte, che magari possono ampliare il dibattito.
Da quando è nato il turismo balneare (anche il mare è potenzialmente ed infidamente pericoloso) e la gente, comune, ha cominciato a riversarsi a frotte sulle spiagge è diventato d’uso diffuso la Bandiera Rossa per segnalare una generica situazione di pericolo per i bagnanti, issata a cura dei Bagnini (professionisti, o addetti). Nessuno mai penso si sia sognato tra i Sindaci di fare ordinanze di divieto (se non per cause di inquinamento… ma altro è il discorso), né mi è giunta voce di bagnanti audaci andati a pescare da motovedette o multati in battigia per aver infranto il segnale. Il turismo montano, per lo meno sugli itinerari di grande affluenza, potrebbe forse prendere esempio da una simile pratica socialmente utile… Sarebbe potuto bastare (in tempi arcaici pre-rete Internet diffusa) un palo/pennone ai posteggi o nei punti di partenza degli itinerari. Ma non c’è mai stata una cultura di accoglienza e servizio nelle località (+/-) turistiche nostrane.
La seconda considerazione auspica un po’ di autocritica e collaborazione da parte di chi tende a promuovere gli sport della montagna invernale come sport di massa. I rifugi alpini ora aperti anche in inverno (ed io in primis!) e le Scuole di Sci-alpinismo o le sezioni dell’associazionismo alpino che promuovono attività, con le ciaspole (per es.) per gruppi spesso numericamente consistenti concentrati sulla medesima meta… il più delle volte privi di qualsiasi accorgimento utile alla salvaguardia dei partecipanti. Chi deve fare la cultura della Montagna? Riflettiamo e cerchiamo soluzioni accettabili.
Grazie per il contributo Alessandro. Discutere delle tematiche che ci stanno a cuore come professionisti è sempre meglio che tacere. Specie se si usano toni rispettosi come credo siamo riusciti a fare fino ad ora. Spero non si debba mai arrivare, come guide alpine, a ricorrere ad un avvocato per doversi difendere davanti al giudice accusati di avere calpestato un terreno montano oggetto di divieto. fabiosalini
Io credo, Alessandro, che te abbia centrato in pieno il problema dei divieti. Al di là del punto morale e etico di libertà o meno, la cosa più grave è il fatto che in Italia in particolar modo, puntiamo troppo sul NO. Proibire sappiamo tutti che essenzialmente vuol dire lavarsene le mani. Proibire vuol dire “io lo ho proibito, se qualcuno non rispetta è un problema suo”. Il corretto a parere mio, è ciò detto da Salini e cioè che bisognerebbe puntare tutto sull’istruzione e sulla cultura della montagna. La gente in certi casi deve o non deve muoversi in montagna perché è consapevole che il pericolo esiste e lo sa o non lo sa gestire. Io parlo da Istruttore CAI e punto sull’istruire la gente a riconoscere dove può arrivare e a fornire le conoscenze adeguate a capire se quel giorno è giusto stare a casa, andare o affidarsi a figure professionali, come le Guide, che aiutano nella scelta. Oramai la tecnologia ci fornisce bollettini e un sacco di informazioni a portata anche di telefono; è il singolo che deve essere consapevole dei propri limiti e dei limiti dettati dalla montagna. Certe proibizioni aiutano solo chi le emana a lavarsene le mani in caso di incidente e confondono l’utenza dando per scontato che se una cosa non è più proibita la si può fare, quando, tutti gli addetti ai lavori sanno che anche ad esempio con rischio valanghe 2 non siamo completamente al sicuro.
Caro Roberto, se leggi attentamente vedi che l’accostamento non è tra le tre attività (che effettivamente sono ben diverse e più o meno “utili”), bensì è tra i costi sanitari ch’esse comportano. I costi di trasporto in ambulanza, pronto soccorso, visite mediche, esami, cure e interventi chirurgici non sono pagati dalle ASL dopo indagine preventiva della causa della malattia o dell’infortunio. Sono pagati a prescindere.
L’alcolismo è una malattia che deriva da una trasgressione. E in machina ci si va, spesso rischiando la vita, non per divertirsi. Perché questi accostamenti pretestuosi con l’alpinismo, ammesso e non concesso che sia utile come il lavoro?