Dopo la tragedia della Valle di Rhêmes
di Carlo Crovella e Redazione
E’ sempre complicato elaborare delle considerazioni subito dopo incidenti mortali in montagna, come quelli derivanti dalle valanghe della prima metà dell’aprile 2023.
Ad inizio aprile due torinesi sono morti sotto una valanga allo Château des Dames, versante Valtournenche. Negli stessi giorni, altri due morti in Alto Adige. Poco dopo, quattro vittime in Alta Savoia. A metà mese ben tre vittime in Valle di Rhêmes, durante un’uscita del Corso Guide Valdostano.
Poiché si tratta, in genere, di persone considerate “esperte” (gli aspiranti Guide fuori da ogni dubbio, i due amatori torinesi erano noti per la loro intensa attività), è inevitabile interrogarsi sull’argomento.
Qualcuno si domanda se “siamo tutti impazziti”, se “non seguiamo più i parametri che ci hanno insegnato (e che, spesso, noi stessi abbiamo insegnato ad altri)”? Altra domanda: “E’ cambiato il contesto generale, per cui non volgono più le regole storiche?”.
Non sono domande da poco, perché su tali interrogativi si pone la vita delle persone. Certo stupisce che si registrino situazioni drammatiche in uno scenario tecnologico sempre più evoluto: bollettini aggiornatissimi e accessibili con facilità, cultura nivologica diffusa a tappeto, materiale iper-performante (ad esempio gli ARTVA digitali hanno una velocità di localizzazione dei sepolti che non è confrontabile con la ricerca umana consentita dai vecchi ARTVA analogici).
Allora perché così tanti incidenti da valanga e, soprattutto, così tanti morti? Si può morire anche staccando un piccolo pendio con un fronte di venti metri, ma la sensazione generale è che si tratti di distacchi “consistenti”, roba da “quasi non crederci”. Come mai si finisce sotto valanghe di tali dimensioni, nell’era del “tutto è prevedibile”?
Una puntualizzazione di base: il tema nivologia-valangologia, per quanto ormai analizzato a fondo, avrà sempre in sé una componente di non totale prevedibilità. Una componente di fatalità, connessa alla stessa fisiologia dei fenomeni naturali, esisterà sempre. Proprio per questo, però, occorre tenersi un ulteriore margine di prudenza, cioè saper rinunciare o girare alla larga dai pendii potenzialmente problematici.
Qui scattano alcune variabili che caratterizzano i nostri tempi. Ne elenchiamo tre che non erano rilevanti poco tempo fa e che invece stanno prepotentemente conquistando la scena.
1) Il generale problema del cambiamento climatico, comportando un innalzamento delle temperature, sta modificando le “leggi implicite” della nivologia, almeno come le abbiamo studiate nei decenni scorsi. Le abbiamo sempre considerate come qualcosa di oggettivo e immutabile, invece pare che il manto nevoso si stia comportando secondo regole un po’ diverse, in particolare per quanto riguarda la modalità e la tempistica del suo assestamento post nevicate: tutto ciò proprio perché sono cambiate strutturalmente le temperature. Sulle valanghe non incide solo la temperatura dell’ambiente, ma anche altre variabili come il vento. Non basta quindi leggere solo il numeretto del pericolo AINEVA, occorre valutare il contorno: la maggior imprevedibilità del manto nevoso ci dovrebbe quindi far tenere un margine prudenziale molto maggiore rispetto al passato.
C’è chi fa l’ipotesi che, oggi come oggi, dovremmo aggiungere un mezzo grado alle valutazioni AINEVA. Il pericolo 3 lo dovremmo considerare come un “3 e mezzo”, se non addirittura un “4 meno”. E così di conseguenza, per cui le gite impegnative andrebbero fatte solo con pericolo 2 (che, all’atto pratico, sarebbe un “2 e mezzo”).
Premesso tutto ciò, in molti incidenti da valanga si possono ravvisare le conseguenze di due trend socio-culturali, tipiche aberrazioni della società dei giorni nostri.
2) Dapprima abbiamo la tenaglia degli impegni a raffica. Che sia il Corso Guide o la Gita Sociale del CAI o anche solo un combino fra amici, la nostra esistenza è scandita dall’agenda degli impegni e dei programmi a tambur battente. Di conseguenza molto spesso si decide di “partire” lo stesso per l’escursione, perché ci sono tempistiche e target organizzativi da rispettare. Questo spinge a sottostimare la valutazione del pericolo in quella specifica giornata. Non riusciamo a rinviare a domani (figurati al prossimo weekend…), perché abbiamo l’agenda fitta di bandierine, mica le spostiamo ai giorni successivi “solo” perché, oggi, le condizioni della montagna non sono più che perfette!
Se il programma è collettivo (e questo a tutti i livelli tecnici, dai corsi per principianti e dalle gite sociali fino alle uscite dei corsi per guida alpina), il fenomeno coinvolge più persone e diventa una jungla intricatissima. Impossibile spostare/annullare: magari si sono versate caparre, prenotati rifugi e pullman, prenotati professionisti, oppure i professionisti hanno rinunciato ad altre possibilità di lavoro e non si può dar loro buca, pena pagarli a vuoto. Gli stessi aderenti ai programmi storcerebbero il naso: “Ma come, con tutti gli strumenti tecnologici che esistono oggi, le webcam in quota, i bollettini, i social, possibile che non sappiate trovare un itinerario sicuro?”. Manca poco a sentir dire: “Ma cosa mi iscrivo a fare al programma collettivo, se poi l’unica ipotesi che propongono i responsabili di tale programma è starcene a casa?”
E’ normale sentire “Dai, facciamo lo stesso un’uscita oggi, che domani io ho questo da fare, lui è iscritto a quella gara, l’altro ha già dei clienti da accompagnare…”. Stare nei tempi organizzativi calendarizzati, costi quel che costi, sembra la prima preoccupazione. Di queste “miserie” umane la montagna si è sempre infischiata. La montagna non ha mai ragionato con i parametri umani e, oggi, ancor meno per lo scombussolamento conseguente ai cambiamenti climatici.
3) L’altro fenomeno socio-culturale, di natura simile, è l’approccio “mordi e fuggi”, tipico in particolare degli amatori forti e appassionati. Non si sa resistere al “richiamo della foresta” e s’infila l’escursione fra mille altre cose della quotidianità, senza aver fatto una valutazione oggettiva e prudenziale della situazione in montagna. La passione bruciante, l’esperienza accumulata e la sensazione di forza atletica spesso portano a dare per scontato che, di riffa o di raffa, una cima si può sempre mettere nel carniere. “L’abbiamo già fatto, quindi che motivo c’è a rinunciare proprio oggi?”.
Bollettino AINEVA del 12 aprile 2023 con le previsioni per il 13 aprile
“Risale il pericolo valanghe nell’Ovest della Valle d’Aosta. La neve fresca e quella ventata sono la principale fonte di instabilità del manto sopra i 2.500 metri di quota. Attenzione in prossimità di creste, conche e canaloni.
Risale il grado di pericolo valanghe a 3-marcato lungo le dorsali di confine estero e con il Piemonte, in un arco che va da Cervinia e Alta Valpelline alla Valgrisenche. Il grado è comunque 2-moderato in gran parte del resto della Valle d’Aosta.
Per giovedì 13 aprile 2023, il bollettino regionale preannuncia che vento – a tratti forte – causerà il trasporto della neve fresca, con formazione di spessi accumuli che rappresentano la principale fonte di pericolo. Le valanghe possono subire un distacco negli strati superficiali del manto nevoso già in seguito al passaggio di un singolo escursionista. Attenzione nelle zone in prossimità delle creste, nelle conche e nei canaloni e sui pendii ripidi. Con il cattivo tempo, i punti pericolosi sono appena individuabili”.
A questo link, il bollettino neve e valanghe, illustrato da Andrea Debernardi di Fondazione Montagna sicura.
L’incidente in Valle di Rhêmes
Dell’incidente in Valle di Rhêmes del 13 aprile 2023 si conoscono solo alcuni dettagli giornalistici che riportiamo per dare un quadro di insieme. Per quel giorno e per quella zona, il pericolo AINEVA era 3, cioè “marcato”, il che significa (al netto dell’eccesso prudenziale di cui al punto 1) che il distacco è possibile già con un debole sovraccarico (“sciatore che effettua curve dolci e che non cade, escursionisti con racchette da neve, gruppi che rispettano la distanza di 10 m”). In parole semplici: la neve è in equilibrio precario, basta niente e parte la valanga. In più il bollettino diffuso in TV (TGR VdA) metteva in guardia per l’aumento del pericolo di valanghe proprio in quei giorni, causa recenti nevicate e forte vento.
Dalle fonti giornalistiche sembra che l’incidente sia avvenuto in fase di discesa nella zona del Picco di Goletta 3291 m, vicino al Colle di Tsanteleina 3154 m, e che a incidente avvenuto l’istruttore sia riuscito a localizzare e liberare i compagni (già cianotici), e poi sia sceso, su uno sci solo, a cercare il campo del telefono per allertare i soccorsi. Nel frattempo la situazione meteo, che non doveva esser perfetta fin dal mattino, è peggiorata drammaticamente: il vento si è intensificato, accompagnato da nebbia. Per questi motivi e per l’avvicinarsi del buio il Soccorso Alpino Valdostano e quello della Guardia di Finanza hanno interrotto le ricerche alle 19. Le vittime sono state recuperate il giorno successivo e portate in elicottero ad Aosta.
Le vittime sono Lorenzo Holzknecht (38 anni), campionissimo dello scialpinismo, originario di Sondalo, con un palmarès ricco di un argento e due bronzi ai campionati mondiali e due ori, un argento e un bronzo ai campionati europei; Sandro Dublanc (43 anni), maestro di sci di Champorcher; Elia Meta (36 anni), finanziere scelto della Stazione del Soccorso alpino della Guardia di finanza di Entrèves. Tre alpinisti esperti e motivati, ambiziosi, vogliosi di fare della montagna qualcosa in più. E certamente consapevoli che la montagna porta con sé dei rischi, rischi che avevano scelto di accettare per vivere a fondo la loro passione.
Con il deposito dei primi atti da parte del Soccorso Alpino della Guardia di Finanza, che sta procedendo agli accertamenti, la Procura della Repubblica di Aosta ha aperto un fascicolo sulla valanga.
Nelle prossime ore, sulla base del riscontro esterno del medico-legale sui cadaveri, il magistrato deciderà se siano necessari approfondimenti tramite l’autopsia delle vittime. L’obiettivo degli inquirenti è ricostruire l’accaduto e accertare eventuali responsabilità. La relazione del Soccorso alpino della guardia di finanza è ora sulla scrivania del pm Giovanni Roteglia.
Considerazioni
Certo, in partenza non era un quadro “sereno”. Come mai quattro esperti hanno ritenuto di poter ugualmente effettuare l’uscita?
Ad ascoltare i giudizi di alcuni, non certo i più “buonisti”, è inevitabile avere il coraggio di affermare pubblicamente che affrontare un’escursione scialpinistica “seria” con grado 4 di pericolo valanghe significa cacciarsi nei guai. Per costoro anche con il grado 3 si dovrebbe evitare l’attività scialpinistica, soprattutto quella “seria”, e con il grado 5 non si dovrebbe neppure uscire di casa.
Può capitare che degli scialpinisti, a patto che sappiano muoversi adeguatamente, realizzino una poco impegnativa escursione con le pelli anche in giornate con grado 4, proprio per l’attrazione irresistibile del manto nevoso (farina!). Ma, appunto, è lì che si gioca il tutto: questo percorso deve essere placido e tranquillo, in pratica una modestissima passeggiata da pensionati!
Se viceversa ci si va a cacciare in escursioni impegnative, come è il caso dello Château des Dames, con una serie di pendii ripidi in un vallone complessivamente ristretto tra quinte rocciose (in pratica una specie di imbuto a balze), la definizione di “esperto” risulta non congrua con la scelta. O ci si accontenta dell’itinerario da pensionato oppure, con il grado 4, è meglio stare fermi un giro.
Se si va a controllare sull’Aruga-Poma, la celebre raccolta di itinerari scialpinistici degli anni Settanta, si scopre che lo Château des Dames è segnalato per “metà maggio-giugno”. E’ vero che, per gli scombussolamenti climatici e nivologici, le stagioni si sono “accorciate”, ma affrontare un itinerario del genere ad inizio aprile (un mese e mezzo prima!), in più dopo precipitazioni di rilievo e in una giornata con pericolo 4, lascia quanto meno interdetti.
I due torinesi sono stati trovati (sempre da fonti giornalistiche) sotto tre metri di neve. Il distacco pare sia stato spontaneo, coerentemente con il grado 4 previsto per quel giorno, ma di grandi dimensioni e in un contesto morfologico che non ha lasciato scampo.
E’ ancora troppo presto per poter discutere in modo serio sull’ultima tragedia della Valle di Rhêmes. Non ci sono fotografie disponibili del luogo dell’incidente, come pure non siamo in possesso di una precisa localizzazione. Rispetto a quanto riferito, non si hanno ulteriori notizie, almeno non di rilievo. Manca un racconto più dettagliato dell’unico testimone, cosa assai comprensibile visto il suo essere parte in causa. La prudenza in questi casi non è mai eccessiva: qualcuno potrebbe perfino azzardare che “l’essere sceso per cercare campo telefonico, potrebbe configurare l’ipotesi di omissione di soccorso (ha “abbandonato” i tre, che, forse, estratti ancora vivi, sono poi morti per il freddo, causato del fortissimo vento da nord)”. Il tema è certamente molto delicato sul piano giuridico, tanto che possiamo affermare che Matteo Giglio è la “quarta” vittima.
Dobbiamo pertanto limitarci a considerazioni di carattere generale.
Conclusioni
La correlazione fra le tre citate “variabili dei nostri tempi” configura un mix pericolosissimo. E’ fuori di dubbio che si veda in giro molta, troppa, superficialità: in parte per la generale facilità di accesso alla montagna, in parte per la dominante concezione “sportiva” che spinge a considerare l’andar in montagna come un qualsiasi sport praticato in un parco cittadino. Anche l’incremento esponenziale della tecnologia dei materiali è uno dei fattori che hanno abbattuto le barriere di ingresso alla montagna. Tutto questo non rientra nella fatalità, anzi ne riduce parecchio il significato consolatorio.
Nella sottostante intervista, il Direttore del CNSAS afferma che il Soccorso Alpino deve soccorrere senza valutare le scelte individuali dalle quali sono scaturiti gli incidenti. Non spetta al CNSAS questa valutazione, è vero. Ma il problema esiste, eccome.
Si può contenere o addirittura invertire il fenomeno? Chi sostiene che si debba agire sul lato della formazione, chi paventa/auspica divieti amministrativi e legislativi (dalle ordinanze dei sindaci a possibili norme regionali o addirittura nazionali), chi teme/invoca che i “suggerimenti” AINEVA possano diventare delle vere e proprie regole giuridiche: tipo “con pericolo 4 NESSUNO potrà fare gite scialpinistiche, neppure il pensionato nel prato dietro casa”.
La contesa è tra chi ha a cuore la libertà individuale in montagna e chi invece vorrebbe regolamenti più vincolanti: per fare un esempio, in questo preciso campo non c’è accordo neppure tra i due autori di questo saggio…! Tutti siamo d’accordo nel dire che la libertà dev’essere sempre accompagnata dalla consapevolezza, dalla maturità e dalla responsabilità. Le idee divergono nel momento in cui da una parte un obbligo viene interpretato come salvifico, dall’altra viene ritenuto il principale responsabile della mancanza di maturità.
Vi è la sensazione che da tempo sia in atto un lungo processo (già presente anche in altre discipline alpinistiche) di «desacralizzazione» dello scialpinismo, che pretende di togliere severità accentuando il piacere. In questo processo, a farne le spese è soprattutto la parola «alpinismo», come vorrebbe sottolineare la tendenza oggi generale di chiamare «skialp» ciò che invece prima era scialpinismo. Anche le mode vanno rispettate, ma qui si tratta di mettere in guardia che nessun giochetto di parole riuscirà mai a rendere «non pericolosa» quest’attività che, proprio per come e dove si svolge, rimarrà sempre alpinistica.
Il fatto stesso che da ben più di mezzo secolo nel linguaggio comune si parli di «gite» di scialpinismo la dice lunga sulla drammaticità di quest’errore. Le escursioni in montagna invernali o primaverili possono essere classificate come «gite» solo a prezzo di una colpevole superficialità di giudizio.
“Fare, fare, fare” è il totem della società attuale e l’evoluzione della tecnologia ne è lo strumento demoniaco. Dobbiamo tornare ad un approccio più naturale alla montagna. Dimenticare agende e impegni, passione bruciante e dislivelli da accumulare. Dobbiamo saper mitigare i programmi e, al limite, rinunciare.
Il gioco che domina oggi non ha senso.
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L’intervista che segue è stata pubblicata fra gli incidenti di inizio aprile 2023 e quello in Valle di Rhêmes.
Montagna e pericolo valanghe: «Il clima sulle vette sta cambiando. A volte bisogna saper rinunciare»
di Alessandro Fulloni
(pubblicato su corriere.it/cronache il 5 aprile 2023)
«Sì, bisogna pianificare, documentarsi, attrezzarsi adeguatamente ma, soprattutto, saper anche rinunciare». Maurizio Dellantonio, 61 anni, ex poliziotto, oltre a essere un uomo di montagna è anche il presidente del Corpo nazionale del Soccorso Alpino e Speleologico, la struttura (con circa 7.000 volontari) che coordina i soccorsi in vetta, una media di 10.000 l’anno. Alpinista, trentino di Moena, parla di quello che è successo sabato 1 e domenica 2 aprile 2023 sulle Alpi, dove quattro scialpinisti, tutti esperti, sono morti, travolti dalle valanghe in Valle d’Aosta e in Alto Adige. Con le due ragazze svedesi morte a Courmayeur due settimane prima (facevano fuori pista), le vittime dello sci in luoghi estremi sono state sei in quindici giorni, solo in Italia. E ora, a proposito di possibilità distacchi, valanghe e temperature, il weekend di Pasqua potrebbe illudere, con i termometri al ribasso un po’ ovunque.
Presidente, l’assessore valdostano alla montagna Luciano Caveri si è detto «sconcertato dal fatto che gli escursionisti disattendano i bollettini che indicano cautela». Lei che cosa pensa?
«Che al Soccorso Alpino spetta il compito di soccorrere chi è in difficoltà, chiunque esso sia e ovunque si trovi. Non spetta a noi giudicare i comportamenti dei singoli, fatto salvo casi eccezionali. Tutti gli appassionati della montagna sono consapevoli che il “pericolo zero” in alta quota, come in tanti altri ambienti dove si pratica sport, non esiste. Basti pensare che l’allerta valanghe va da 1 (minima) a 5 (massima), lo 0 non è contemplato».
Appunto: nei giorni scorsi (inizio aprile 2023, NdR) l’allerta valanghe, dalla Valle d’Aosta all’Alto Adige, oscillava tra il 3 (marcato) e il 4 (forte). Le slavine sono state numerose e numerosi gli interventi di voi soccorritori. Non crede che esista, in generale, un problema di accortezza nell’approccio alla montagna?
«Diciamo che tutti dovrebbero fare la propria parte: dagli enti del turismo locale ai grandi brand dedicati alle attrezzature sportive che, nelle loro attività pubblicitarie, potrebbero evidenziare alcune buone pratiche per ridurre i rischi. Quanto al Soccorso Alpino, da anni portiamo avanti importanti progetti dedicati alla prevenzione degli incidenti in montagna con iniziative nazionali spesso realizzate insieme al Club Alpino Italiano».
Ma il singolo escursionista (sciatore, alpinista, trekker, rocciatore) come deve comportarsi?
«Pianificare accuratamente la propria attività, usare un’attrezzatura adeguata. Adoperare sempre il buon senso».
I consigli pratici prima dell’uscita?
«Prima di qualsiasi attività sulla neve e, in particolare, la pratica dello scialpinismo e le gite con le ciaspole, è opportuno consultare con attenzione i bollettini niveo-meteorologici locali, quali quelli dell’Arpa, per verificare eventuali condizioni di criticità. Dotarsi sempre di dispositivo Artva, pala e sonda per le gite scialpinistiche o con le ciaspole è fondamentale nel caso in cui si affronti un’emergenza. Non esitare a contattare e ad affidarsi ai professionisti della montagna. In sintesi, lo ripeto: pianificare, documentarsi, attrezzarsi adeguatamente e, soprattutto, saper rinunciare».
Le vittime dello scorso fine settimana erano tutti scialpinisti. Secondo lei il «fuoripista» dovrebbe essere regolato diversamente?
«Sono scelte che spettano agli amministratori pubblici, ma personalmente trovo molto difficile e poco ragionevole applicare divieti in un ambiente come quello della montagna. Le nostre statistiche degli ultimi anni ci indicano dove è necessario intervenire o dove è importante rafforzare la prevenzione. Si può ragionare su come provare a ridurre gli incidenti, ma non possiamo dimenticare le migliaia di interventi che ci vedono impegnati in sentieri molto semplici o di media montagna. Bisogna dunque ragionare a 360 gradi e non su una singola attività sportiva».
Il cambiamento climatico incide? Colpisce vedere le immagini di vette per nulla imbiancate e leggere di queste disgrazie ad alta quota.
«Il clima in montagna come in pianura sta cambiando. Mutamenti repentini di pressione, inverni sempre più miti, fenomeni metereologici più violenti ed estremi, penso ad esempio alla tempesta Vaia del 2018, rendono l’ambiente montano più fragile e di conseguenza più “insidioso” per chi lo frequenta occasionalmente o lo vive nella quotidianità».
Le valanghe sono più frequenti rispetto al passato?
«Sicuramente rispetto al passato sono molte di più le persone che frequentano l’alta montagna. Oggi la montagna è sempre più accessibile a tutti: sia in termini di avvicinamento alle quote più elevate con funivie e impianti, sia in termini di documentazione e di possibilità di acquisto di buoni materiali tecnici a un prezzo abbordabile. Senza dubbio, anche l’aumento delle temperature nei grandi centri urbani attrae sempre più persone durante la stagione estiva. Le valanghe ci sono sempre state e ci saranno sempre, potrebbe variare il numero di persone che si trovano in quelle aree. Come detto occorre lavorare sulle attività e le iniziative di informazione e formazione per favorire tra i frequentatori della montagna un approccio consapevole e prudente».
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Chi erano le tre vittime e chi è il superstite
di Alessio Ribaudo
(pubblicato su corriere.it il 14 aprile 2023)
Tutti conoscevano profondamente la montagna, erano dei professionisti e stavano frequentando il corso per diventare guide alpine della Valle d’Aosta. Erano già aspiranti guide qualificate ed erano impegnati per superare quello che è in pratica l’ultimo gradino della formazione.
Il più giovane era il finanziere Elia Meta, 36 anni di Ravenna ma in servizio nella caserma di Entrèves, dopo un passato in Marina e, prima ancora, come meccanico a Cesena. Era uno sportivo appassionato non solo di montagna ma anche di bicicletta. A soli cinque mesi era stato accolto in una casa famiglia. «Era appassionato a quello che faceva, lo faceva per passione. Lo faceva proprio con sicurezza, si impegnava a farlo bene», racconta da Bertinoro (Forlì-Cesena) la madre Mariella Della Corna. Lascia la moglie e un bimbo di quattro anni.
Lorenzo Lollo Holzknecht, invece, aveva 38 anni ed era non solo un maestro di sci ma era stato anche un campione di scialpinismo, di Sondalo ma cresciuto a Bormio, che in carriera vinse un oro (in staffetta nel 2010), un argento e due bronzi ai campionati mondiali, oltre a due ori, un argento e un bronzo ai campionati europei. “Nonostante in questi ultimi 10 anni mi sia tolto delle belle soddisfazioni sportive, ho passato decisamente troppo tempo a gareggiare in giro per l’Europa con la nazionale di scialpinismo con uno sci lungo 164 cm” raccontava qualche tempo fa. “Da ex atleta, mi dedico allo sci alpinismo d’esplorazione, ovviamente con molti più centimetri di superficie sotto ai piedi! Diventerò maestro di sci alpino e al momento, sto frequentando il corso aspiranti guide alpine; ma in tutta onestà, spero di riuscire a vivere al mare almeno una parte dell’anno, dove poter scalare grigie pareti di calcare scaldate dal sole, tra i profumi della macchia mediterranea”. In una nota della Federazione italiana sport invernali «Il presidente Flavio Roda, il consiglio federale e tutta la Fisi rivolgono le più sentite condoglianze alla famiglia di Lorenzo in queste ore difficili». Lorenzo Lollo Holzknecht lascia la compagna e un figlio. «La notizia ha lasciato tutti sgomenti – dichiara il sindaco di Bormio, Silvia Cavazzi – perché Lollo era molto conosciuto e apprezzato in Alta Valle anche per la sua attività di guida alpina, incominciata subito dopo aver abbandonato, una decina di anni fa, l’attività di scialpinista di livello assoluto».
Quindi, Sandro Dublanc, di 43 anni, maestro della scuola di sci di Champorcher, di cui è stato anche direttore fra il 2012 e il 2019. «Sandro è diventato maestro di snowboard nel 2008 — racconta Valeria Ducler, attuale direttrice — è sempre stata una persona molto educata, taciturna, molto attenta alla clientela. La montagna ha cominciato a conoscerla grazie ad alcuni ragazzi più grandi compaesani che lo hanno coinvolto nelle prime ascensioni. La sua passione non si è mai spenta finché ha deciso di intraprendere questo percorso di aspirante guida. Questo inverno, dopo il passaggio di consegna a me nel 2019, ha lavorato ancora per noi, dividendosi con l’allenamento per essere al top per questo ruolo alpino, e il maestro di sci, sia in settimana che nei weekend. Amava tanto gli animali e aveva gatti e galline che accudiva con tanto affetto. Noi, di certo, lo ricorderemo per sempre con il suo mezzo timido sorriso e gli occhi blu cielo».
«Stava per coronare il suo sogno di diventare guida alpina»: lo racconta Giuseppe Cuc, presidente dell’Associazione valdostana maestri di sci, che aggiunge: «Era innamorato della montagna, era una bella persona, non si arrabbiava mai. Riservato e gentile, era sempre attento al bisogno degli altri. Avrebbe dovuto completare gli ultimi 16 giorni di corso per ottenere il titolo di guida alpina a tutti gli effetti».
Il superstite
Secondo una prima ricostruzione, una massa di neve si è staccata intorno alle 14 sotto il Picco di Goletta, a circa 3250 metri di altezza, nei pressi del Colle della Tsanteleina, vicino al confine con la Francia. I quattro sono stati travolti dalla slavina mentre erano nella fase di discesa. Il ripido pendio si è staccato sotto ai loro sci ed è crollato a valle. L’unico sopravvissuto è l’istruttore del corso per guide alpine, Matteo Giglio, di 49 anni, residente in Valle d’Aosta, che, pur semisepolto, è riuscito a scampare alla slavina riuscendo a «galleggiare» sulla neve. Quindi, si è tirato fuori dopo qualche decina di metri. Subito ha cercato i suoi allievi, con l’ausilio dell’apparecchio per la ricerca in valanga (l’Artva). Una volta individuati lungo la «colata», a poca distanza l’uno dall’altro, si è messo a scavare con la pala per estrarli dalla neve. Nessuno dava segni di vita, i volti erano già cianotici. Essendo in una zona dove non c’è segnale telefonico, Giglio ha quindi deciso di scendere: ha impiegato circa un’ora, con un solo sci e un solo bastoncino, per raggiungere un punto più a valle dove il telefono ha iniziato a funzionare e ha potuto dare l’allarme, che è stato raccolto sia in Italia sia in Francia. Da Courmayeur è decollato l’elicottero «Sierra Alpha» con le guide alpine e il medico del 118, oltre agli uomini della Guardia di Finanza di Entrèves. Nonostante il maltempo, in pochi minuti ha raggiunto la zona della Tsanteleina. Giglio è stato recuperato e subito trasportato al Pronto soccorso dell’ospedale Parini di Aosta: pur essendo sotto choc, le sue condizioni erano buone, avendo riportato solo alcune contusioni. «Non ho nulla da dire, nulla da raccontare», ha tagliato corto.

Il cordoglio
«Siamo vicini al dolore delle famiglie — ha detto il presidente della Regione Valle d’Aosta, Renzo Testolin — e a tutta la comunità delle Guide alpine, rappresentata dall’Unione valdostana guide di alta montagna e alla Guardia di Finanza, così come la nostra vicinanza, in queste ore, va a tutti i professionisti che, sin da subito, si sono attivati con impegno e dedizione nelle difficili operazioni di soccorso, impegnative anche da un punto di vista emotivo, in relazione all’esito delle ricerche che purtroppo, nonostante tutti gli sforzi profusi, non hanno consentito di salvare le tre giovani vite». Poi ha aggiunto: «perdiamo tre uomini di montagna che sognavano di proseguire nel loro percorso volto a trasformare la propria passione in professione. La loro scomparsa si inserisce in una serie di tragici incidenti che quest’anno hanno funestato le Alpi e che ci sollecitano a tenere alta l’attenzione e l’impegno riguardo al tema della sicurezza in montagna su cui la Regione intende continuare a investire».
Un precedente
Proprio quest’ultima tragedia ha riportato alla mente quella del 17 settembre 1985, quando un altro incidente aveva funestato il mondo delle guide alpine valdostane: in quel caso un istruttore e cinque aspiranti guide, tutti ragazzi dai 18 ai 33 anni, morirono dopo essere precipitati dalla parete orientale del Lyskamm.
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Ecco finamente che il Crovella si è rivelato!
Pensava già prima che l’articolo uscisse che le 4 guide alpine erano nel torto ma non lo aveva dichiarato apertamente, mentre piano piano l’ha fatto.
Tattica (non strategia, badate bene) da quello che da casa giudica tutto ma sul terreno, nonostante ci abbia ammorbato più e più volte con i suoi requisiti da Istruttore Caiano super stimato, ecc, ecc…, non pare il fenomeno che dice di essere.
Crovella, faresti bene a startene zitto una volta tanto, soprattutto perché mentre quella valanga scendeva a valle tu non eri lì.
@114 Carlo Crovella: così avevo inteso e lo condivido. Di seguito faccio le mie riflessioni, positive o negative comunque senza polemiche o sentenze. A me sembrava che l’articolo servisse a questo!
forse semplicemente perché il dato aineva è un dato attratto e il canalone un luogo concreto. Una indicazione di pericolo è un indice generico, certamente da valutare, ma alla fine conta la situazione specifica.
Per quello ha un senso l’analisi (anche a fini preventivi) su dati oggettivi riferiti al singolo evento e non il pippone crovelliano fondato su pregiudizi e preconcetti che nulla aggiunge se non l’ennesimo tritolio di zebedei.
Quante volte sono partito per cascate o gite su ghiaccio (specie qui in Apuane, dove le condizioni mutano in un lampo) a fronte di dati generali che sconsigliavano e invece quella via in concreto era in condizioni perfette.
certo vi sarà chi sottovaluta o chi non è in grado di prendere con cognizione di causa di dati del rischio, ma prendere spunto dall’incidente di rhemes mi pare una scemenza colossale, in assenza di qualunque dato su luogo, condizioni dinamica e a fronte del solo grado astratto di pericolo, tenuto conto anche del fatto che riguarda quattro superprofessionisti.
Last but not least, che far queste analisi sia Crovella che non mi risulta sia propriamente il Jean Marc Boivin piemontese e che coglie l’occasione di un incidente grave con tre morti per veicolare la solita litania, aggiunge cattivo gusto alla totale inutilità dell’analisi (e non ci fa bella figura neanche il padrone di casa).
“Ideologica” nel senso di un’interpretazione legata ad una valutazione pre-giudiziale dell’andare per monti contemporaneo e delle caratteristiche valoriali e comportamentali di una quota rilevante degli attuali “praticanti” in linea con il pensiero “crovelliano”.
Giusto nell’analisi separare i due momenti: il prima e il durante. Perché pur disponendo di dati in abbondanza (oggi abbiamo in tutti i campi persino un eccesso di dati) si commettono errori di valutazione anche prima? Forse la risposta sta nel fatto che siamo uomini e non algoritmi di un’intelligenza artificiale. Questo significa che filtriamo i dati e li trasformiamo in “informazioni” . Cioè in un fattore decisionale che contiene elementi oggettivi ed elementi soggettivi. Penotti ha fatto un esempio di come viene interpretata una scala apparentemente oggettiva. Nel vostro articolo voi individuate due possibili “pregiudizi cognitivi”. Ce ne sono comunque tanti altri. Ad esempio gli studi sugli errori dei piloti danno molto peso alle dinamiche di gruppo. Per ora non sappiamo nulla a questo proposito dell’incidente in Val di Rhemes e probabilmente non lo sapremo mai, essendoci un solo sopravvissuto. Io non ho personalmente conoscenza di studi sistematici e quantitativi in merito allo scialpinismo. Anche lo studio della Petzl è qualitativo. Quindi possiamo solo ipotizzare la frequenza relativa di un “pregiudizio cognitivo” rispetto all’altro. Ma anche questa ipotesi è molto soggettiva e influenzata dalle nostre idee. Proprio questa che componente “soggettiva” penso abbia generato la reazione negativa di molti lettori che vi hanno visto un aspetto “ideologico”.
Beh… non voglio ricominciare il giro di giostra dall’inizio, ma il punto e’ che, nelle riflessioni elaborate, non c’è nessun senso-di-poidismo. Ciò che lascia sbigottiti è che si scelgano itinerari che, la sera prima, si capisce già che sono completamente sconsigliati poiché in contrasto con i bollettini AINEVA e meteo. Sono scelte sbagliate gia’ ex ante, non solo ex post. È questo il punto chiave dei ragionamenti.
Carlo, se è capitato che siamo andati fuori tema, probabilmente sentivamo il bisogno di parlare di un’altra cosa, sempre suscitata dalla riflessione da voi impostata, ma estranea a questa – come tu rilevi – in quanto evidentemente ne abbiamo percepito un pregiudizio cognitivo grave. Infatti voi date per certo, a priori, un errore di valutazione che, invece, è tutto da dimostrare. Capisco che è difficile farlo, ma non possiamo trattare un incidente con quello che ho definito “senno-di-poi-ismo”, cioè con la evidente asimmetria che comporta il sapere come è andata a finire; la pianificazione della gita si fa infatti sulle sole informazioni disponibili ex-ante.
Molti degli interventi sono fuori tema rispetto al perno concettuale dell’articolo.
La riflessione che ci siamo posti Gogna ed io è stata “Come mai, nonostante l’abbondanza di informazioni capillari e disponibili già la sera prima, accade così spesso che scialpinisti (a volte anche “esperti”) commettano gravi errori strutturali nella scelta dell’itinerario rispetto alle condizioni del momento?”.
Le nostre riflessioni riguardano quindi la tipologia dei fattori determinanti per una decisione PRIMA della PARTENZA per un’ESCURSIONE, e NON durante lo svolgimento della stessa.
Di conseguenza ogni valutazione sulle dinamiche di questi specifici incidenti è totalmente fuori dal campo di riflessione dell’articolo, così come risultano essere molti dei commenti che spaziano su temi collaterali, ma estranei al ceppo concettuale dell’articolo.
@99 Giuseppe Penotti: grazie del chiarimento. L’American Alpine Climbing pubblica annualmente dal 1948 nel suo libro “Accidents in North American Climbing” resoconti simili al tuo. Come socio CAI a me farebbe piacere leggere una pubblicazione simile per l’Italia (tra l’altro nell’iscrizione all’AAC è compresa la pubblicazione sugli incidenti). Ciao.
Certo. ma il secondo postulato della legge della sfiga di Penotti dice che se commetti un errore, la sfiga completerà il lavoro da te iniziato. Ergo, era ovviamente l’altra corda. 😉
Benassi, non fare l’istruttore caiano 😉 🙂 spero che le faccette aiutino!
L’autobloccante c’era, ma se un corda non è moschettonata al discensore, non blocca perché l’accrocco non va in tensione. Provare per credere, preferibilmente a due metri da terra con sotto un bel prato morbido. 🙂
107. Vittorio. Concordo, anche a me piace molto la piega che ha preso la discussione e mi trovo in sintonia su quanto scrivi. Ammetto che la mia idiosincrasia già enunciata e motivata verso l’analisi ex post degli incidenti in montagna va un po’ a elidere la necessità, più reale e tangibile, di avere argomentazioni valide in sede di dibattimento penale. Diventa un terreno scivoloso su cui difficilmente io “battitore libero” potrei trovarmi, al contrario di un istruttore CAI che subisce questo rischio. E di questo devo prendere atto. Sulla parte più squisitamente giurisprudenziale forse MG potrebbe dare qualche indicazione o suggerimento qualificato, ma emotivamente continuo a pensare che un procedimento penale come state subendo sia una aberrazione. Penso e ritengo che accompagnare in montagna, in un ambiente pertanto oggettivamente pericoloso persone adulte, consapevoli e già parzialmente formate non dovrebbe far scattare un procedimento penale.
Certo, se una scuola CAI o una Guida accompagnasse dieci ragazzi quattordicenni di uno sci club per scendere il canalone di Lourousa, direi che siamo al limite della follia e un processo penale sarebbe giusto ed inevitabile. ma non è certo questo il caso.
Potrebbe essere utile, proprio per quanto ha giustamente esposto Pasini, che gli istruttori CAI possano godere della libertà di scelta personale dell’Avvocato Penalista che li dovrà seguire pur godendo dell’ombrello economico del CAI sia per gli eventuali risarcimenti civili (mi sembra sia già così) sia per il pagamento degli onorari, che è noto, per i dibattimenti penali possono essere decisamente onerosi. E al posto di inutili sermoni, oltre a specificare le insidie e le trappole di un procedimento penale, anche selezionare un elenco di bravi penalisti ben preparati su questo tipo di cause, potrebbe essere più pratico.
Nel caso la vostra vicenda si chiudesse non bene, oltre a colpire la vostra vita personale come una mazzata devastante, ho l’impressione che tutte le attività alpinistiche del CAI di formazione e insegnamento subirebbero un duro colpo a causa del precedente giurisprudenziale. E, ribadisco, lo considererei ingiusto anche se per molti motivi il CAI è molto distante dalla mia idea di montagna.
Quindi analizzare un incidente, magari con l’aiuto di chi c’era e può dire come sono andate le cose, può essere di aiuto per l’aspetto tecnico e miglioraci enon fare più errori tecnici assai gravi.
Poi con la tecnica ed il manuale non si risolve tutto. L’istinto, il fiuto del pericolo, un pizzico di paura, ed una certa dose di culo, aiutano molto.
Penotti, leggendo quello che racconti, appare evidente che quanto ti è accaduto è la classica CAPPELLATA dovuta, non tanto per ignoranza, quanto piuttosto per distrazione, stanchezza o troppa sicurezza ed bitudine a fare la manovra molte volte, quindi imparata a memoria, tanto da farla ad occhi chiusi.
Inoltre prima di passare le corde nel discensore avresti dovuto, con un cordino, costruire un nodo autobloccante sulle corde. Questa (consigliabile) prudenza, avrebbe impedito lo scorrimento della corda ed eviato l’incidente perchè le corde non avrebbero scorso nell’ancoraggio.
Se poi le corde erano 2, sei stato sfigato, perchè se infilavi l’altra, il nodo di giunzione, magari avrebbe fatto da tampone sull’anello dell’ancoraggio.
@99 -106 mi pare che la discussione abbia preso una piega interessante, finalmente viene fuori l’umanità anche fragile dell’alpinista “umanamente folle e follemente umano” come diceva Camanni nella splendida introduzione a “Mal di montagna”.
Siamo orgogliosi di una passione forte che spesso nasce e si sviluppa come alternativa alla dimensione “borghese” dell’esistenza, per quanto in essa si resti comunque imprigionati (lo dice benissimo in un suo pezzo Massimo Mila). È naturale quindi che come me molti alpinisti, romanticamente ingenui, non siano molto ferrati in quelle malizie mondane di cui sono maestri gli avvocati. A mie spese ho constatato in prima persona la verità di quanto dice Pasini @98 sulla difesa legale, mai fidarsi di un avvocato scelto da altri. Diciamo che, se non ci arrivano da soli, gli istruttori CAI non hanno anticorpi su questo, perché la loro formazione sulla responsabilità civile e penale si basa sugli inutili sermoni orali e scritti di un ex presidente-avvocato mentre assai più utile sarebbe un compendio rapido sulle trappole del processo penale, a partire proprio dal rischio di diventare capro espiatorio di una grande organizzazione.
Comunque Giuseppe (102), mi piace la tua “confessione” che credo ogni alpinista possa sentire sua, e mi piace anche quando sottolinei (99) l’irripetibilità e irriducibile soggettività di ogni incidente e situazione rischiosa, che la rende incommensurabile ad altre e sfuggente ad ogni generalizzazione. Parte di un gioco condiviso, direi semplicemente. È vero, ogni incidente si genera da una serie di fattori alcuni dei quali non appartengono neppure al dominio della tecnica e non sono analizzabili o classificabili. E però prima o poi la realtà chiede il conto e mi limito a due aspetti:
1 sul classico esempio della doppia, è diverso quando senti un generico ammonimento sulla pericolosità della manovra, o quando ascolti un aneddoto raccontato nel dettaglio da un amico o da un grande dell’alpinismo, come nel resoconto di Gagliardone sulla morte del Fortissimo, o ancor più quando ci passi tu personalmente rischiando la pelle, come è capitato a tutti penso; diciamo che una analisi tecnica ben fatta potrebbe sensibilizzare a una maggiore attenzione a livello preventivo.
2 Ma ecco dove veramente l’analisi ci serve, e se la facciamo noi alpinisti prima possiamo farla a ragion veduta e senza le distorsioni che si verificano nelle aule dei tribunali, dove il contatto con la realtà dei fatti si perde, tanti sono i filtri che orientano il dibattito secondo le convenienze degli attori coinvolti.
Quando si tratta di uscita con responsabilità di accompagnamento, di qualsiasi genere, ricordiamoci che siamo su un filo di lama: da una parte ogni procedimento penale ingiustamente prolungato comporta un carico aggiuntivo di sofferenze agli imputati già provati dalla tragedia; dall’altra ogni archiviazione o assoluzione frettolosa impedisce alle vittime di accedere ai risarcimenti del danno subito. È naturale quindi cercare, attraverso l’analisi, dei riferimenti attendibili su cui i “portatori di interesse” possano orientarsi, gli uni per difendere i propri membri, gli altri per indagarli, le assicurazioni infine per rimborsare i danni.
Potrebbe essere un ottimo compromesso la distinzione fra responsabilità civile (risarcimento danni) e penale (carcere), ma vedo che in alcuni casi le procure infieriscono sugli imputati anche a danno risarcito. Inspiegabile, se non con una concezione punitiva della giustizia che dovrebbe essere superata almeno dai tempi della Costituente.
Qui mi fermo, auspicando da un lato che, di fronte alle tragedie di quest’anno, le procure non vogliano infierire sulle vittime sopravvissute, dall’altro che ome dice Dino @106 ogni associazione “di categoria” (CAI, Collegio Guide) metta tutto il proprio peso istituzionale, senza riserve, a sostegno di un equo trattamento giuridico dei propri membri volontari o professionisti, per la serenità del loro operato.
Vittorio: in premessa del mio post ho premesso che quanto scritto non si riferiva assolutamente alla vostra sfortunata vicenda dove la penso come Penotti al 66. Per il resto concordo con Alberto. Però “il sistema” in cui agiamo è questo e dobbiamo farcene una ragione; la nostra associazione può fare tanto e spero si attivi rapidamente per consentire a noi Istruttori di svolgere la nostra opera con maggior serenità
Una situazione quasi copia e incolla alla Sua, generata da doppie notturne e per , fortuna con conseguenze meno gravi, a me ha insegnato a usare corde corte, anziché cercare il segno di metà!!
Penotti. Io ho avuto un incidente simile al tuo alla famosa Porcilaia di Baiedo, un’orrenda placca ammorbata dal puzzo del vicino allevamento di maiali. Giovani e baldanzosi, irriverenti, appena usciti dalla Parravicini, corda singola, ovviamente senza casco, con fascetta d’ordinanza, faccio salire il compagno, cazzeggiamo e ridiamo, butto la corda convinto che sia la metà e non faccio nodi in fondo, nodi in fondo alla Porcilaia non scherziamo che ti prendono per il culo tutti, scende il compagno, si sfila la corda e fa un volo di schiena di quattro metri, emoragia renale, rottura del polso, rischia paralisi a vita. Mentre aspettavo la diagnosi al pronto soccorso di Lecco ho fatto una promessa agli dei: se me lo restituite vivo e integro porterò sempre il casco, farò sempre i nodi in fondo anche se scendo di 10 metri, guarderò il segno di meta’ corda con attenzione e me fottero’ di cosa dicono gli altri. Promessa mantenuta per 50 anni. L’analisi degli errori può generare procedure preventive, ad esempio, anche nella nostra testa.
101. Roberto. E quindi?
Usiamo ancora l’errore personale che ho citato, così non tocchiamo esempi terzi che potrebbero risultare indelicati.
Mi schianto e mi ammazzo. L’analisi dell’errore evidenzierà il mancato moschettonaggio della corda e il conseguente incidente. Quale é la probabilità che possa capitare ad un altra persone che al pari di me, nella sua vita ha fatto migliaia di doppie? Ma se anche avesse una qualsivoglia utilità in termini probabilistici, quale processo eviterebbe il ripetersi dell’errore? Credo nessuno. Sei da solo in sosta, nessuno di fianco a te che possa fare un check anche solo visivo e immediato.
Sono d’accordo con te che in altri campi, soprattutto quello economico o sociale, l’analisi degli errori possa individuare processi o metodi tesi a limitare (ma non eliminare) la ripetizione.
Ma in montagna, le nostre motivazioni e la nostra emotività sparigliano le carte. Tu mi sai dire perché vai in montagna? Io a sessanta anni non so ancora darmi una risposta. A volte penso di essere un po’ scemo. Ho faticato come una bestia, i giorni successivi a una uscita rincagnito dei dolori articolari e muscolari. Sofferto il caldo, il freddo, la sete e la fame. Tendini e capsule delle mani ridotte ai minimi termini, articolazioni delle ginocchia usurate, una colonna spinale con una placca in titanio e sei viti. E pensi che uno che si concia così si metta ad analizzare incidenti? Ha già dato prova di non essere tanto a posto….
100. Govi.
Al contrario di Crovella, io non ho certezze granitiche ma opinioni, su cui esercito sempre il principio del dubbio applicato ame stesso.
Hai ragione quando scrivi che diventa complicato considerare errore ogni scelta che differisca dalla massima prudenza. Ma è questo il punto, ci muoviamo in un ambiente e con aspettative emotive, consapevoli o meno, che non ci portano mai ad agire con la linea della massima prudenza. Agissimo così, non andremmo in montagna…
Penotti. Giuseppe non sono d’accordo sul piano del metodo circa l’inutilita’ dell’analisi degli errori anche cognitivi. Ci sono possibilità di indagine : interviste ai sopravvissuti, analisi delle tracce materiali o elettroniche….anni fa fui convolto in una diagnosi degli errori di previsione in campo economico e riuscimmo a individuare alcuni tipici processi mentali individuali e collettivi che stavano alla base di molti errori. Gli uomini sono unici ma gli “algoritmi” impiantati non sino così originali, tendono a ripetersi. Questo è fondamentale sia per le attività di prevenzione primaria sia per posizionare degli “allarmi” di diagnosi precoce dell’errore che sta per essere commesso. Questo ovviamente non garantisce nulla ma può aiutare, come il famoso istinto che ti ha salvato nella doppia.