Dopo la tragedia della Valle di Rhêmes

Dopo la tragedia della Valle di Rhêmes
di Carlo Crovella e Redazione

E’ sempre complicato elaborare delle considerazioni subito dopo incidenti mortali in montagna, come quelli derivanti dalle valanghe della prima metà dell’aprile 2023.

Ad inizio aprile due torinesi sono morti sotto una valanga allo Château des Dames, versante Valtournenche. Negli stessi giorni, altri due morti in Alto Adige. Poco dopo, quattro vittime in Alta Savoia. A metà mese ben tre vittime in Valle di Rhêmes, durante un’uscita del Corso Guide Valdostano.

Poiché si tratta, in genere, di persone considerate “esperte” (gli aspiranti Guide fuori da ogni dubbio, i due amatori torinesi erano noti per la loro intensa attività), è inevitabile interrogarsi sull’argomento.

Qualcuno si domanda se “siamo tutti impazziti”, se “non seguiamo più i parametri che ci hanno insegnato (e che, spesso, noi stessi abbiamo insegnato ad altri)”? Altra domanda: “E’ cambiato il contesto generale, per cui non volgono più le regole storiche?”.

Picco della Goletta (a sinistra) e Tsanteleina

Non sono domande da poco, perché su tali interrogativi si pone la vita delle persone. Certo stupisce che si registrino situazioni drammatiche in uno scenario tecnologico sempre più evoluto: bollettini aggiornatissimi e accessibili con facilità, cultura nivologica diffusa a tappeto, materiale iper-performante (ad esempio gli ARTVA digitali hanno una velocità di localizzazione dei sepolti che non è confrontabile con la ricerca umana consentita dai vecchi ARTVA analogici).

Allora perché così tanti incidenti da valanga e, soprattutto, così tanti morti? Si può morire anche staccando un piccolo pendio con un fronte di venti metri, ma la sensazione generale è che si tratti di distacchi “consistenti”, roba da “quasi non crederci”. Come mai si finisce sotto valanghe di tali dimensioni, nell’era del “tutto è prevedibile”?

Una puntualizzazione di base: il tema nivologia-valangologia, per quanto ormai analizzato a fondo, avrà sempre in sé una componente di non totale prevedibilità. Una componente di fatalità, connessa alla stessa fisiologia dei fenomeni naturali, esisterà sempre. Proprio per questo, però, occorre tenersi un ulteriore margine di prudenza, cioè saper rinunciare o girare alla larga dai pendii potenzialmente problematici.

Qui scattano alcune variabili che caratterizzano i nostri tempi. Ne elenchiamo tre che non erano rilevanti poco tempo fa e che invece stanno prepotentemente conquistando la scena.

I soccorritori all’opera su un elicottero per individuare e recuperare i tre cadaveri. Foto: ANSA.

1) Il generale problema del cambiamento climatico, comportando un innalzamento delle temperature, sta modificando le “leggi implicite” della nivologia, almeno come le abbiamo studiate nei decenni scorsi. Le abbiamo sempre considerate come qualcosa di oggettivo e immutabile, invece pare che il manto nevoso si stia comportando secondo regole un po’ diverse, in particolare per quanto riguarda la modalità e la tempistica del suo assestamento post nevicate: tutto ciò proprio perché sono cambiate strutturalmente le temperature. Sulle valanghe non incide solo la temperatura dell’ambiente, ma anche altre variabili come il vento. Non basta quindi leggere solo il numeretto del pericolo AINEVA, occorre valutare il contorno: la maggior imprevedibilità del manto nevoso ci dovrebbe quindi far tenere un margine prudenziale molto maggiore rispetto al passato.

C’è chi fa l’ipotesi che, oggi come oggi, dovremmo aggiungere un mezzo grado alle valutazioni AINEVA. Il pericolo 3 lo dovremmo considerare come un “3 e mezzo”, se non addirittura un “4 meno”. E così di conseguenza, per cui le gite impegnative andrebbero fatte solo con pericolo 2 (che, all’atto pratico, sarebbe un “2 e mezzo”).

Premesso tutto ciò, in molti incidenti da valanga si possono ravvisare le conseguenze di due trend socio-culturali, tipiche aberrazioni della società dei giorni nostri.

2) Dapprima abbiamo la tenaglia degli impegni a raffica. Che sia il Corso Guide o la Gita Sociale del CAI o anche solo un combino fra amici, la nostra esistenza è scandita dall’agenda degli impegni e dei programmi a tambur battente. Di conseguenza molto spesso si decide di “partire” lo stesso per l’escursione, perché ci sono tempistiche e target organizzativi da rispettare. Questo spinge a sottostimare la valutazione del pericolo in quella specifica giornata. Non riusciamo a rinviare a domani (figurati al prossimo weekend…), perché abbiamo l’agenda fitta di bandierine, mica le spostiamo ai giorni successivi “solo” perché, oggi, le condizioni della montagna non sono più che perfette!

Se il programma è collettivo (e questo a tutti i livelli tecnici, dai corsi per principianti e dalle gite sociali fino alle uscite dei corsi per guida alpina), il fenomeno coinvolge più persone e diventa una jungla intricatissima. Impossibile spostare/annullare: magari si sono versate caparre, prenotati rifugi e pullman, prenotati professionisti, oppure i professionisti hanno rinunciato ad altre possibilità di lavoro e non si può dar loro buca, pena pagarli a vuoto. Gli stessi aderenti ai programmi storcerebbero il naso: “Ma come, con tutti gli strumenti tecnologici che esistono oggi, le webcam in quota, i bollettini, i social, possibile che non sappiate trovare un itinerario sicuro?”. Manca poco a sentir dire: “Ma cosa mi iscrivo a fare al programma collettivo, se poi l’unica ipotesi che propongono i responsabili di tale programma è starcene a casa?”

E’ normale sentire “Dai, facciamo lo stesso un’uscita oggi, che domani io ho questo da fare, lui è iscritto a quella gara, l’altro ha già dei clienti da accompagnare…”. Stare nei tempi organizzativi calendarizzati, costi quel che costi, sembra la prima preoccupazione. Di queste “miserie” umane la montagna si è sempre infischiata. La montagna non ha mai ragionato con i parametri umani e, oggi, ancor meno per lo scombussolamento conseguente ai cambiamenti climatici.

3) L’altro fenomeno socio-culturale, di natura simile, è l’approccio “mordi e fuggi”, tipico in particolare degli amatori forti e appassionati. Non si sa resistere al “richiamo della foresta” e s’infila l’escursione fra mille altre cose della quotidianità, senza aver fatto una valutazione oggettiva e prudenziale della situazione in montagna. La passione bruciante, l’esperienza accumulata e la sensazione di forza atletica spesso portano a dare per scontato che, di riffa o di raffa, una cima si può sempre mettere nel carniere. “L’abbiamo già fatto, quindi che motivo c’è a rinunciare proprio oggi?”.

Il canalone nel quale si svolge la via di salita allo Château des Dames.

Bollettino AINEVA del 12 aprile 2023 con le previsioni per il 13 aprile
“Risale il pericolo valanghe nell’Ovest della Valle d’Aosta. La neve fresca e quella ventata sono la principale fonte di instabilità del manto sopra i 2.500 metri di quota. Attenzione in prossimità di creste, conche e canaloni.

Risale il grado di pericolo valanghe a 3-marcato lungo le dorsali di confine estero e con il Piemonte, in un arco che va da Cervinia e Alta Valpelline alla Valgrisenche. Il grado è comunque 2-moderato in gran parte del resto della Valle d’Aosta.

Per giovedì 13 aprile 2023, il bollettino regionale preannuncia che vento – a tratti forte – causerà il trasporto della neve fresca, con formazione di spessi accumuli che rappresentano la principale fonte di pericolo. Le valanghe possono subire un distacco negli strati superficiali del manto nevoso già in seguito al passaggio di un singolo escursionista. Attenzione nelle zone in prossimità delle creste, nelle conche e nei canaloni e sui pendii ripidi. Con il cattivo tempo, i punti pericolosi sono appena individuabili”.

A questo link, il bollettino neve e valanghe, illustrato da Andrea Debernardi di Fondazione Montagna sicura. 

Questa è la mappa AINEVA a colori del 13 aprile 2023: arancione = pericolo 3.

L’incidente in Valle di Rhêmes
Dell’incidente in Valle di Rhêmes del 13 aprile 2023 si conoscono solo alcuni dettagli giornalistici che riportiamo per dare un quadro di insieme. Per quel giorno e per quella zona, il pericolo AINEVA era 3, cioè “marcato”, il che significa (al netto dell’eccesso prudenziale di cui al punto 1) che il distacco è possibile già con un debole sovraccarico (“sciatore che effettua curve dolci e che non cade, escursionisti con racchette da neve, gruppi che rispettano la distanza di 10 m”). In parole semplici: la neve è in equilibrio precario, basta niente e parte la valanga. In più il bollettino diffuso in TV (TGR VdA) metteva in guardia per l’aumento del pericolo di valanghe proprio in quei giorni, causa recenti nevicate e forte vento.

Dalle fonti giornalistiche sembra che l’incidente sia avvenuto in fase di discesa nella zona del Picco di Goletta 3291 m, vicino al Colle di Tsanteleina 3154 m, e che a incidente avvenuto l’istruttore sia riuscito a localizzare e liberare i compagni (già cianotici), e poi sia sceso, su uno sci solo, a cercare il campo del telefono per allertare i soccorsi. Nel frattempo la situazione meteo, che non doveva esser perfetta fin dal mattino, è peggiorata drammaticamente: il vento si è intensificato, accompagnato da nebbia. Per questi motivi e per l’avvicinarsi del buio il Soccorso Alpino Valdostano e quello della Guardia di Finanza hanno interrotto le ricerche alle 19. Le vittime sono state recuperate il giorno successivo e portate in elicottero ad Aosta.

Le vittime sono Lorenzo Holzknecht (38 anni), campionissimo dello scialpinismo, originario di Sondalo, con un palmarès ricco di un argento e due bronzi ai campionati mondiali e due ori, un argento e un bronzo ai campionati europei; Sandro Dublanc (43 anni), maestro di sci di Champorcher; Elia Meta (36 anni), finanziere scelto della Stazione del Soccorso alpino della Guardia di finanza di Entrèves. Tre alpinisti esperti e motivati, ambiziosi, vogliosi di fare della montagna qualcosa in più. E certamente consapevoli che la montagna porta con sé dei rischi, rischi che avevano scelto di accettare per vivere a fondo la loro passione.

Con il deposito dei primi atti da parte del Soccorso Alpino della Guardia di Finanza, che sta procedendo agli accertamenti, la Procura della Repubblica di Aosta ha aperto un fascicolo sulla valanga.

Nelle prossime ore, sulla base del riscontro esterno del medico-legale sui cadaveri, il magistrato deciderà se siano necessari approfondimenti tramite l’autopsia delle vittime. L’obiettivo degli inquirenti è ricostruire l’accaduto e accertare eventuali responsabilità. La relazione del Soccorso alpino della guardia di finanza è ora sulla scrivania del pm Giovanni Roteglia.

Considerazioni
Certo, in partenza non era un quadro “sereno”. Come mai quattro esperti hanno ritenuto di poter ugualmente effettuare l’uscita?

Ad ascoltare i giudizi di alcuni, non certo i più “buonisti”, è inevitabile avere il coraggio di affermare pubblicamente che affrontare un’escursione scialpinistica “seria” con grado 4 di pericolo valanghe significa cacciarsi nei guai. Per costoro anche con il grado 3 si dovrebbe evitare l’attività scialpinistica, soprattutto quella “seria”, e con il grado 5 non si dovrebbe neppure uscire di casa.

Può capitare che degli scialpinisti, a patto che sappiano muoversi adeguatamente, realizzino una poco impegnativa escursione con le pelli anche in giornate con grado 4, proprio per l’attrazione irresistibile del manto nevoso (farina!). Ma, appunto, è lì che si gioca il tutto: questo percorso deve essere placido e tranquillo, in pratica una modestissima passeggiata da pensionati!

Se viceversa ci si va a cacciare in escursioni impegnative, come è il caso dello Château des Dames, con una serie di pendii ripidi in un vallone complessivamente ristretto tra quinte rocciose (in pratica una specie di imbuto a balze), la definizione di “esperto” risulta non congrua con la scelta. O ci si  accontenta dell’itinerario da pensionato oppure, con il grado 4, è meglio stare fermi un giro.

Il canalone nel quale si svolge la via di salita allo Château des Dames.

Se si va a controllare sull’Aruga-Poma, la celebre raccolta di itinerari scialpinistici degli anni Settanta, si scopre che lo Château des Dames è segnalato per “metà maggio-giugno”. E’ vero che, per gli scombussolamenti climatici e nivologici, le stagioni si sono “accorciate”, ma affrontare un itinerario del genere ad inizio aprile (un mese e mezzo prima!), in più dopo precipitazioni di rilievo e in una giornata con pericolo 4, lascia quanto meno interdetti.

I due torinesi sono stati trovati (sempre da fonti giornalistiche) sotto tre metri di neve. Il distacco pare sia stato spontaneo, coerentemente con il grado 4 previsto per quel giorno, ma di grandi dimensioni e in un contesto morfologico che non ha lasciato scampo.

E’ ancora troppo presto per poter discutere in modo serio sull’ultima tragedia della Valle di Rhêmes. Non ci sono fotografie disponibili del luogo dell’incidente, come pure non siamo in possesso di una precisa localizzazione. Rispetto a quanto riferito, non si hanno ulteriori notizie, almeno non di rilievo. Manca un racconto più dettagliato dell’unico testimone, cosa assai comprensibile visto il suo essere parte in causa. La prudenza in questi casi non è mai eccessiva: qualcuno potrebbe perfino azzardare che “l’essere sceso per cercare campo telefonico, potrebbe configurare l’ipotesi di omissione di soccorso (ha “abbandonato” i tre, che, forse, estratti ancora vivi, sono poi morti per il freddo, causato del fortissimo vento da nord)”. Il tema è certamente molto delicato sul piano giuridico, tanto che possiamo affermare che Matteo Giglio è la “quarta” vittima.

Dobbiamo pertanto limitarci a considerazioni di carattere generale.

Conclusioni
La correlazione fra le tre citate “variabili dei nostri tempi” configura un mix pericolosissimo. E’ fuori di dubbio che si veda in giro molta, troppa, superficialità: in parte per la generale facilità di accesso alla montagna, in parte per la dominante concezione “sportiva” che spinge a considerare l’andar in montagna come un qualsiasi sport praticato in un parco cittadino. Anche l’incremento esponenziale della tecnologia dei materiali è uno dei fattori che hanno abbattuto le barriere di ingresso alla montagna. Tutto questo non rientra nella fatalità, anzi ne riduce parecchio il significato consolatorio.

Nella sottostante intervista, il Direttore del CNSAS afferma che il Soccorso Alpino deve soccorrere senza valutare le scelte individuali dalle quali sono scaturiti gli incidenti. Non spetta al CNSAS questa valutazione, è vero. Ma il problema esiste, eccome.

Si può contenere o addirittura invertire il fenomeno? Chi sostiene che si debba agire sul lato della formazione, chi paventa/auspica divieti amministrativi e legislativi (dalle ordinanze dei sindaci a possibili norme regionali o addirittura nazionali), chi teme/invoca che i “suggerimenti” AINEVA possano diventare delle vere e proprie regole giuridiche: tipo “con pericolo 4 NESSUNO potrà fare gite scialpinistiche, neppure il pensionato nel prato dietro casa”.

La contesa è tra chi ha a cuore la libertà individuale in montagna e chi invece vorrebbe regolamenti più vincolanti: per fare un esempio, in questo preciso campo non c’è accordo neppure tra i due autori di questo saggio…! Tutti siamo d’accordo nel dire che la libertà dev’essere sempre accompagnata dalla consapevolezza, dalla maturità e dalla responsabilità. Le idee divergono nel momento in cui da una parte un obbligo viene interpretato come salvifico, dall’altra viene ritenuto il principale responsabile della mancanza di maturità.

Vi è la sensazione che da tempo sia in atto un lungo processo (già presente anche in altre discipline alpinistiche) di «desacralizzazione» dello scialpinismo, che pretende di togliere severità accentuando il piacere. In questo processo, a farne le spese è soprattutto la parola «alpinismo», come vorrebbe sottolineare la tendenza oggi generale di chiamare «skialp» ciò che invece prima era scialpinismo. Anche le mode vanno rispettate, ma qui si tratta di mettere in guardia che nessun giochetto di parole riuscirà mai a rendere «non pericolosa» quest’attività che, proprio per come e dove si svolge, rimarrà sempre alpinistica.

Il fatto stesso che da ben più di mezzo secolo nel linguaggio comune si parli di «gite» di scialpinismo la dice lunga sulla drammaticità di quest’errore. Le escursioni in montagna invernali o primaverili possono essere classificate come «gite» solo a prezzo di una colpevole superficialità di giudizio.

“Fare, fare, fare” è il totem della società attuale e l’evoluzione della tecnologia ne è lo strumento demoniaco. Dobbiamo tornare ad un approccio più naturale alla montagna. Dimenticare agende e impegni, passione bruciante e dislivelli da accumulare. Dobbiamo saper mitigare i programmi e, al limite, rinunciare.

Il gioco che domina oggi non ha senso.

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L’intervista che segue è stata pubblicata fra gli incidenti di inizio aprile 2023 e quello in Valle di Rhêmes.

Montagna e pericolo valanghe: «Il clima sulle vette sta cambiando. A volte bisogna saper rinunciare»
di Alessandro Fulloni
(pubblicato su corriere.it/cronache il 5 aprile 2023)

«Sì, bisogna pianificare, documentarsi, attrezzarsi adeguatamente ma, soprattutto, saper anche rinunciare». Maurizio Dellantonio, 61 anni, ex poliziotto, oltre a essere un uomo di montagna è anche il presidente del Corpo nazionale del Soccorso Alpino e Speleologico, la struttura (con circa 7.000 volontari) che coordina i soccorsi in vetta, una media di 10.000 l’anno. Alpinista, trentino di Moena, parla di quello che è successo sabato 1 e domenica 2 aprile 2023 sulle Alpi, dove quattro scialpinisti, tutti esperti, sono morti, travolti dalle valanghe in Valle d’Aosta e in Alto Adige. Con le due ragazze svedesi morte a Courmayeur due settimane prima (facevano fuori pista), le vittime dello sci in luoghi estremi sono state sei in quindici giorni, solo in Italia. E ora, a proposito di possibilità distacchi, valanghe e temperature, il weekend di Pasqua potrebbe illudere, con i termometri al ribasso un po’ ovunque.

Nel riquadro il Presidente del CNSAS Fernando Dellantonio

Presidente, l’assessore valdostano alla montagna Luciano Caveri si è detto «sconcertato dal fatto che gli escursionisti disattendano i bollettini che indicano cautela». Lei che cosa pensa?
«Che al Soccorso Alpino spetta il compito di soccorrere chi è in difficoltà, chiunque esso sia e ovunque si trovi. Non spetta a noi giudicare i comportamenti dei singoli, fatto salvo casi eccezionali. Tutti gli appassionati della montagna sono consapevoli che il “pericolo zero” in alta quota, come in tanti altri ambienti dove si pratica sport, non esiste. Basti pensare che l’allerta valanghe va da 1 (minima) a 5 (massima), lo 0 non è contemplato».

Appunto: nei giorni scorsi (inizio aprile 2023, NdR) l’allerta valanghe, dalla Valle d’Aosta all’Alto Adige, oscillava tra il 3 (marcato) e il 4 (forte). Le slavine sono state numerose e numerosi gli interventi di voi soccorritori. Non crede che esista, in generale, un problema di accortezza nell’approccio alla montagna?
«Diciamo che tutti dovrebbero fare la propria parte: dagli enti del turismo locale ai grandi brand dedicati alle attrezzature sportive che, nelle loro attività pubblicitarie, potrebbero evidenziare alcune buone pratiche per ridurre i rischi. Quanto al Soccorso Alpino, da anni portiamo avanti importanti progetti dedicati alla prevenzione degli incidenti in montagna con iniziative nazionali spesso realizzate insieme al Club Alpino Italiano».

Ma il singolo escursionista (sciatore, alpinista, trekker, rocciatore) come deve comportarsi?
«Pianificare accuratamente la propria attività, usare un’attrezzatura adeguata. Adoperare sempre il buon senso».

I consigli pratici prima dell’uscita?
«Prima di qualsiasi attività sulla neve e, in particolare, la pratica dello scialpinismo e le gite con le ciaspole, è opportuno consultare con attenzione i bollettini niveo-meteorologici locali, quali quelli dell’Arpa, per verificare eventuali condizioni di criticità. Dotarsi sempre di dispositivo Artva, pala e sonda per le gite scialpinistiche o con le ciaspole è fondamentale nel caso in cui si affronti un’emergenza. Non esitare a contattare e ad affidarsi ai professionisti della montagna. In sintesi, lo ripeto: pianificare, documentarsi, attrezzarsi adeguatamente e, soprattutto, saper rinunciare».

Le vittime dello scorso fine settimana erano tutti scialpinisti. Secondo lei il «fuoripista» dovrebbe essere regolato diversamente?
«Sono scelte che spettano agli amministratori pubblici, ma personalmente trovo molto difficile e poco ragionevole applicare divieti in un ambiente come quello della montagna. Le nostre statistiche degli ultimi anni ci indicano dove è necessario intervenire o dove è importante rafforzare la prevenzione. Si può ragionare su come provare a ridurre gli incidenti, ma non possiamo dimenticare le migliaia di interventi che ci vedono impegnati in sentieri molto semplici o di media montagna. Bisogna dunque ragionare a 360 gradi e non su una singola attività sportiva».

Il cambiamento climatico incide? Colpisce vedere le immagini di vette per nulla imbiancate e leggere di queste disgrazie ad alta quota.
«Il clima in montagna come in pianura sta cambiando. Mutamenti repentini di pressione, inverni sempre più miti, fenomeni metereologici più violenti ed estremi, penso ad esempio alla tempesta Vaia del 2018, rendono l’ambiente montano più fragile e di conseguenza più “insidioso” per chi lo frequenta occasionalmente o lo vive nella quotidianità».

Le valanghe sono più frequenti rispetto al passato?
«Sicuramente rispetto al passato sono molte di più le persone che frequentano l’alta montagna. Oggi la montagna è sempre più accessibile a tutti: sia in termini di avvicinamento alle quote più elevate con funivie e impianti, sia in termini di documentazione e di possibilità di acquisto di buoni materiali tecnici a un prezzo abbordabile. Senza dubbio, anche l’aumento delle temperature nei grandi centri urbani attrae sempre più persone durante la stagione estiva. Le valanghe ci sono sempre state e ci saranno sempre, potrebbe variare il numero di persone che si trovano in quelle aree. Come detto occorre lavorare sulle attività e le iniziative di informazione e formazione per favorire tra i frequentatori della montagna un approccio consapevole e prudente».

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Chi erano le tre vittime e chi è il superstite
di Alessio Ribaudo
(pubblicato su corriere.it il 14 aprile 2023)

Tutti conoscevano profondamente la montagna, erano dei professionisti e stavano frequentando il corso per diventare guide alpine della Valle d’Aosta. Erano già aspiranti guide qualificate ed erano impegnati per superare quello che è in pratica l’ultimo gradino della formazione.

Il più giovane era il finanziere Elia Meta, 36 anni di Ravenna ma in servizio nella caserma di Entrèves, dopo un passato in Marina e, prima ancora, come meccanico a Cesena. Era uno sportivo appassionato non solo di montagna ma anche di bicicletta. A soli cinque mesi era stato accolto in una casa famiglia. «Era appassionato a quello che faceva, lo faceva per passione. Lo faceva proprio con sicurezza, si impegnava a farlo bene», racconta da Bertinoro (Forlì-Cesena) la madre Mariella Della Corna. Lascia la moglie e un bimbo di quattro anni.

Elia Meta

Lorenzo Lollo Holzknecht, invece, aveva 38 anni ed era non solo un maestro di sci ma era stato anche un campione di scialpinismo, di Sondalo ma cresciuto a Bormio, che in carriera vinse un oro (in staffetta nel 2010), un argento e due bronzi ai campionati mondiali, oltre a due ori, un argento e un bronzo ai campionati europei. “Nonostante in questi ultimi 10 anni mi sia tolto delle belle soddisfazioni sportive, ho passato decisamente troppo tempo a gareggiare in giro per l’Europa con la nazionale di scialpinismo con uno sci lungo 164 cm” raccontava qualche tempo fa. “Da ex atleta, mi dedico allo sci alpinismo d’esplorazione, ovviamente con molti più centimetri di superficie sotto ai piedi! Diventerò maestro di sci alpino e al momento, sto frequentando il corso aspiranti guide alpine; ma in tutta onestà, spero di riuscire a vivere al mare almeno una parte dell’anno, dove poter scalare grigie pareti di calcare scaldate dal sole, tra i profumi della macchia mediterranea”. In una nota della Federazione italiana sport invernali «Il presidente Flavio Roda, il consiglio federale e tutta la Fisi rivolgono le più sentite condoglianze alla famiglia di Lorenzo in queste ore difficili». Lorenzo Lollo Holzknecht lascia la compagna e un figlio. «La notizia ha lasciato tutti sgomenti – dichiara il sindaco di Bormio, Silvia Cavazzi – perché Lollo era molto conosciuto e apprezzato in Alta Valle anche per la sua attività di guida alpina, incominciata subito dopo aver abbandonato, una decina di anni fa, l’attività di scialpinista di livello assoluto».

Lorenzo Lollo Holzknecht
Lorenzo Lollo Holzknecht
Sandro Dublanc

Quindi, Sandro Dublanc, di 43 anni, maestro della scuola di sci di Champorcher, di cui è stato anche direttore fra il 2012 e il 2019. «Sandro è diventato maestro di snowboard nel 2008 — racconta Valeria Ducler, attuale direttrice — è sempre stata una persona molto educata, taciturna, molto attenta alla clientela. La montagna ha cominciato a conoscerla grazie ad alcuni ragazzi più grandi compaesani che lo hanno coinvolto nelle prime ascensioni. La sua passione non si è mai spenta finché ha deciso di intraprendere questo percorso di aspirante guida. Questo inverno, dopo il passaggio di consegna a me nel 2019, ha lavorato ancora per noi, dividendosi con l’allenamento per essere al top per questo ruolo alpino, e il maestro di sci, sia in settimana che nei weekend. Amava tanto gli animali e aveva gatti e galline che accudiva con tanto affetto. Noi, di certo, lo ricorderemo per sempre con il suo mezzo timido sorriso e gli occhi blu cielo».
«Stava per coronare il suo sogno di diventare guida alpina»: lo racconta Giuseppe Cuc, presidente dell’Associazione valdostana maestri di sci, che aggiunge: «Era innamorato della montagna, era una bella persona, non si arrabbiava mai. Riservato e gentile, era sempre attento al bisogno degli altri. Avrebbe dovuto completare gli ultimi 16 giorni di corso per ottenere il titolo di guida alpina a tutti gli effetti».

Sandro Dublanc

Il superstite
Secondo una prima ricostruzione, una massa di neve si è staccata intorno alle 14 sotto il Picco di Goletta, a circa 3250 metri di altezza, nei pressi del Colle della Tsanteleina, vicino al confine con la Francia. I quattro sono stati travolti dalla slavina mentre erano nella fase di discesa. Il ripido pendio si è staccato sotto ai loro sci ed è crollato a valle. L’unico sopravvissuto è l’istruttore del corso per guide alpine, Matteo Giglio, di 49 anni, residente in Valle d’Aosta, che, pur semisepolto, è riuscito a scampare alla slavina riuscendo a «galleggiare» sulla neve. Quindi, si è tirato fuori dopo qualche decina di metri. Subito ha cercato i suoi allievi, con l’ausilio dell’apparecchio per la ricerca in valanga (l’Artva). Una volta individuati lungo la «colata», a poca distanza l’uno dall’altro, si è messo a scavare con la pala per estrarli dalla neve. Nessuno dava segni di vita, i volti erano già cianotici. Essendo in una zona dove non c’è segnale telefonico, Giglio ha quindi deciso di scendere: ha impiegato circa un’ora, con un solo sci e un solo bastoncino, per raggiungere un punto più a valle dove il telefono ha iniziato a funzionare e ha potuto dare l’allarme, che è stato raccolto sia in Italia sia in Francia. Da Courmayeur è decollato l’elicottero «Sierra Alpha» con le guide alpine e il medico del 118, oltre agli uomini della Guardia di Finanza di Entrèves. Nonostante il maltempo, in pochi minuti ha raggiunto la zona della Tsanteleina. Giglio è stato recuperato e subito trasportato al Pronto soccorso dell’ospedale Parini di Aosta: pur essendo sotto choc, le sue condizioni erano buone, avendo riportato solo alcune contusioni. «Non ho nulla da dire, nulla da raccontare», ha tagliato corto.

Matteo Giglio. Foto: Marco Spataro.

Il cordoglio
«Siamo vicini al dolore delle famiglie — ha detto il presidente della Regione Valle d’Aosta, Renzo Testoline a tutta la comunità delle Guide alpine, rappresentata dall’Unione valdostana guide di alta montagna e alla Guardia di Finanza, così come la nostra vicinanza, in queste ore, va a tutti i professionisti che, sin da subito, si sono attivati con impegno e dedizione nelle difficili operazioni di soccorso, impegnative anche da un punto di vista emotivo, in relazione all’esito delle ricerche che purtroppo, nonostante tutti gli sforzi profusi, non hanno consentito di salvare le tre giovani vite». Poi ha aggiunto: «perdiamo tre uomini di montagna che sognavano di proseguire nel loro percorso volto a trasformare la propria passione in professione. La loro scomparsa si inserisce in una serie di tragici incidenti che quest’anno hanno funestato le Alpi e che ci sollecitano a tenere alta l’attenzione e l’impegno riguardo al tema della sicurezza in montagna su cui la Regione intende continuare a investire».

Un precedente
Proprio quest’ultima tragedia ha riportato alla mente quella del 17 settembre 1985, quando un altro incidente aveva funestato il mondo delle guide alpine valdostane: in quel caso un istruttore e cinque aspiranti guide, tutti ragazzi dai 18 ai 33 anni, morirono dopo essere precipitati dalla parete orientale del Lyskamm.

Dopo la tragedia della Valle di Rhêmes ultima modifica: 2023-04-18T05:25:00+02:00 da GognaBlog

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121 pensieri su “Dopo la tragedia della Valle di Rhêmes”

  1. @Penotti Hai delineato un quadro per molti aspetti condivisibile, soprattutto nella conclusione finale, sul fatto che l’attivita’ alpinistica comporta un rischio elevatissimo. Resto pero’ perplesso sul dire che gli incidenti sono al 100% attribuibili ad errori umani. Potrebbe essere vero, se si potesse avere a che fare solo con errori come quello ( fortunatamente senza conseguenze ) della tua doppia. Ma e’ ben piu complicato se si considera come “errore” ogni scelta che differisca da quella di massima prudenza. Al limite, abbassando l’asticella del rischio a livelli bassissimi, e tenendo conto dell’oggettiva incertezza previsionale della maggior parte dei fattori in gioco ( meteo/clima, condizioni del manto nevoso lungo l’itinerario, stato fisico/psichico dei partecipanti, affollamento, ecc )  questo comporterebbe in pratica di essere portati ad annullare la maggior parte delle uscite. E’ stato ricordato che nell’incidente di Pila il pericolo di valanghe era 2. Diventa ‘errore’ praticamente il non restarsene a casa…  

  2. 97. Agentilini. Non è che sia contrario, lo ritengo inutile.
    Cerco di chiarire il mio pensiero senza scrivere un post fiume. E’ mia opinione che il 100% degli incidenti in montagna avvengano per un errore umano. Errore che può essere tecnico, fisico o cognitivo. Solo che se commetti un errore in montagna, inevitabilmente questo ha delle conseguenze gravi per le caratteristiche intrinseche dell’ambiente. La dimostrazione di questa convinzione è che spesso e volentieri gli incidenti in montagna vedono protagonisti persone con un bagaglio di esperienza e capacità notevole che dovrebbero metterle al riparo dalle variabili esterne. Inoltre l’analisi ex post di un incidente non può analizzare il fattore umano che ha portato a una determinata scelta, fatta da un altra persona e in un contesto diverso. Insomma, analizziamo un incidente seduti comodi su una poltrona ma non potremo mai individuare e capire tutte le variabili oggettive ed emotive del momento  che hanno portato a una determinata scelta. Ne consegue che ogni singolo errore è causato da una serie di fattori non replicabili nella loro singolarità.
    Prendiamo come esempio i due incidenti già citati.
    Quello della Val di Rhemes vede coinvolti 4 guide. Una guida istruttore e tre aspiranti guida. Era il modulo di sci alpinismo dell’abilitazione a Guida. E’ evidente che in questo caso non vai a fare una gitarella MS per quattro curvette ma vai su un itinerario che ha caratteristiche tecniche e morfologiche impegnative. Non potremo mai sapere cosa è realmente successo, soprattutto non potremo mai sapere quale fattore tecnico od emotivo ha causato l’incidente. L’unica cosa che sappiamo è che Matteo Giglio ha un bagaglio di competenze, esperienze e preparazione fisica irraggiungibile per molti di noi e che i tre deceduti erano aspiranti guida e non tre scavezzacolli. 
    Quello di Pila, che sta causando gravi strascichi giudiziari ma anche emotivi era un corso di secondo livello, non un corso di avviamento allo sci alpinismo con partecipanti inconsapevoli e alle prime armi, e rammento, con un grado di pericolo AINEVA 2. Gli istruttori aveva certamente sotto i piedi un numero di gite decisamente importante con ogni condizione di neve.
    Nei due casi sopracitati le caratteristiche del fatto non sono replicabili, quindi che senso ha analizzare e fare a fette un incidente, quando il prossimo avrà caratteristiche diverse, ma soprattutto causato da valutazioni emotive diverse?
    Bisognerebbe piuttosto prendere atto, noi per primi, molto serenamente che l’attività alpinistica in genere ha un coefficiente di rischio elevatissimo e che un errore può avere conseguenze mortali. Estremizzo provocatoriamente affermando che se una persona ha necessità di avere un report dettagliato di analisi degli incidenti, forse è meglio che in montagna non ci vada.
    Qualche anno fa, in Albigna salii con alcuni amici una via. Bel granito, due amici fidati ed esperti, via impegnativa ma bel protetta. Al termine della via, al momento della prima doppia ero l’ultimo a calarmi dei tre. Per errore, passate le corde nelle asole del discensore, non moschettonai una delle due. Al momento di mettermi in peso sulle corde iniziò lo scorrimento e solo per un fattore causale riuscii a bloccarmi ed accorgermi dell’errore. Insomma ero predestinato a un bel volo di 300 metri. Ho sessantuno anni ed arrampico da 45, puoi facilmente immaginare il numero di corde doppie fatte in questo lasso di tempo Eppure… L’errore, avesse avuto conseguenze mortali, i commenti sarebbero stati: ” ma guarda era così esperto….” e l’analisi dell’incidente che beneficio avrebbe portato? Nessuno.

  3. Non so come sua stata gestita la vicenda Pila. Nella mia esperienza indiretta, anche non relativa alla montagna, ho visto che quando uno finisce davanti al giudice per cose accadute esercitando un ruolo istituzionale meglio prendersi un proprio avvocato, purtroppo pagandoselo di tasca propria e non “schierato” o “etichettato” . Andare davanti al giudice con il legale collegato alla propria organizzazione non sempre gioca a tuo favore. Purtroppo il processo penale è un gioco di ruoli e di specchi e anche queste cose contano. Almeno per quello che ho visto io per alcuni casi successi ad amici innocenti che sarebbero stati stritolati se non avessero cambiato in corsa legali schierati con i loro boss. Perché i grandi non ci rimettono di solito ma i piccoli rischiano di brutto “se questo si presenta con questo legale, allora vuol dire che…..”  I pregiudizi non dovrebbero contare ma questo è la favola che si racconta ai bambini. 

  4. Dino, va benissimo la formazione, ben vengano gli aggiornamenti, ben venga la pretesa di una continua ed effettiva attività alpinistica e sci-alpinistica personale cheti tiene allenato. Questo è ovvio, mi sembra il minimo,  visto la responsabilità che ci prendiamo con l’avere alla propria corda una persona che ti si affida. Ma, l’istruttore,  deve essere trattato con rispetto,  non come una cenerentola per il solo fatto di non essere un professionista e di appartenere al CAI .
    Già il fatto di non essere un professionista, ma un volontario che per la sola soddisfazione personale si assume una enorme responsabilità, gli dovrebbe essere riconosciuto un certo rispetto.
    Poi, se uno sbaglia, si assumerà le proprie responsabilità, come è giusto che sia. Ma per uno sbaglio, non si può ridicolizzare tutta una categoria, come se si fosse il gruppo vacanze in gita scolastica a tarallucci e vino.
    Gli sbagli, purtroppo, li fanno tutti: quelli bravi, quelli talentuosi, i volontari dilettanti ed i professionisti. I numeri sono li a dirlo.

  5. Un ricordo sulla Scuola Pietramora.
    Ho partecipato come allievo, anni fa, al corso “Alpinismo su neve e ghiaccio AG1”.
    È estate, è la sera prima della salita ad una famosa vetta, salita prevista dal corso.
    Il rifugio è pieno di allievi di varie scuole d’Italia e quella famosa vetta è nel programma di tutti; gli istruttori della Pietramora si confrontano con gli istruttori delle altre scuole e poi ci radunano e ci comunicano che il giorno dopo non saliremo la famosa vetta.Il motivo che ci spiegano è il troppo affollamento che ci sarebbe stato; ci raccontano anche che, nel tentativo di trovare un accordo su come organizzarsi per diminuire i rischi, alcuni istruttori delle altre scuole hanno detto loro “la montagna è grande, c’è spazio per tutti” che può essere interpretato in vari modi… “andate da un’altra parte” oppure “facciamo a gara a chi si alza per primo”.Qualche allievo, più atletico e probabilmente già in parte esperto, si lamenta: “ma come… mi sono inscritto solo per salire la famosa vetta! E adesso rinunciamo?”, gli istruttori della Pietramora non alimentano la polemica e ci illustrano la salita ad una vetta non famosa che nel frattempo hanno individuato e che stanno organizzando; la loro autorevolezza pone termine alle polemiche (almeno a quelle espresse pubblicamente).Il giorno dopo saliamo la vetta non famosa, siamo solo noi, non c’è affollamento e io sono felice di arrivare in cima e vedere da lontano la famosa vetta.

  6. @92
    Dino, la qualità degli istruttori esiste già, è testata sul campo ed è riconosciuta per legge. Sono stato costretto a dimettermi da istruttore per ottenere la condizionale e sfuggire al carcere ove il giudice di Aosta mi voleva “rieducare”, e questo obiettivo l’ho ottenuto. Ma nei miei venticinque anni da istruttore non ho mai sentito di non essere all’altezza, neanche nel giorno dell’incidente, ove eventualmente mi ricapitasse rifarei tutto uguale. Trovo quindi fuori luogo autofustigarci come istruttori e parlare di “più formazione”. Il rispetto ce lo meritiamo già ora, così come siamo, formati e qualificati. Sai qual è il problema? Il problema sono le Procure, dove le guide Alpine hanno una sorta di monopolio nel ruolo CTU come redattori delle perizie, e non sono certo tenere con gli istruttori, o perlomeno Paolo Comune come CTU non è stato tenero con noi della Scuola Pietramora. Il nostro incidente è avvenuto con pericolo 2, con un rifugio aperto per noi che ci aspettava e sapeva. È l’unico degli ultimi 20 anni di un corso CAI, a fronte di innumerevoli coinvolgenti guide uscite con pericolo 3, tutte felicemente – e io per primo sono felice per loro – assolte. Ma non mi parlare di competenza e di preparazione. Siamo tutti nella stessa barca. Un database degli incidenti servirebbe anche a questo: a dimostrare incontrovertibilmente quello che ho potuto raccontarti solo dal mio modesto punto di vista personale.

  7. L’articolo non mi è piaciuto. Innanzi tutto i due eventi, pur vicini temporalmente  hanno pochissime analogie. Inoltre, nel momento attuale pretende di fornire delle conclusioni sulla base di pochissimi elementi oggettivi, il principale dei quali, il parametro “grado di pericolo locale”  presente al momento dell’incidente. è  si un elemento significativo,  che da delle indicazioni importanti per la scelta e pianificazione della gita, ma che non basta per trarre  le conclusioni presenti nell’articolo stesso. Molte affermazioni sono del tutto arbitrarie e non supportate da dati di fatto. In particolare per il primo dei due casi,  cosa ci fa ritenere un individuo “esperto”  per la scelta e conduzione di una escursione in montagna? La frequentazione o meno di corsi? Il numero complessivo di  gite effettuate? La difficoltà media di queste ultime?  Oppure prendo per buone le valutazioni, sovente del tutto arbitrarie riportate dai giornali?  Alcune conclusioni poi, mi stupisce arrivino da chi ha frequentato la montagna per tanti anni: la  “scoperta”  che la maggior parte degli incidenti valanghivi avvenga con pericolo 3 è  cosa del tutto ovvia, e non certo dovuta ad alcun bias cognitivo…. questo a meno di arrivare a conclusioni del tipo di vietare  gite al di sopra di certi livelli di pericolo in intere vallate: cosa del tutto sbagliata e fuorviante! Se il “mainstream” è questo, siamo veramente fuori strada: sappiamo che “un’attenta e ponderata valutazione delle condizioni locali”  è il presupposto per la scelta o meno di proseguire un percorso intrapreso, e da praticante non posso non riconoscere la soggettiva  possibilità di sbagliare tale valutazione. Detto questo, concludo inoltre su aspetti sovente trascurati:  il pericolo valanga è  solo uno  di quelli incontrati dallo scialpinista: ci si è mai chiesti  quale sia l’incidenza di pericoli quali pendii ghiacciati, la presenza di parti non innevate ed eventuali rocce affioranti, tipiche di innevamenti “magri” sul numero di incidenti gravi o mortali occorsi con i livelli “minori” 1 e 2  di rischio  valanga?  Invito pertanto a evitare di pontificare, soprattutto così a ridosso di eventi tanto dolorosi: i trend e le statistiche si basano su ben altro tipo e qualità di dati e valutazioni.

  8. Alberto mi riferisco al tuo discorso sulle responsabilità per gli istruttori. Se si vuole davvero aiutare Istruttori e Scuole occorre (a mio avviso) alzarne ulteriormente il livello di competenza (già ora elevato) senza farsi molte illusioni; se si vogliono e si pretendono (giustamente) istruttori aggiornati ed adeguati ai tempi occorre finanziarne  formazione e aggiornamento di alto livello, che NON costa poco e NON può essere come ora, a totale carico del volontario. Noi Istruttori non dobbiamo cadere nella trappola del “volontario buono”. I tempi sono cambiati. Tra le mani abbiamo la vita di persone a la loro formazione; dobbiamo esserne consci e responsabili. 

  9. No Bertani, non censuriamo nessuno. ricordiamo solo con infinita ammirazione e nostalgia Umberto Eco
    «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». 
     
     
     

  10. MG. Censuriamo Crovella perché scrive cretinate? Facciamo chiudere il blog del “capo” perché dà spazio a uno che scrive cretinate?
    Smettiamo di discutere di questi argomenti perché non abbiamo dati scientifici e perché rischiamo di offendere amici e familiari delle vittime?
    Crovella. Cosa ci facevano quattro esperti in quel posto e in quel momento? Sono affari loro e nessuno si può permettere di esprimere giudizi in merito a decisioni prese da parte di persone consapevoli e mature. Si può solo cercare di capire cosa è accaduto per comprendere dinamiche che forse potrebbero esserci utili un domani.
     
     
     

  11. Carlo Nessun problema, non ci sono riscontri su airbag. A sensazione direi che non l’avevano. Ciao!

  12. Lungi da me intenzioni diverse dalla mera notizia tecnica. Anche perché credo l’airbag possa essere utili su nevi invernali . Di questa stagione le nevi sono più pesanti e credo sia la massa il problema più che l’aria. Si muore di trauma più che di soffocamento…..credo, volevo solo un parere da esperti. Scusate se sono stato frainteso 

  13. @bertani le “menate” di chi chiede rispetto per la morte non hanno nulla a che vedere né con il sito americano né con l’articolo su questo blog.
    Le analisi degli incidenti si fanno sui dati, da parte di tecnici. non  da parte di uno che esprime le proprie discutibili opinioni (che da ormai anni pubblica  nastro su questo blog perché altrove non lo considera nessuno) e che non sa nulla di ciò che è accaduto. 
    Sparare a zero con i toni stupidi di Crovella su ciò che è accaduto a quattro  professionisti della montagna non ha nulla anche vedere con una analisi seria dell’incidente basata sui dati reali raccolti sul luogo e analizzati in maniera scientifica affinché servano ad analizzare le cause e ad evitare di incorrere nelle stesse dinamiche.
    Al momento quei dati non sussistono, probabilmente Crovella manco è mai passato da quel canalone, nulla si sa sul luogo, condizioni della neve, dinamica, etc. Scrivere commenti saccenti sulla pelle di tre professionisti morti non è analisi scientifica, fa solo schifo. e non serve a nessuno.
    Si da il caso poi che in questo paese quando muore qualcuno si apra un indagine per valutare se suscita la responsabilità di qualcuno in quella morte. può piacere o non piacere ma è previsto dalla legge. 
    Chi c’era ed è sopravvissuto avrà già le sue belle gatte da pelare, emotive, personali e   giudiziarie. Serve anche un Crovella a rompergli i coglioni? E i familiari dei morti hanno bisogno di uno che manco sa di quello di cui parla  che speculi (speculare nel senso letterale, per chi si dovesse risentire) sulla pelle di chi loro non han visto tornare a casa ? io non credo.
    Se poi si vuol fare un bel report sul sito delle guide o del CNSAS sulla base dei dati raccolti e della disamina di tecnici – non  di gente che parla perché ha la lingua in bocca (come si dice dalle mie parti) – si mettano anche le foto delle vittime e si forniscano dati e valutazioni tecniche, non supposizioni,  sarà una analisi scientifica utile a molti. 
    poimagari può risultare che, alla fine,  han fatto una scemenza. serve a qualcosa sottolinearlo con i toni saccenti di questo articolo? io non credo. si muore in montagna, di solito perché si sbaglia, shit happens, dicono da qualche parte. serve a qualcosa enfatizzare con i toni da caiano senza macchia e senza paura che non muore mai  l’errore di qualcuno?
    io non credo, chiunque abbia un minimo di esperienza capirà da solo.   
    Al momento però stiamo alla novella2000 caiana… offendendo la professionalità e la memoria di chi sotto quella valanga ci ha lasciato la pelle. 

  14. A titolo informativo ricordo che sul sito Aineva è disponibile l’archivio degli incidenti valanghivi, e che la stessa associazione ogni autunno in occasione del ‘rendiconto nivometrico” espone un dettagliato bilancio della stagione nivologica passata ed una disamina degli incidenti avvenuti, come auspicato qui da diversi utenti

  15. @83 non risultano riferimenti di stampa ad airbag in nessuno dei due incidenti, ma non si ha certezza assoluta in merito. Il risvolto è però irrilevante circa il punto cardine delle riflessioni, ovvero come mai persone anche cosi esperte possano cannare completamente la scelta dell’itinerario, nonostante la massa di informazioni disponibili fin dalla sera prima. Quando sei a tavolino e pianifichi la scelta strategica dell’itinerario per l’indomani, disporre o no  dell’aibag il giorno dopo non incide nulla. A meno che uno ragioni scriteriatamente della serie “tanto ho l’airbag…”, ma do per scontato che le guide non seguano questi modi di ragionare. Ciao!

  16. Bertani. Boh…fa un po’ quel che ti pare. Ognuno ha la sua sensibilità e ci mette la sua faccia, soprattutto quando si firma, cosa comunque che io personalmente apprezzo, anche se molti altri non la pensano così. 

  17. Questo non è un tribunale e non è una commissione di esperti periti.
    Questo è un blog, vale a dire chiacchiere da pullman CAI in gita sociale con la differenza che le chiacchiere sono scritte ed accessibili a tutti. Quindi? Non si può parlare di questi fatti? O, se se ne parla si è considerati insensibili?
    Con Crovella (col quale non sono d’accordo quasi su nulla  di ciò che scrive) ha scritto il suo pensiero, è stato scelto di pubblicarlo e io mi sento libero di esprimermi in libertà cercando di non offendere nessuno. La morte è un tabù?
     

  18. Damiano Bertani al #77: personalmente sono favorevole alla disamina della dinamica degli incidenti (cosa peraltro non sempre fattibile), con la spero superflua annotazione che dette disamine servono a descrivere asciuttamente quanto accaduto e non ad individuare eventuali errori di valutazione o addirittura “colpe”.
    Se posso permettermi, mi sembra che questo articolo non sia affatto una disamina puntuale, quanto piuttosto un pezzo di opinione.

  19. Bertani. Ho visto quel sito intere monografie dedicate all’analisi degli incidenti. Lavoro doveroso che va sempre fatto, anche in contesti diversi dalla montagna, ad esempio in sanità. Va fatto con criteri professionali e da professionisti, a prescindere dalle perizie giudiziarie. Altra cosa i discorsi da bar basati su notizie giornalistiche o pregiudizi. Questi sono irrispettosi e intollerabili. Non mettere tutto nello stesso cesto come si fa spesso qui. 

  20. Qui, si leggono ancora le menate di chi chiede il rispetto per vittime, siamo emotivamente primitivi.Trovo che parlare degli incidenti senza tabù sia il miglior modo per evitarne in futuro,

    Certo rispetto delle vittime  del dolore dei parenti, è il minimo!!!
    Non si tratta di essere primitivi ma di avere un minimo di sensibilità umana. Cosa che te, evidentemente  non hai.
    Per analizzare l’incidente ci sarà tempo. Visto anche, che  ci sarà sicuramente un’indagine giudiziaria, visto che ne te e nessuno di noi era li sul posto. Quindi non sapendo nulla si direbbero solo sciocchezze.

  21. Vittoro, è quello che spero.
    Gli istruttori sono un patrimonio del CAI,  va difeso e gli va fatta sentire la giusta e dovuta considerazione. Mi sembra il minimo visto che nessuno viene pagato e viste le responsabilità morali e legali che ci sono. Non solo menzionarli quando c’è da farsi grandi.  Poi ognuno di noi si assumerà le proprie responsabilità.

  22. Esiste un sito americano che si occupa di attività in montagna che non leggo da un po’ di tempo che ha una rubrica dedicata agli incidenti mortali. Sono articoli con tanto di foto della persona che ha avuto l’incidente ma soprattutto con un’attenta disamina dell’accaduto.
    Qui, si leggono ancora le menate di chi chiede il rispetto per vittime, siamo emotivamente primitivi.
    Trovo che parlare degli incidenti senza tabù sia il miglior modo per evitarne in futuro, ovviamente senza cercare un colpevole, a quello ci penserà la magistratura ove ci sia eventuale dolo, altrimenti la “colpa” è sempre di chi si caccia nei guai quando avrebbe potuto, in alternativa, guardarsi un bel video di sport estremo sul tutubo.
    Se eri nel posto sbagliato al momento sbagliato, la colpa è  della montagna assassina?

  23. Alberto grazie per la tua attenzione!
    Non generalizziamo però,
    ho parlato di una dirigenza – presidente e vicepresidente – non più in carica, ora tira un’altra aria e constato con piacere che le scuole continuano la splendida fatica di trasmettere la nostra passione, ma certo auspico che si sia più attenti nel formare e tutelare gli istruttori rispetto ai rischi giudiziari.

  24. che mi ha spacciato come principe del foro un legale incapace invece di assicurare una difesa efficace 

    Ma guarda un pò!!!
    Questa è la dimostrazione di come il cai ci tiene ai propri istruttori.

  25. Basta poco per capire che una strada come questa porterebbe alla scomparsa di tutti i corsi CAI, perché la responsabilità giuridica aumenterebbe a dismisura e non credo che un istruttore, perlomeno sano di mente, svolgerebbe attività di insegnamento a titolo gratuito con un tale rischio giuridico, già presente in parte.

    È già così.
    Se ci si riflette un pò, non siamo sani di mente. La responsabilità è personale dell’istruttore qundo ti leghi l’allievo alla tua corda.

  26. 66. Vittorio Lega. Ti ringrazio. E si, ti invito con forza, appena riterrai opportuno farlo, a scrivere e raccontare non tanto su quanto è successo, ma sulle conseguenze e storture  che l’incidente ha generato. Magari scrivendo per questo Blog. Sono certo che Gogna ti darà tutto lo spazio che ritieni opportuno.

  27. @66 Caro Giuseppe,
    ti ringrazio per la precisazione, senza la quale secondo me il tuo pensiero non era chiaro: sei nel giusto se citi il nostro incidente come confutazione del “senno-di-poi-ismo” del Crovella-pensiero ma se lo fai così – tout court – sembra che tu stia gettando via la mela marcia della Scuola Pietramora. Hai ragione, sono particolarmente suscettibile sull’argomento. Abbiamo infatti subito le peggiori calunnie, non tanto dalla magistratura, ma dalla stampa e persino dalla associazione per cui operavo. Calunnie di fronte a cui la precedente dirigenza – che mi ha spacciato come principe del foro un legale incapace invece di assicurare una difesa efficace – non ci ha mai tutelato, e che per fortuna è cambiata. Magari un giorno ci sarà spazio per raccontare tutta la storia.

  28. Ringrazio ma penso che tu ti riferisca ad un altro Schenone, Marco, forte alpinista genovese (a cui io non son degno di chiudere gli scarponi).Ciao
    Ops, sorry. hai ragione!

  29. 67. Emanuele. Posso essere d’accordo sulla tua enunciazione come principio generale. Resta però il fatto che viviamo in una  società che ha delle regole ed è pertanto utopistico immaginare la montagna come zona franca.
    Ciò che combatto strenuamente è la visione di una montagna in cui la frequentazione sia riservata a chi sia in possesso di patentini, corsi o abilitazioni varie. Questa è una aberrazione che se trovasse applicazione porterebbe a delle storture enormi, anche di natura giuridica. Basta poco per capire che una strada come questa porterebbe alla scomparsa di tutti i corsi CAI, perché la responsabilità giuridica aumenterebbe a dismisura e non credo che un istruttore, perlomeno sano di mente, svolgerebbe attività di insegnamento a titolo gratuito con un tale rischio giuridico, già presente in parte.
    Ma soprattutto andrebbe a intaccare uno dei principi cardine dell’andare in montagna svolgendo attività a rischio, che è quello dell’autodeterminazione delle scelte.

  30. @66 Giuseppe Penotti
    Ringrazio ma penso che tu ti riferisca ad un altro Schenone, Marco, forte alpinista genovese (a cui io non son degno di chiudere gli scarponi).
    Ciao

  31. @61 @62 l’errore è stato che dovevamo tutti difendere le terre alte dall’intervento della legge e della politica, per difendere la libertà di scelta che andiamo cercando. 
    In montagna gli esperti non trasmettono regole, solo esperienze che talvolta possono essere utili ad uscire indenni da certe situazioni o meglio ancora, evitarle.
    L’indifferenza è la sconfitta più grande. 

  32. 62. Vittorio Lega. Non mi arrabbio con te perché mi rendo perfettamente conto che quanto occorso a Pila è una ferita difficilmente sanabile, che crea in te giusta ipersensibilità. Fosse successo a me, ancora adesso avrei gli incubi. Ma permettimi, dove avrei scritto che la vostra scuola è la cenerentola delle scuole CAI? Dove avrei sputato sentenze? Semmai il contrario, ho semplicemente fatto rilevare a Crovella che la sua tesi in cui le scuole CAI sono il meglio assoluto e mettono al riparo dagli incidenti è totalmente campata per aria e non trova riscontro nella realtà. Vi ho citato come esempio esattamente contrario a quello che hai interpretato. Gli incidenti, siano imprevedibili o causati da errata valutazione capitano a tutti e stabilire una graduatoria fra più bravi o meno è una stupidaggine sesquipedale.
    Se poi vuoi la mia opinione sull’incidente che vi ha visto protagonisti, te la dico molto volentieri. Non ce l’ho. proprio perché non c’ero. Appartengo a quella scuola di pensiero per cui di fronte a incidenti in montagna è meglio prendere semplicemente atto di quanto avvenuto, perché potrebbe capitare a chiunque senza tranciare giudizi, molto in voga anche in questo blog. Non mi conosci, ma ti assicuro, non è da oggi che esprimo questa mia convinzione e la frase finale su Matteo Giglio e l’incidente dovrebbe essere sufficientemente illuminante in merito.
    Ed infatti anche con Schenone “Schen” che conosco e apprezzo da anni avemmo in merito uno scambio di opinioni sul forum di PM in merito. Lui è della opinione che gli incidenti vanno analizzati, io sono dell’opinione contraria.
    Ho, al contrario, una mia precisa opinione sulle conseguenze giudiziarie che vi vedono coinvolti. Ritengo che siano una aberrazione e che mai e poi mai un incidente in montagna dovrebbe avere conseguenze legali quali state subendo.
    Ciao

  33. @63 (e Crovella 26)
    Due cose:
    1 Su un database di analisi degli incidenti, hai perfettamente ragione, l’idea di un Osservatorio è auspicabilissima, qualcosa forse si sta muovendo e spero si trovino le forze per realizzarla. Dovrebbe contenere sia analisi tecnica, sia analisi giuridica, visto che è veramente strano come alcuni incidenti con pericolo 2 si risolvano in una condanna, e altri con pericolo 3 non inizino neppure (notizia di ieri https://www.rainews.it/tgr/vda/articoli/2023/04/valanga-cheneil-chiesta-larchiviazione-0e37bc13-c0c0-4256-8272-06002fd4f07e.html)
    2 Le statistiche sono statistiche, anche in auto c’è chi fa solo 2000 km e guida con la testa (e rischia meno)  e chi ne fa 300000 l’anno e guida ubriaco (e rischia di più) , ma se vogliamo rendere confrontabili i rischi di attività umane, la media su grandi numeri è la cosa più attendibile che abbiamo. Se possiamo ragionevolmente ipotizzare, dati alla mano, che il tasso di mortalità dello scialpinista NON è tanto più alto di quello di un automobilista (inferiore a un fattore 10 sembra, dai dati che sono girati), questo smonterebbe tante teorie sull’eccessivo pericolo delle attività alpinistiche, e sull’ossessione securitaria che ne deriva.
    Quanto alla tendenza, mi sembra che sia negli incidenti stradali sia in quelli di montagna ci sia una netta tendenza alla diminuzione, da 7000 a 3000 vittime sulla strada e nello scialpinismo registrando una stabilità delle vittime nonostante una esplosione dei numeri. Direi quindi che gli appelli generici “Mala tempora currunt” sono fuori luogo.

  34. @61 Invece ribadisco  che tu sei completamente in errore. Su un risvolto specifico, quello della tua non conoscenza del mondo didattico, specie torinese. Quella che hai descritto al 38 è la mentalità del mondo “skialp”, NON del mondo dello scialpinismo, meno che mai del mondo della didattica dello scialpinismo e mano che mai, ancora di più, del mondo torinese della didattica scialpinistica.
     
    La cosa stupisce proprio perché sei di Torino: quella che esprimi è un’idea sbagliatissima del mondo didattico cittadino (comprendendo anche scuole dell’hinterland), in particolare nello scialpinismo, ma non solo. Trovami un solo istruttore, specie se titolato, che ragioni come nella tua descrizione del 38: non esiste! Anzi quel modo di ragionare è il classico esempio che noi esponiamo agli allievi per far capire loro come NON devono essere. Siamo precisini fino a dettagli che appaiono irrilevanti (ma in realtà non lo sono), per esempio come vestirsi o come impugnare le manopole dei bastoncini, non approviamo certo che un allievo ragioni stile “sarà solo Val Chisone, ma hai presente il video in Canada?” (come circa hai scritto tu, ora non ho tempo di andare a rileggere con precisione). Se un allievo dice una cosa del genere, viene preso a pedate, stai pur tranquillo.
     
    Può darsi che in passato siano stati commesse qua e là delle superficialità, però escludo tassativamente che ciò sia avvenuto in ambito Scuola SUCAI, quella dove sono nato e cresciuto, che fin dall’origine (oltre 70 anni fa) ha una mentalità molto “militaresca”, ideologicamente parlando. Se disturba il termine “militaresca”, perché sa di imposizione (che cmq è abbastanza “nei fatti”…), possiamo utilizzare l’aggettivo “ingegneristica”, cioè riflettente una mentalità molto quadrata.
    Piccola parentesi: è vero che io ho contatti molto frequenti e anche molto cordiali con la Scuola di scialpinismo del CAI UGET – di cui stimo esplicitamente l’attività  didattica e l’impostazione  ideologica degli ultimi decenni, guarda caso grazie all’opera pluriennale di un Direttore “ingegnere”, ora portata avanti in modo molto positivo da un Direttore donna, a sua volta “ingegnere” – ma io sono nato e cresciuto nella Scuola SUCAI, che è l’altra scuola torinese. Confondere le due scuole è come mescolare Juventus e Torino. Ai fini del discorso generale questo risvolto è del tutto irrilevante, però diventa importante per sottolineare che hai un’idea confusa e imprecisa del mondo didattico, specie torinese. Se immagini che il mondo didattico, specie torinese, ragioni come gli skialper (secondo il tuo 38)… beh…vivi davvero su Marte. Dovresti informarti a fondo prima di lanciarti in prese di posizioni che non fanno riferimento alla effettiva realtà in essere. Buone gite!

  35. Sono molto d’accorto con Penotti (52), mc Enzo (38) e con chi parla di overconfidence bias, di cui tutti gli appassionati con tanta esperienza ed attività sulle spalle, chi più chi meno, sono vittime.
    Aggiungo una riflessione (che non vale solo per lo scialpinismo): la sistematica mancata analisi degli incidenti mortali, su cui cala quasi sempre il silenzio, anche perché ormai occorre tutelarsi dalle inevitabili inchieste penali che seguono un incidente mortale. Paradossalmente la ricerca – ossessiva – di un colpevole fa sì che non si possa mai effettuare un’approfondita analisi di cause e modalità degli incidenti.
    P.s. riguardo al commento 18 (Vittorio Lega) sull’incidenza degli incidenti mortali dello scialpinismo vs automobile: mi sembra un confronto un po’ temerario. I 60 milioni di automobilisti percorrono migliaia di km per centinaia di giorni all’anno. I 30000 o 50000 scialpinisti mediamente fanno 20-30 gite all’anno di 10-20 km.

  36. Caro Penotti, se sono d’accordo con te che non ci sia da differenziare fra scuole CAI e resto del mondo, mi stupisce il tuo giudizio sommario sull’incidente di Pila, come se la scuola Pietramora che ne è stata vittima fosse la cenerentola delle scuole CAI. non sai nulla di cosa è successo, e ti diffido dall’esprimere considerazione su una vicenda giudiziaria ancora aperta. Se prima di sputare sentenze vuoi cortesemente informarti, sono a tua disposizione come direttore di quel corso. Saluti.

  37. 59. Crovella. Non sono io che mi sono espresso male, sei tu che non comprendi o peggio, estrapoli quello che piace a te.
    Ho scritto: 

    Da parte di tutti. Guide, sciatori solitari o scuole CAI

    Continui con la contrapposizione -scuole CAI contro il resto il mondo- che non ha alcun significato ed esiste solo nella tua testa. Dimentichi che io sono di Torino e non di Timbuctu e di comportamenti poco ortodossi (mettiamola così) da parte delle scuole CAI, ivi compresa la tua amata CAI_UGET ne ho visti non pochi. Alcuni seri per la pericolosità intrinseca, altri esilaranti per gli effetti fantozziani. Solo che al contrario di te comprendo le variabili umane e le tante sfaccettature emotive dell’andare in montagna che riguardano tutti e non generalizzo mai. Al contrario di te, non penso che ci sia qualcuno “migliore o peggiore”.
    Ti rammento che uno degli incidenti più gravi durante una gita di sci alpinismo che si ricordi, anche a causa dei gravi strascichi giudiziari, è stata la tragedia di Pila che ha coinvolto una scuola CAI.
    Solo che io al contrario di te non speculo e non uso questo come pretesto per generalizzare e dire che tutte le scuole CAI sono pericolose e non sanno pianificare una gita.

  38. Anche io penso che l’articolo sia pienamente fuori luogo. Già rispondendo ho paura di venir meno a quel mio dogma che dice, “meglio dire nulla che stronzate” come @10 e qualcun’altro , per il semplice fatto che io lì non c’ero. Di recente ho anche potuto assistere a giudizi dati sicuramente dal bar vicino casa, da chi essendo stato il Principe dell’ estremo,ora con il bicchiere in mano si sente in grado di sentenziare riguardo la presunta imprudenza delle vittime della Marmolada! Quello che maggiormente mi turba, è che si continui a parlare di regolamentazione,con il timore che qualche politico incompetente intraprenda questa crociata. Nulla invece per la strage di giovani sulle strade, che sarà il mio più grande timore nel futuro prossimo dei miei figli. Chi và in montagna accetta una parte di rischio che può ridurre affidandosi a dei professionisti, ma non può escluderlo del tutto. Le valanghe hanno coinvolto professionisti che ogni giorno andavano a monitorare il manto nevoso, come anche l’esperto sci alpinista alla sua millesima gita che tra l’altro quel giorno era sulla facile traccia vicino casa. Per concludere quindi, un po’ di rispetto con le sentenze dalla cadrega. 

  39. @57 Allora si vede che ti sei espresso male. La tua descrizione del 38 è un’efficace “fotografia” della mentalità squinternata che domina nel mondo dello “skialp” (disciplina che è ben diversa dallo “scialpinismo”).
     
    La mentalità dello scialpinismo tradizionale (che è l’esatto opposto della fotografia del 38) NON è affatto scomparsa. anzi proprio nell’attuale stagione ho verificato di persona, nell’ambiente didattico del torinese (soprattutto scuole della città, ma anche del circondario) il ritorno dei 18-20-22enni che “domandano” con determinazione di imparare la mentalità tradizionale. Il martellamento didattico che si fa nelle scuole è tale per cui “molto difficilmente” (proprio per non dire “mai”) un allievo conclude il corso e poi si cimenta in un itinerario impegnativo in giornate con rischio 4. Perché si insegna un modo di acquisire le informazioni AINEVA che è completamente diverso da quello che hai descritto tu. E’ proprio in questa differenza di mentalità alla fonte che sta la contrapposizione fra “skialp” e “scialpinismo”.

  40. 27. Grazia. Se nel frattempo hai letto i post che trovi ai link della 29 avrai anche trovato le risposte alle tue domande. Dopodichè c’è sempre a disposizione ampia letteratura alpinistica, oltre alla rete, con i siti e le interviste, con i blog e i forum (questi ultimi quasi tutti ormai defunti, quelli sulla montagna almeno) dove questi argomenti sono stati trattati infinite volte, anche in modo piuttosto approfondito.

  41. Crovella.56. Le restituisco il libretto e si presenti alla prossima sessione. Non ha evidentemente compreso il testo. Si applichi maggiormente e vedrà che un 18 lo spunta.

  42. Le mie considerazioni sulla ricerca di “sciatine eccitanti” sono da collegare a quanto esposto nel commento 38 circa l’interpretazione di molti skialper sui gradi AINEVA. La fotografia fatta nel 38 e’ presumibilmente realistica, ovvero c’è davvero una folta platea di skialper che ragiona “al contrario” rispetto ai suggerimenti AINEVA. Per loro più aumenta il grado e più sono “animati” (per l’abbondante quantità di neve un genere di elevata qualita’). È proprio lì il vulnus della attuale mentalità: saltano i freni mentali che governano la prudenza. Sono considerazioni che travalicano i recenti fatti di cronaca, al massimo sono più collegabili all’incidente dello Chateau des Dames. Piu’ in generale, resta uno zona oscura sul perché anche gli esperti sottostimino le informazioni disponibili la sera prima. La prima delle trappole euristiche è proprio questa.
     
    Una precisazione: per “rinuncia” non intendo solo “starsene a casa”, ma anche mitigare i progetti, adattandoli alle condizioni oggigiorno ben descritte (già la sera prima) dai bollettini. Per esempio un paio di g prima dell’incidente ho letto una relazione di gita in Val di Rhemes: “eravamo partiti per fare la Granta Parey, ma, viste le recenti precipitazioni, ci siamo riconvertiti sulla più tranquilla Galisia”. Itinerario che, con neve bella, garantisce il divertimento senza eccessivo rischio. Questo è il modo di ragionare tradizionale, quello in cui mi riconosco io (e, credo, tutto il mondo didattico CAI, visto che ne faccio parte), mentre la fotografia descritta nel 38 ne e’ l’esatto opposto. È lì la differenza insanabile fra scialpinismo (che, a esser sinceri, dovrebbe esser scritto sci-alpinismo, proprio per rimarcare la mentalità “alpinistica” che ne sta alla base) e lo skialp, che spesso è dominato dalla frenesia sciistica, come appunto descritto nel 38.

  43. Trovo inopportuno aver accostato nell’articolo l’incidente costato la vita a tre guide e quello dei due giovani torinesi. Sono veramente casi troppo diversi, anche solo dal poco che si è venuto a sapere.
    Ma a parte questo, se non si cerca di imparare dagli errori e dalle disgrazie altrui, cosa si discute a fare? Giochiamo alla roulette russa? (Lo dico in riferimento a quanti criticano aspramente l’articolo)

  44. @enri beh, insooma. Se l’autore di questo articolo indecente nei commenti si permette ancora di scrivere “ Personalmente appartengo al filone di pensiero per cui morire perché non si sa rinunciare alla “sciatina eccitante” sia un’emerita scemenza”, oltre a dimostrare scarsa comprensione del fenomeno perche parliamo di aspirantiguide e guida istruttore quindi gente che stava lavorando o comunque preparandosi per l’abilitazione si permette anche di giudicare senza conoscere nulla. Sport nel quale eccelle. 
    peraltro la domanda molto semplice è: ma perché non vi fate i fatti vostri? Ho visto come soccorritore e come occasionale spettatore abbastanza incidenti in montagna per rendermi conto che chi non c’e non sa.
    se la ricostruzione serve a fini didattici facciamola asettica e facciamola su dati di fatto. E possibilmente facciamola fare a dei tecnici di valore e di vertice non ad un Crovella qualsiasi malato di superego.
    questo é banale sciacallaggio mediatico.

  45. Tutto sommato credo che qui nessuno voglia addossare colpe, men che meno alle guide che sono morte nell’ultimo incidente. Probabilmente il senso dell’articolo e di alcuni commenti sta nel chiedersi come mai così tanti incidenti nonostante la possibilità’ di avere informazioni preventive ben superiori ad un tempo. Una risposta? Perché’ il web è’ un’arma a doppio taglio, da un lato ti informa dall’altro deforma e inganna. Come sempre non serve avere a disposizione molte informazioni ma solo quelle giuste. Per questo, ripeto, certe attività’ sono a mio avviso possibili con rischio ridotto (non azzerato) solo a chi vive in montagna e ogni giorno impara. Per tutti gli altri il rischio aumenta inevitabilmente. C’è’ poco da fare.  E’ come se qui dove abito, davanti al mare della Liguria, arrivasse gente dì pianura al sabato mattina per una regata e pensasse dì saperne quanto il velista locale… dai, nemmeno a parlarne. Ho imparato anche io ad azzeccare le previsioni meteo in Liguria guardando il mare tutto i giorni da una vita, io che non ho mai messo piede su una barca a vela e dì solito mi piace guardarlo dai monti…

  46. Ho sceso in vita mia dei canali a 45/50, non perché fossi un bravo sciatore, ma perché il gruppo con cui andavo in quel periodo alzava sempre un po’ di più il tiro. ( È così per tutti gli sport).
    Chiaro che di quel passo sarei finito male, uno degli allora compagni e morto, un altro si e tranciato i legamenti e un terzo non avendo più compagni ha cambiato attività.
    Decideva per noi le gite il report più super, eccezionale, meraviglioso, stratosferico…. E chi più ne ha…
    Credo che questo nuovo modo di andar per monti sia la prima causa di incidenti.
    Al secondo posto metto la mancanza di memoria storica. Non son mai sceso dal canalone dove e morto il mio amico, e nonostante io continuo a sconsigliarlo c e un numero sempre maggiore di scialpinisti che lo fa, complice la poca neve di questi anni che rende pensabile ciò che una volta era vietato dal sapere, (e se mi e andata bene una volta….. Lo rifarò, magari in polvere……)
    E al terzo posto la frenesia dell’ andare. 20 scialpinistiche a stagione erano già un buon numero, oggi si parla tranquillamente di 70/100 e più, e ovvio che il rischio aumenti.
    Sulla “montagna” cercavi la vita ed hai incontrato la morte.
    Perché in fin dei conti nessuno e tanto pazzo da cercare la morte.
    Non conoscevo le persone coinvolte nell’ incidente, ma conosco la voglia di andare, la gioia di fare , la felicità di essere lì che li animava, e non me la santo ,proprio per questo, di attribuire loro delle colpe se non quella di aver voluto sentirsi vivi.

  47. L’essere affetti dal “senno del poi” è una condizione innata in tutti gli esseri umani. Porta conseguenze spiacevoli, la peggiore delle quali è la tendenza a giudicare gli altri in base a pregiudizi e a percepire la realtà in modo distorto. Questa è forse la vera trappola euristica: mantenere intorno a sé una zona protetta, la “zona confort” dove si può dire “a me non sarebbe mai successo”; nascondere a se stessi e agli altri che la montagna può essere imprevedibile e fatale. Per quanto riguarda gli scialpinisti, l’unico modo di emanciparsene e di aprire gli occhi è questo: rimanere vittima di un incidente da valanga; proprio per questo, auguro a tutti di non guarire mai da questa condizione fortunata e comune. Passare dal senno di poi al giudizio “ex-ante”, cioé mettersi nei panni delle vittime di un incidente, dovrebbe essere l’imperativo categorico dell’uomo di montagna. Non siamo molto bravi in questo, ma non deve essere facile, dopotutto nemmeno i magistrati – che dovrebbero esservi professionalmente deputati – eccellono in questo, come sappiamo bene noi della valanga di Pila. In conclusione, che dire, dov’è finita l’anima di questo blog? 

  48. Sig.Mereu
    capitava speso in autunno che incrociavo il Grande che passeggiava con i suoi cani ai Resinelli,a volte si parlava del più e del meno,ma spesso la frase  ciave era.. un buon alpinista è quello che torna  a casa alla sera.Chiaro chi era il Grande

  49. 33
    Si può concordare su tutto resta il dubbio se vi erano le reali condizioni di sicurezza, ma erano soggetti si pensa ben orientati,
    19- 33
    E’ strano che chi Guida non abbia sviluppato una riflessione sua , e prodotta nel blog,ma l’abbia fatta esprimere ad un soggetto, che di ” come ti erudisco il pupo” ne ha fatto uno stile,ma qui il disturbo è una costante. Personalmente dal mio punto di vista rarefatto, credo cha far lanciare un sasso ad un terzo ,salvo poi intervenire, quale distaccato osservatore abbia in se una curiosa ….postura …evitare è meglio

  50. Giusto rinunciare e non solo a cimenti e imprese…dovessi scrivere su ogni pensiero e argomento sarei sempre a fare il re della tastiera  …
    E poi c c’è sempre chi mi precede che con coraggio , grazia e più cultura descrive sviluppa e smonta a pezzi ogni fatto di cronaca molto meglio di quanto sappia fare io.
    Due considerazioni;al signor Matteo Giglio auguro una il più possibile  serena  ripresa dopo aver sentito sulle sue code la presa della neve che ha portato  con  sé le vite dei suoi tre compagni , amici e allievi una cosa questa che lascerà un segno indelebile.
    La seconda considerazione che mi viene in mente è la seguente ; è meglio finire la propria vita da vecchi pieni di pastiglie e terapie o lasciarci la pelle da giovani mentre fai ciò che piu’ti  appartiene ?Si ovviamente  avevano tutti famiglia alla quale va tutto il rispetto che merita la situazione ma in questo passaggio personale che è la morte e che in questo caso li ha letteralmente travolti e spazzati via dalla loro vita credo questa ennesima  tragedia vada anche pensata e presa così.
    O sbaglio?
     
     

  51. Dovremmo meditare di più sul valore morale della rinncia. Stiamo parlando oltretutto di rinuncia al divertimento, non di fare digiuno per penitenza.
     
    La grande differenza fra scialpinismo tradizionale e skialp si incentra proprio su questo punto. Non totalmente ma principalmente.
     
    Resti pure una scelta individuale (almeno finché non si accompagna – esplicitamente o implicitamente fra le righe – qualcuno meno esperto di noi). Personalmente appartengo al filone di pensiero per cui morire perché non si sa rinunciare alla “sciatina eccitante” sia un’emerita scemenza. Questo nella nostra scuola insegnamo da decenni e questo imparano i nostri allievi. E sono contenti di averlo imparato.

  52. Carlo. Ringrazio per la segnalazione. Trovato usato in internet. Il tema della rinuncia è un tema molto intrigante. Vedi anche post di Penotti. Quanto difficile e’rinunciare, soprattutto in certe fasi dell’esistenza. Per uno dei soliti strani corto circuiti mentali in questi giorni mi è capitato di riflettere su qualcosa che non c’entra (forse, ma non lo so) : quante donne di potere in politica e nell’industria hanno rinunciato negli ultimi mesi nel pieno della loro carriera, a partire dalla Arden. Un comportamento che nella mia esperienza ho visto molto raramente adottare da maschi molto performanti  So che non c’entra ma non ne sono completamente sicuro. Mi ha fatto comunque pensare, anche perché me lo ha fatto  notare una donna che si occupa professionalmente di questi temi. Io non lo avevo neppure notato. Chissà magari ci ritorneremo in un momento meno triste, pacatamente.

  53. tranne che su articolo molto equilibrato (ma dove?) e commenti meditati.

    Elloso. Voleva essere ironico, ma non mi è uscita benissimo…..

  54. MG 33 :
    penso che il concetto di “esperto” sia piuttosto vacquo, e questi ultimi 3 anni hanno aumentato questo livello di vacuità 

  55. Ah…! Tutto molto bello, un articolo molto equilibrato e commenti meditati.
    Però, permettete siamo lontani dalla realtà e discettiamo di massimi sistemi mentre il tutto in realtà è molto più (tragicamente) semplice.
    Tutti quanti conosciamo la catalogazione AINEVA del pericolo valanghe, ma ho come l’impressione che non si conosca la traduzione applicata dalla stragrande maggioranza degli sci alpinisti, beninteso, io per primo.
    La reale interpretazione:
    Grado 1. Neve di merda, poca e non sciabile. Meglio andare a fare una sgambata in rifugio discettando dei massimi sistemi, guardando con riprovazione i turisti che vengono a mangiare polenta e salsiccia.
    Grado 2.  Beton misto a ghiaccio o, se va di culo, crostaccia non portante in sciabile. Se va di lusso, firn primaverile con 600 metri di portage e 400 di curve costrette.
    Grado 3. Si scia! Se imbrocco esposizione e meteo, mi sparo curve sulla powder come quel filmato su Youtube. Che poi sia girato in Canada o in Giappone e io sia in Val Chisone….
    Grado 4. Si vabbè, ma io non sono mica pirla. Dovrei stare in casa ma se vado a fare quella gitarella in bassa quota e per metà nel boschetto…
    Grado 5. Ok sto in casa. Anzi no, c’è quella gita tutta nel bosco e con pendii modesti. Che poi si affondi fino al naso, anche se ho dei 100 sotto il piede…farò comunque un report entusiasta…. Oppure due passi in centro con giacca e pantaloni Montura e scarpe La Sportiva?
    Ecco. Questo è quello che leggiamo nella nostra testa. Tutto il buon senso che mostriamo su questo blog crolla miseramente al primo fiocco di neve. Questa è la realtà. E la prova provata è che la maggior parte degli incidenti da valanga avviene con grado 3.
    Molto serenamente dobbiamo ammettere che, come qualcuno ha giustamente fatto notare, lo sci alpinismo è forse l’attività più pericolosa in assoluto fra quelle montane e che gli inviti alla prudenza e al non cadere nelle cosiddette trappole euristiche trovano poco riscontro nella quotidianità. Da parte di tutti. Guide, sciatori solitari o scuole CAI. Ci piace sciare, farlo se possibile su pendii intonsi e godendo della fatica lenta del salire con le pelli. Tutto qui.
    Meglio sarebbe dire con molta brutale onestà soprattutto con chi è agli esordi: “se volete fare sci alpinismo sappiate che ogni singola gita, indipendentemente dal grado di pericolo valanghe potrebbe essere l’ultima”.
    Un ultima cosa in merito all’incidente della Valle di Rhemes. E’ antipatico dirlo, non è stato un incidente in montagna, ma un infortunio sul lavoro. Era il modulo di sci alpinismo per il passaggio da Aspirante a Guida Alpina, dove pensate che si dovesse fare?  Con due curvette al Col Serena? Matteo Giglio è una guida con i contro attributi e con un numero di giornate in montagna che la maggior parte di noi non riuscirà ad accumulare in tre vite. Cosa è successo non lo sapremo mai. Sappiamo solo che è successo e dovrebbe bastarci questo.
     

  56. Come scritto da altri, trovo l’articolo inopportuno, al di là delle cose scritte, giuste o sbagliate che siano. Le attività in montagna sono, per definizione, rischiose e credo che nessuno conosca davvero bene la materia neve e le sue dinamiche. Sono morti fior di alpinisti per le valanghe. Uno su tutti, Toni Gobbi. Mi sembra ingiusto puntare il dito contro le vittime o i sopravvissuti, mi pare triste che a farlo sia gente che va in montagna. Chi non ha mai rischiato in montagna è perché la montagna non l’ha mai vissuta o capita davvero. Quello che però spiace, è che spesso quando a morire siano degli amatori e non dei professionisti si esalti subito l’incapacità dei primi. “Salvataggi costosi e rischiosi per colpa di imprudenti: basta ignorare i bollettini”, disse l’assessore VDA all’indomani della tragedia dello Chateau des Dames. O quando ad essere condannati furono dei poveri istruttori Cai, per la valanga di Pila. 
     

  57. mi associo al commento n. 33 di MG.
    Questo è il momento del silenzio nel rispetto dei morti e del dolore dei  loro parenti.

  58. Sign  Regattini e Pasini, se è interessato dall’aspetto euristico della rinuncia, prima ed immediatamente a ridosso, mi permetto di consigliarLe : narcisi di montagna, dialogo per un alpinismo della ricerca. Di Nereo Zepper, filosofo e alpinista friulano

  59. articolo semplicemente indecoroso (ovvero contrario al decoro) e fra i meno opportuni  letti su questo blog.
    Sono morti tre esperti, che certo non risentivano ne del mordi e fuggi nè della poca conoscenza dell’ambiente. 
    C’è una inchiesta in corso, non si conosce alcun particolare dell’accaduto (nè mostra di conoscerlo il modesto estensore di una saccente  tirata) e vi è una indagine della procura in corso.
    A cosa serviva il solito  sproloquio a fronte di gente morta probabilmente  per un errore e non per una fatalità (come il 98% delle morti in montagna, si errore di valutazione o tecnico poco importa).
    Ho visto una intervista a caldo del responsabile del soccorso valdostano  che – da bravo montanaro e soccorritore – ha elegantemente glissato sulle domande dirette, dicendo è ancora presto, valuteremo e cercheremo di capire.
    C’èra necessità  con persone morte da due giorni di fare sempre il gallo parlante, con banalità sul cambiamento climatico, la neve che non è più la stessa, i miei tempi, a signora mia ai miei tempi lo skialp – che allora si chiamava scialpinismo – si faceva a maggio, e poi non si correva sempre e non c’era il telefonino che distraeva a mandar messaggi mentre si scia (che il livello degli argomenti quello è…).
    Conclusione nel più puro stile crovelliano, degne di topolino : “La correlazione fra le tre citate “variabili dei nostri tempi” configura un mix pericolosissimo. E’ fuori di dubbio che si veda in giro molta, troppa, superficialità: in parte per la generale facilità di accesso alla montagna, in parte per la dominante concezione “sportiva” che spinge a considerare l’andar in montagna come un qualsiasi sport praticato in un parco cittadino.”
    MA non vi vergognate di fronte a tre aspiranti guide morte a scrivere simili nefandezze?
    Come se un modesto guidatore di kart venisse a commentare la morte di Senna dicendo che era un esperto coglione perché andava troppo forte. essù.
    Ora cancellate pure…

  60. Ricordo che qualche tempo fa Crovella asseriva con tetragona certezza che quando si muore in montagna la colpa è sempre dei deceduti.
    Ora che lo stesso scriva su queste tragedie cercando di prospettarne cause e motivi mi sembra quantomeno fuori luogo.

  61. https://petzl.my.salesforce.com/sfc/p/#20000000HrHq/a/68000000DQgE/sK0fpZujo5SOgvo4JDcjcdoTSLc0SR1jtAgIm6KFmGEGrazia, ne avevamo già parlato tempo fa. Le “euristiche” di cui parla Pellegrini sono analizzate da pg. 8 a pg. 15. Se ti interessa molto materiale si trova nel sito della Fondazione Petzl. Alcune ricerche sono state condotte intervistando i sopravvissuti e cercando di ricostruire i processi mentali che li hanno portati a certe decisioni.

  62. #25, Luciano Regattin. Ti riferisci ai due post (specialmente al secondo)

    https://gognablog.sherpa-gate.com/social-e-decisioni-su-neve/
    https://gognablog.sherpa-gate.com/valanghe-quanto-e-pericolosa-la-nostra-mente/
    cui rimandiamo per una ri-lettura.Le trappole euristiche sono overconfidence, eccesso di determinazione, euforia, consenso sociale, competizione, aura dell’esperto, istinto gregario, effetto dell’apprendimento negativo, sindrome del cavallo e sindrome dell’orso. Ma tutte queste sono caratteristiche della gestione di un’escursione, quando già si è partiti. Volendo esaminare solo i meccanismi che precedono la decisione se partire o no (dopo aver visionato il bollettino AINEVA), in un articolo già così lungo abbiamo preferito fare riferimento solo alla “tenaglia degli impegni a raffica” e all’”approccio mordi e fuggi”, nonché accennare appena alla passione bruciante, alll’esperienza accumulata e alla sensazione di forza atletica.

  63. Ho la mia statistica personale di amici e conoscenti “esperti” che sono stati uccisi dalla “valanga assassina”. Questa mi basta per affermare l’alto pericolo intrinseco di questa bellissima attività.

  64. Luciano, temo di aver mal compreso: come si fa ad analizzare “cosa accade nella testa delle persone quando si trovano lì sul posto e devono decidere cosa fare”? E perché dovremmo farlo?

  65. I numeri della tabella segnalata da Pasini a me paiono un po’ eccessivi. Inoltre c’è un errore concettuale che ricorre spesso in queste statistiche. Più che il numero di individui in assoluto conta il numero di uscite annue. Un individuo che fa 50 i 100 gite a stagione incide molto di più di un altro che sta 15 o 20 gite a stagione. Ma il numero totale di uscite/uomo  è praticamente impossibile da stimare. E poi: c’è gita e gita. La passeggiatina di 800 m D+ non ha lo stesso peso specifico di un gitone in quota con pendii ripidi e  su ghiacciaio. E come equiparare un GP di F1 con la una scampagnata fuori porta. Tutte queste elaborazioni a me non convincono, troppo aleatorie: per questo non credo molto nelle statistiche basate sul numero dei praticanti.
    Anche perché quello che incide è l’approccio medio alla montagna, molto diverso da quello tradizionale. La neve la si consce camminandoci sopra milioni di volte, a volte orecchie e sensazioni dai piedi ti “dicono” più del bollettino, certo, ma perché ciò avvenga i sensi devono esser ben allenati e l’esperienza davvero raffinata. Spesso si “corre” e l’attenzione è rivolta ai garretti non ai segnali che ti dà la neve. In più occorre inserire la valutazione prettamente nivologica (bollettino) nel contesto meteo complessivo. Un grado 3 nivologico è nettamente più rischioso se ti muovi con il vento fortissimo. Chi conosce quel tratto di ghiacciaio fra Granta Parey e Tsanteleina sa che con vento fortissimo (che lì non viene parato da vette più alte) come niente la temperatura cala a -10 forse anche -15. In più c’è l’effetto vento e la temperatura percepita è molto inferiore. Con un quadro così (mix fra grado 3, recentissime precipitazioni e vento fortissimo), è incomprensibile pnon esser tornati indietro, se non perché sottoposti a pressioni socio-culturali come quelle descritte.
    A chi sostiene che i bollettini siano solo un’indicazione di massima, ribatto che non sono però campati per aria. Se danno grado 4, più o meno siamo in quadro da grado 4. Quando si legge grado 4 la strategia è molto semplice: cambi gita, addirittura cambi valle. Insistere NON è più fare scialpinismo: è roulette russa.
     
    La vita è un dono troppo grande per “giocarci” sopra. Bisogna meritarselo, questo dono, e lo si dimostra ogni giorno comportandosi con buon senso e prudenza. Meglio stare a un metro dal precipizio che a un solo centimetro.

  66. 19. Avevo già letto attentamente il lungo articolo. Mi dispiace, ma se per voi le trappole euristiche consistono nella “tenaglia degli impegni a raffica” e nell'”approccio mordi e fuggi”, perché altre considerazioni non ne ho trovate, trovo che l’argomento sia stato trattato un po’ superficialmente. Le due situazioni che avete analizzato si trovano a monte dell’uscita, ma non avete analizzato cosa accade nella testa delle persone quando si trovano lì sul posto e devono decidere cosa fare. Cosa spinge un individuo esperto ad attraversare, risalire o scendere un pendio potenzialmente mortale. In ogni caso il tema lo avevate già trattato approfonditamente in un altro post, peccato non averne fatto tesoro.

  67. @22 “l’analisi dei fatti accaduti porta  sempre alla conclusione che c’è stato comunque un errore nella valutazione del pericolo” 
    La parola “sempre” mi stona nel tuo post. Partecipo a questo blog condividendone appieno l’opposizione strenua all’ideologia securitaria, secondo cui è necessario indentificare sempre un colpevole che ha  sbagliato. Il tuo sempre mi sembra invece andare proprio in questa direzione: trovare il colpevole. La magistratura è già abbastanza giustizialista riguardo al tema montagna. Non ha bisogno del nostro sostegno, grazie. 

  68. All’indomani di tragedie in montagna per valanghe, quando sono coinvolti esperti,  l’analisi dei fatti accaduti porta  sempre alla conclusione che c’è stato comunque un errore nella valutazione del pericolo oppure una eccessiva propensione al rischio. 

  69. Lapidario.
    Lo scialpinismo è la pratica montana più rischiosa che ci sia con i pericoli più sottovalutati e  questo da sempre.
    La metà delle gite che si fanno normalmente ogni fine settimana sono a rischio e gli incidenti sono pochi rispetto ai rischi che si corrono.
    Quello che viene insegnato nelle scuole è fuffa che illude false sicurezze. Valutare i pericoli in luoghi che non si conoscono o si conoscono poco è impossibile e presuntuoso. 
    Un bollettino può solo essere indicativo.
    Ma come fai a valutare il tipo di neve, da quanto è lì, cosa c’è sotto, che temperatura e quanto vento c’è stato? Forse se abiti lì a due passi e conosci perfettamente il territorio. Forse. 

  70. Per quanto riguarda il grado di pericolo, invece, vorrei fare un paio di considerazioni.
    In primo luogo, lo trovo un parametro importantissimo, l’unico oggettivo in tutta la catena della prevenzione degli incidenti.
    Mi sembra ci sia una corrente di pensiero condivisa nel blog che proporrebbe, al posto dei divieti, una misura di NON-intervento del soccorso in caso di pericolo 4 e 5. Trovo che sarebbe radicale ma giusto, inutile infatti sottoporre i soccorritori a rischi verosimilmente inutili, rimandando il recupero a quando la situazione sia stabilizzata.
    Per quanto riguarda le gite collettive o con responsabilità di accompagnamento, io mi sono sempre attenuto alla regola di non uscire con pericolo superiore a 2. Neanche questo è stato sufficiente, se è vero che in occasione della valanga di Pila del 2018 abbiamo avuto due vittime. Ma può essere una base di partenza. All’epoca, il previsore AINEVA riconobbe l’imprevedibilità della situazione e – senza altri fattori di variazione a parte il nostro incidente, in pratica solo “col senno del poi” – adeguò il pericolo a 3 e poi addirittura a 4 (!).  La magistratura invece – il cui operato non è opportuno commentare ora in questa sede – calcò la mano, con l’imputazione e la condanna, in primo e in secondo grado.

  71. # per Luciano Regattin. Se leggi attentamente tutto il (lungo) post puoi vedere che pressoché tutte le trappole euristiche sono state citate. Solo che non le abbiamo citate con quel nome.

  72. Giuseppe, anche se non so se conosco le guide del tuo ricordo, non credo sia una questione di curriculum, ma più spesso di trovare l’armonia tra le pressioni dei clienti – che a volte hanno eletto un sol giorno per la visita – l’aspetto economico, il meteo, le capacità di chi viene guidato, la forma fisica della guida in quel dato giorno, il meteo e tanto altro. Assicuro che non è semplice.

  73. Bè, non poteva mancare il Crovella nelle vesti di esperto valangologo, che ci insegna che “sono cambiate strutturalmente le temperature. Sulle valanghe non incide solo la temperatura dell’ambiente, ma anche altre variabili come il vento. Non basta quindi leggere solo il numeretto del pericolo AINEVA, occorre valutare il contorno” .
    Ah be’ se il pericolo è 3, anche la frutta valuterei, e perché no, anche il caffè e l’amaro. Al caldo di una trattoria. Robe da matti!
    Invece in tutto l’articolo nessun accenno alle trappole euristiche, probabilmente la vera motivazione, nel loro insieme, di scelte scellerate ed evitabili.

  74. Renzo (commento 7): non ho mai visto statistiche sul rischio mortalità nello scialpinismo. Un tempo provai a valutarlo e vi sottopongo il ragionamento: stima del numero di praticanti in Italia ( tanto per avere un dato propongo 30.000, escludendo lo “scialpistismo”); media numero vittime per anno: circa 25 vittime negli ultimi 30 anni con andamento a “U” (calo fra il 1990 e il 2015, vedi  https://aineva.it/wp-content/uploads/2019/12/NV93_7c.pdf)
    Ne viene fuori un tasso di mortalità di poco inferiore a 1 su 1000. Se per fare un  confronto vogliamo riferirci agli incidenti stradali, siamo a circa 3000 vittime (in forte calo negli anni) su 60 milioni di abitanti, 1 su 20000. Se il dato è più o meno corretto, emerge che la mortalità da valanga fra i praticanti è di un ordine di grandezza 10 volte superiore a quella degli incidenti stradali. Tanto ma non tantissimo, mi sembra.

  75. Un ricordo. Alle 4 di notte mi sveglio e vado in bagno. Sono al rifugio e alle 6 si partirà per la cima. Sento due persone parlare. Sono le due guide che ci accompagneranno. Una dice: “Ma veramente vuoi portarli su con questo tempo?” L’altra risponde: “Ci pagano per questo.” Al mattino mi lamento per una fastidiosa cefalea. Loro partono sotto una leggera pioggia in mezzo alle nebbie. Torneranno sani e salvi senza però aver visto quasi nulla. Hanno un’altra cima nel loro palmare.

  76. Invito anch’io a fermare il giudizio, a mettersi nei panni di chi è rimasto e di chi sta vivendo dappresso questa tragedia.
     
    Solo chi c’era può sapere il perché e il per come. A noi restano chiacchiere da bar, ma con rispetto e dignità. 

  77. Scusa Roberto, il mio commento non voleva essere offensivo.. Ho perso diversi amici in montagna.. Intendevo dire solo che certe cose si potrebbero evitare.. 

  78. Diego. Ma come fai ad essere così giudicante verso quattro professionisti? Come fai a dire in fondo è colpa loro perché hanno commesso un errore. Per di più manco ti firmi. Permettimi la franchezza, ma la cosa mi indigna. Almeno un po’ di rispetto. Si ripete la storia della Marmolada. Se fossi una guida ti avrei risposto in modo più deciso e con piena ragione. 

  79. Una precisazione: le vittime della valanga in Alta Savoia sono state sei, delle quali due erano guide alpine.
     
    Una considerazione: salire con pericolo 4* il canalone dello Château des Dames, stretto e serrato tra pareti rocciose, è stato un azzardo.
    Basta un solo errore per morire. E tutti noi ne abbiamo fatti piú di uno in montagna. Ci è andata bene.
     
    * Davvero il pericolo era addirittura 4?

  80. Tragedia e sfortuna a parte, perché affrontare un pendio ripido alle 14 di pomeriggio, conoscendo l’instabilità del manto nevoso e soprattutto le alte temperature di questi giorni? Per di più con una giornata con scarsa visibilità? La cosa che fa + rabbia è questa, 4 guide alpine, non persone comuni inesperte. Purtroppo gli errori in montagna si pagano cari e dispiace 🙁

  81. Ammutolisco di fronte a queste scomparse.

     

    Mi trovo d’accordo con Paolo sull’incapacità dubbia degli amatori – non certo dei professionisti – di saper leggere, interpretare e valutare i bollettini niveo-metereologici, soprattutto per via dell’inesperienza che fa sì che la maggior parte dei fruitori si muovano in natura mediamente con il bel tempo e per lo spazio di una giornata.

    Credo che normalmente non ci si prenda la briga, come faccio io, di contattare gente del posto per conoscere l’andamento di meteo e innevamento, il numero di fruitori, l’apertura di rifugi e altro.

  82. Buongiorno, temo che il problema non sia risolvibile, al di la della sensibilizzazione prodotta anche dall’ottimo articolo.
    Bisognerebbe ipotizzare attività sportive “buone” e attività sportive “cattive” per vietarle o normarle, si determinerebbe uno stato etico, molto pericoloso dal mio punto di vista.

  83. Distinguiamo chi fa certe attività ad alto rischio per lavoro e chi per “diletto”. Concentriamoci su questi ultimi, cioè la maggioranza di noi. Io non so se siano state calcolate percentuali di rischio per lo scialpinismo. Anzi se qualcuno ha una fonte attendibile sarebbe utile condividerla. Certamente ci sono oggi delle variabili oggettive e soggettive che possono alzare o abbassare la percentuale, ma alla fine il discorso da fare a se stessi e agli altri è sempre lo stesso, per onestà e senso di responsabilità: “Io amo questa attività e la pratico abitualmente. Prendero’ tutte le precauzioni ma sono consapevole che c’è un rischio serio. Me lo prendo e lo metto lì, nel cassetto. Però per me è fondamentale e la metto in alto nella mia graduatoria delle priorità. Me ne assumo tutte le responsabilità verso me stessi e gli altri che amo e ai quali sono legato”. Io penso si debba essere sinceri, spietatamente, e guardare in faccia la realtà, senza finzioni o giustificazioni tirate per i capelli. Oppure uno lascia perdere e fa altre scelte. Con tutte le prudenze e attenzioni, procedure, tecnologie, non ci sono certezze ma solo probabilità e ognuno è arbitro del suo destino e delle sue scelte di vita (come mi disse il cardiochirurgo che mi ha operato un mese fa e che io ho apprezzato tantissimo per la sua sincerità senza finzioni, da adulto ad adulto che in ultima istanza decide da solo sulla sua vita, perché si vive con gli altri, ma alla fine si muore da soli). 

  84. Io ho cominciato con la scuola della ligure nel 1970, Pastine e Nannelli direttori, istruttore. Siamo rimasti sepolti in una quindicina ma ci è andata bene. Ora i giudici, i familiari in cerca di risarcimenti e le assicurazioni per non pagarli, sono alla ricerca dei colpevoli: se ne parla tanto, ma se escludiamo il dolo (difficile che un Giglio porti degli esperti a sacrificarsi su un terreno per giunta facile) il confine tra colpa e fato, a mio parere non è distinguibile!

  85. C’è modo di sapere se le vittime erano dotate di airbag?  e, se si, se ha funzionato e non è evidentemente servito o se non si è aperto??

  86. Qualche considerazione, partendo dal fatto che ho iniziato con lo scialpiniso nel ’75 e che mi riferisco alla massa scialpinistica.
    In quegli anni il bollettino valanghe in Piemonte lo ascoltavi per telefono da una voce impastata che ti permetteva di capire quasi nulla. Io molte volte telefonavo il giorno prima a qualche abitante della zona in cui volevamo fare la gita (numeri dei CC, abitanti presi a caso e sovente ne ricavavo info utili). Oggi ci sono notizie di tutto e di più. Ma la capacità di analisi di quelle notizie e di trasportarle sulla gita non penso siano cresciute tanto.
    Allora, con talloniera Marker, si facevano i classici 300 m/ora, 500 i forti. Oggi è pieno di gente che ne fa 800-1000, 2500-3000 nella giornata. I materiali sono miglioratissimi, sono raggiungibili infinite più mete, anche tecnicamente impegnative e predisposte a maggior pericolo.
    Statistica: se cadevano 10 valanghe e in giro c’erano 10 scialpinisti, a parità (non vera per i noti fenomeni meteo esasperati) di tutte le variabili,  = ics probabilità. Oggi la gente è molto più che decuplicata, probabilità aumentata.
    Altre considerazioni possibili ma ammetto che quelle sopra sono poco relazionabili con l’incidente al Corso guide, con quello al Chateau des dames penso molto di più.

  87. Quando succedono queste cose la prima cosa che mi viene in mente sono le parole di Piaz che paragonava le valanghe alle pere: si sa che son mature, ma non si sa dove quando cadranno. A questo fatto che le valanghe scendono dove son sempre scese, dove a volte scendono e dove non sono mai scese, si aggiunga ciò che giustamente mette in evidenza il pezzo: aumento della frequentazione e cambiamento climatico. Il primo in parte indotto dalle pubblicazioni e dai molti corsi, nei quali, spesso, si da più importanza al saper usare i mezzi per intervenire tempestivamente “dopo” che non un’accurata preparazione “prima” che la valanga scende. Il secondo punto (riscaldamento globale) temo vanifichi persino l’antico ” sapere” di cui ha parlato il primo commento. Vista la professionalità delle vittime mi vien da pensare si stia diffondendo una sorta di sopravalutazione del proprio sapere ed un filo di presunzione, accompagnata da una sorta di “dover” fare e intendere una rinuncia come una sconfitta. Purtroppo temo che le valanghe continueranno a cadere e che , purtroppo, continueranno a travolgere persone impreparate o troppo preparate

  88. Queste vicende dovrebbero far riflettere senza abbandonarsi al fatalismo. Indubbiamente l’eco di questi fatti è amplificato dai mezzi comunicativi odierni, ma gli stessi mezzi provocano la caduta nell’oblio altrettanto velocemente. Io ricordo molto bene l’incidente occorso alle guide valdostane negli anni ’80 perché persi un amico d’infanzia. Ci sono una serie di fattori tipici della nostra era che influiscono sulla lucidità di valutazione, uno di questi fenomeni ha un nome inglese: “overconfidence bias”. E’ un fenomeno che andrebbe approfondito e condiviso a tutti i livelli affinché istruttori CAI e professionisti abbiano coscienza di alcuni meccanismi psicologici che possono influenzare pesantemente le nostre azioni provocando una distorsione cognitiva. Se non ho pressioni e vivo in montagna e per settimane mi sveglio e sento il vento, vedo la “gunfia” a fondovalle, vedo l’orto polveroso, ebbene non tiro fuori gli sci dalla cantina, faccio semplicemente altro. Se chi tornato da una delle gite citate avesse postato una gita da 4 stelle, quale sarebbe stata la reazione del “pubblico”? Indubbiamente di ammirazione ed emulazione. Ma se a quella gita avesse aggiunto pericolo elevato, recenti nevicate, vento e nebbia persistente, impossibilità di soccorso in caso di necessità, il pubblico come avrebbe reagito? Proviamo a riflettere.

  89. Mi vengono alcune riflessioni.
    D’accordo con Crovella, i ritmi moderni tendono ad incastrare troppi appuntamenti in poco tempo, cosa che spesso frena la rinuncia.
    Effettivamente, circa l’incidente dello Chateau des Dames, mi sono chiesto anche io cosa ci facessero delle persone in quella zona (orgraficamente nota per valanghe) dopo nevicate e con rischio elevato (3 o 4 non ricordo ma comunque elevato).
    In ultimo, io ho sempre pensato che per fare sci alpinismo cosi come ghiaccio (intendo cascate, couloir) sia necessario vivere in montagna per acquisire quella conoscenza dell’ambiente e sensibilità che nessuno che vive altrove potrà mai avere. Significa svegliarsi al mattino, annusare l’aria, vedere la neve sul versante di fronte come evolve, capire il vento…..
    Ghiaccio e neve sono elementi troppo complicati per essere valutati solo con le informazioni a distanza. In ogni caso ciò è necessario ma evidentemente non sufficiente visto che comunque l’incidente può capitare anche a chi vive in valle.
     

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