Greenpoint – 01

Greenpoint è un bollo verde che i climbers mettono quando una via a spit è ripetuta anche trad, cioè con soli mezzi amovibili, friends, nut, cordini, ecc…


Greenpoint
(prima parte)
di Andrea Gennari Daneri
(pubblicato su Pareti n. 139)

Il greenpoint è l’ennesima fantastica sfaccettatura possibile della scalata, con la riscoperta in ottica trad di vie chiodate per l’arrampicata sportiva. E’affascinante, è un pozzo infinito di motivazione ed è anche una forma di ribellione pacifica alla omogeneizzazione che avanza, con tutte quelle vie spittate e parallele, sicure e tutte fottutamente uguali… Ecco tre “campioni” di questa attività, che ci spiegano il greenpoint con la loro attività.

Heiko Queitsch

Heiko Queitsch
Heiko Queitsh è tedesco ed è un greenpointer seriale e organizzato, cioè uno che ha impostato buona parte della sua carriera verticale su questa speciale disciplina. Ha fatto video facilmente rintracciabili su youtube e tuttora cerca proseliti, da contagiare con il contagio buono del trad.

Dove vivi e quando hai iniziato? Sei un professionista dell’arrampicata?
Vivo al confine del Frankenjura. La bellissima Valle di Trubach, sede di molte classiche dell’arrampicata sportiva, è a soli cinque minuti di auto. Quindi andare, scalare e portare fuori il cane porta via lo stesso tempo. Direi che sono un climber professionista perché ho arrampicato per la maggior parte della mia vita e l’arrampicata è il punto centrale della mia esistenza. Mando avanti una scuola di arrampicata e lavoro come istruttore per gli istruttori di arrampicata sportiva per conto del Club alpino tedesco. E poi ho diversi sponsor che mi supportano.

La genesi del greenpoint tedesco riporta a Wolfgang Güllich, giusto? Cosa ha fatto in questo campo e ti ha ispirato? Sei stato influenzato anche dall’arrampicata ex-ddr nell’Elbsandstein?
Penso che la salita di Güllich della classica del Frankenjura Welzenbach Ged. Weg (F 7c+) sia stata la vera origine del nostro movimento. Questa salita rappresenta tutte le idee di base del movimento Greenpoint. Una prima salita con chiodi da parte di un gruppo di tradizionalisti seguita dal primo pulito “punto verde” (anche se aveva segnato rosso) di Wolfgang. Successivamente ci fu un forte clamore che mise in dubbio la sua salita, perché doveva essere possibile solo con i chiodi originariamente piantati. Wolfgang è stato ispirato a superare questa idea di base e salire la via senza l’aiuto di spit e chiodi. Quello che poi è stato dimostrato che ha veramente fatto.

Come una volta Kurt Albert metteva il pallino rosso alla base delle vecchie vie di artif liberate, ora il “Grüner Punkt”, all’attacco delle vie del Frankenjura, segnala che hanno anche una FA in greenpoint.

La prima domanda che sorge ora è: perché “Greenpoint”? E’ come nell’Elbsandstein?
Fondamentalmente potresti anche chiamarlo “clean climbing”. Ma dopo che un piccolo gruppo nel Frankenjura ha chiamato “cleanclimbing” la ripetizione delle classiche linee di arrampicata con gli spit, è nata l’idea di sottolineare con il punto verde per mostrare che hai entrambe le opzioni: arrampicarla con o senza spit. Perché “Green”? Beh, la natura è verde, dovrebbe essere pulita, così come le linee che abbiamo scalato dove non usiamo spit per l’ispezione! Quindi un’ulteriore sviluppo della rotpunkt?! D’altronde il Frankenjura è il luogo dov’è nata la rotpunkt e noi (io, Frank Kretschmann e Alexander Neubauer) abbiamo pensato che il “Greenpoint” in un certo senso seguisse la tradizione di questa zona.

Heiko Queitsch durante la FA di Drachenmaul E7 (F7c+). Foto: Tim Birkenbach.

E senza tante altre dietrologie e sempre con una gran componente di divertimento, senza prendere nemmeno l’argomento troppo sul serio. Insomma che sia redpoint o greenpoint… era nata una nuova bella idea, della quale sicuramente e comunque i pionieri sono stati Wolfgang Güllich e Kurt Albert negli ’80 e ’90! Non abbiamo inventato nulla di nuovo, abbiamo solo dato un nome a una cosa bellissima e l’abbiamo sviluppata ulteriormente. E poi, come noi oggi, anche loro hanno dovuto affrontare discussioni. Ma sono sicuro che il nostro “movimento” sarebbe piaciuto a Wolfgang e Kurt. Per chiudere la tua domanda, no: non ha nulla a che fare con l’arrampicata nell’arenaria dell’Elba. Quella zona ha una sua etica e regole che meritano una storia a parte.

Heiko Queitsch durante la FA di Drachenmaul E7 (F7c+). Foto: Tim Birkenbach.

Accennavi a contrasti con altri climber? Effettivamente a volte è un po’ strano vedere gente correre dei rischi in mezzo agli altri che stanno scalando in sicurezza…
Ovviamente ci sono sempre persone a cui non piace qualcosa o che hanno qualcosa da criticare. Ma questo fa sicuramente parte della vita così come parte dell’arrampicata, qualunque cosa tu faccia. Alcuni erano infastiditi dal fatto che la chiamavamo “clean climbing”, come se l’altra fosse sporca. Ma non era affatto quello il nostro approccio. Come già accennato, chiunque sia infastidito dal nome Greenpoint può semplicemente dire: fa un giro su una via chiodata senza usarli, chi se ne frega!! Se si guarda al rischio potenziale, trovo che sia simile al rischio che si corre scalando le vie a spit: ci sono greenpoint protette molto bene e altre male, così come avviene nelle salite spittate. Devi sempre sapere cosa stai facendo! Il rischio dipende sempre molto da quanto sei in forma e da quanto puoi controllare il grado. Di conseguenza, il rischio soggettivo di una scarsa protezione è piccolo oppure grande.

Il granito e l’arenaria sono più stabili, ma il calcare è più fragile. Le cadute sulle protezioni potrebbero rompere le prese: qual è la tua strategia al riguardo? Ci sono regole non scritte che segui?
Sorrido sempre un po’ ascoltando che il calcare è meno solido! Quando si confronta con la maggior parte dei tipi di arenaria, è molto più stabile, se si utilizzano i materiali giusti. Comunque abbiamo sempre posto attenzione, quando abbiamo salito le nostre vie in questo stile, a non piazzare le protezioni in punti fragili, con poco bordo. A volte trovi un buon posizionamento in una presa, ma non puoi usarlo, perché è un appiglio cruciale. Una regola che ci siamo imposti è quella di piazzare sempre e solo il materiale dal basso, niente pinkpoint nel trad!!

Heiko Queitsch durante una delle rare ripetizioni greenpoint di Magnet, 7c+. Foto: Frank Kretschmann.

Che materiale si usa in Frankenjura?
Più o meno lo stesso usato nel trad. Friend, nut, fettucce, ecc. lo sono un grande fan dei fuorimisura DMM, che sono perfetti per i buchetti del calcare del Frankenjura.

Cosa ti affascina di più del greenpointing?
Per me la commistione delle diverse discipline verticali è fondamentale per restare motivato, anche dopo quasi 30 anni di arrampicata. Non importa se arrampicata sportiva, bouldering o solo di tanto in tanto qualcosa senza spit. L’aspetto bello e affascinante dell’arrampicata senza spit è il suo approccio diverso rispetto a quello che ho normalmente in arrampicata. Non puoi semplicemente consumare e spuntare dalla lista una via dopo l’altra, ma sei costretto a pensare attentamente in anticipo e pianificare il materiale e quando salire sul percorso. Soprattutto se i percorsi sono impegnativi in termini di difficoltà e offrono solo scarse possibilità di proteggersi. Ma se ho gestito una linea del genere, la ricompensa e il valore aggiunto sono significativamente maggiori rispetto a salire la via in modo “normale”. Tali esperienze sono molto più intense, più durature e l’emozione dura più a lungo.

Heiko Queitsch durante una delle rare ripetizioni greenpoint di Magnet, 7c+. Foto: Frank Kretschmann.

Provi vie che avete già scalato rotpunkt o a volte parti a vista con dadi e friend?
No, non sono interessato in una onsight difficile! Sono padre e marito e la mia famiglia ha bisogno di me vivo e in salute, io mi procuro da vivere con la mia scuola di scalata e quindi ho bisogno di guadagnare; quindi cerco di mettere sul piatto i rischi in modo molto accurato e parto per una greenpoint solo quando mi sento vicino al 100% di possibilità che non possa succedermi niente di grave.

Questa è la ragione per cui prima provo la via con la corda dall’alto, all’inglese. Quando mi sembra tutto ok, allora parto dal basso e sempre piazzando il materiale. Durante alcune delle mie salite mi rendevo perfettamente conto che cadere in alcuni punti avrebbe portato a conseguenze fatali, ma ero altrettanto sicuro di poter maneggiare con sicurezza quelle sequenze rischiose, tanto da poterle ritenere, in questo modo, dei punti di rischio accettabile. Comunque anche grazie alla mia esperienza inglese nel Peak, dove ho provato anche qualcosa a vista, credo che tutti e due gli stili siano belli e importanti.

Heiko Queitsch, alla Krottenseer Turm, piazza una protezione su Chasin’ the Train, 7c. Foto: Frank Kretschmann.

Qual è stata la salita più importante in greenpoint e qual è ancora il tuo sogno in questo campo verticale?
Hmmmm, faccio fatica a rispondere di getto. Ma le classiche sono qualcosa che comunque è speciale. Magnet (7c/7c+) alle Richard Wagner Fels, la prima via di quel grado fatta greenpoint nel mondo da Kurt Albert, è stata anche la mia prima Greenpoint e a motivarmi per provarci è stato Frank Kretschmann. Da allora ho cominciato a cercare linee che fossero possibili da scalare solo con materiale mobile. Alla fine la maggior parte delle vie che ho fatto non sono le classiche linee con una fessura dentro. A guardare bene il calcare offre tanti possibili punti di protezione diversi, anche se a volte molto distanti l’uno dall’altro.

E, addirittura, si può dire che la maggior parte delle vie “facili” sia più semplice e sicura da proteggere con il materiale mobile che non con i pochi fix che ci sono in posto.

Ora che mi hai dato il tempo di rispondere, posso dire che tra gli highlight delle mie salite c’è sicuramente Chasin’ the train (F 7c) alla Krottenseer Turm, appena a destra di Wall Street, il primo 8c mondiale. Chasin’ ti lascia mettere qualche dado a prova di bomba nel primo terzo, materiale che equivale a scalare protetto da resinati; ma poi la storia cambia e si riescono a piazzare solo pezzi distanti e non così sicuri. Tanto che si può dire che cadere dopo il crux comporterebbe una caduta a terra da 18 metri di altezza. Poi ho rifatto quella di cui abbiamo già parlato, cioè Welzenbach Ged. Weg (F 7c+)” che Wolfang Güllich aveva scalato green più di vent’anni fa, cadendo quasi a terra durante uno dei tentativi di libera. Alexander Neubauer aveva fatto la seconda greenpoint dopo Güllich, seguito da pochissimi altri. Invece Chasin’ the train e diverse altre ancora aspettano la seconda salita greenpoint dopo la mia.

Tonias Plail piazza un dado su Schildkroete, 7b.

Quanti siete a scalare nello stile greenpoint in Frankenjura e in Germania in generale?
Non ho un punto di vista globale sull’intera nazione, ma in Frankenjura l’interesse non solo per il greenpoint, il trad e persino per le vie spittate un po’ lunghe è in forte decrescita. Insomma siamo in pochi a farlo, e a farlo regolarmente. Ma gli avventurosi ancora sopravvivono a questa crescente massa di “consumatori”, la maggior parte dei quali vorrebbero che le falesie assomigliassero, sia nel look che nella sostanza, il più possibile a una palestra indoor… Un sacco di spit, che ti permettano di non preoccuparti a riguardo del come e del dove potresti cadere! lo spero che in futuro altri climber possano prendere passione per il greenpoint style, perché è un’esperienza che lascia un’impronta molto più intensa rispetto a quanto si prova su vie tutte simili le une alle altre, seriali.

Matteo De Zaiacomo
Matteo De Zaiacomo è una delle più recenti acquisizioni dei Ragni di Lecco; ha recentemente vinto il premio Paolo Consiglio per l’apertura di una via nuova sul Bhāgīrathī IV, con Luca Schiera e Matteo Della Bordella. E’ arrivato al greenpoint passando per le big wall e non viceversa. Ah, la gioventù!

Quando come e con chi hai cominciato a scalare?
L’arrampicata è sempre stata un affare di famiglia, mio papà e mia mamma sono sempre andati ad arrampicare e c’è voluto poco perché dal giocare con le macchinine alla base della falesia mi ritrovassi a giocare in verticale. È iniziato così, come fosse un gioco, e in realtà lo è tuttora. Le mie prime esperienze più o meno coscienti di arrampicata e alpinismo riempivano le calde giornate di agosto quando andavamo nelle Dolomiti agordine a trovare la nonna. Ho proprio un ricordo vivissimo di una giornata sul Passo Falzarego mentre con mio papà Silvano salivamo una via di più tiri. Vedevo le macchine diventare sempre più piccoline quasi le potessi afferrare e giocarci. È successo anche di recente, quando, sempre con lui, salivamo la parete del Capitan. Era solo qualche anno fa e mi son proprio accorto di come quelle semplicissime sensazioni siano ancora motivo di grande emozione.

Matteo sulla cima dello Shivling 6543 m, Himalaya. Foto: Luca Schiera.

Il tuo amore per il trad è iniziato addirittura in spedizione o mi sbaglio?
Sì. Sono ormai tanti anni che arrampico e come tutti ho avuto un evoluzione non soltanto riferita ad un miglioramento in termini di difficoltà ma anche intesa come differente ricerca di stimoli. All’inizio lo stimolo più grande era la ricerca della difficoltà intesa come salita della scala dei gradi, il miglioramento lo misuravo così: con un numero e una lettera scritte su un foglio. Poi, credo, un po’ perché non riuscivo più a migliorare è un po’ perché attratto da nuove esperienze, la mia idea si è evoluta. Ho fatto tante spedizioni in giro per il mondo per scalare pareti inviolate, adottando uno stile pulito e veloce, ad eccezione di una via aperta col trapano in Madagascar. L’utilizzo di protezioni veloci non era solo un contorno ma una vera e propria necessità. Ho affinato così la mia destrezza nel sapermi proteggere, ma l’input più potente affinché scattasse nella mia testa questa passione di ricerca di tiri trad me lo regalò Nicolas Favresse. Eravamo all’Isola di Baffin e stavamo arrampicando una via sul Great Sail Peak. Era il momento di salire in libera alcuni tiri precedentemente aperti. Ho arrampicato quel tiro con la corda dall’alto e mi era sembrato di per sé terribilmente difficile, avrei potuto farlo lavorandoci un po’, ma prima di trovare il coraggio di partire da primo avrebbe dovuto passare del tempo, viste anche le protezioni talvolta precarie. Nico invece sfilò la corda e iniziò a scalare! Facevo sicura e assistetti a una delle prestazioni più complete che avessi mai visto. La prima parte era protetta a pecker (piccole ancore da incastrare nelle microfessure, NdR), vedevo rinviare questi attrezzi che entravano nella roccia per pochi millimetri, poi dadi piccolissimi e il primo friend bomba era circa a 20 metri dalla sosta. Scalava benissimo e super solido, quasi non badasse al fatto di essere lì o di avere solo un pecker 4 metri sotto i piedi. In quel momento ho pensato quanto quel tipo di scalata anche sradicato dal contesto di una grande parete sarebbe stato in grado di regalarmi grandi emozioni. Quindi sì, questo tipo di arrampicata nel mio caso posso dire che abbia avuto una ispirazione dalle spedizioni.

Matteo De Zaiacomo su una via senza nome di 7c in Val Malenco. Foto: Maximiliano Piazza.

Una delle tue migliori realizzazioni greenpoint è un link di alcune vie cercando i punti proteggibili. Puoi parlarcene?
È proprio così! Dopo la spedizione all’Isola di Baffin la mia ricerca di tiri trad si è intensificata. Posso dire che praticamente ho smesso di fare tiri in falesia dedicati alla ricerca della difficoltà. Se dovevo impegnare tanto tempo su un tiro allora ci voleva anche la componente psicologica; questo mi ha dato modo di reinterpretare quasi tutto in una chiave nuova, insomma avevo trovato un modo per rinnovare questo gioco dell’arrampicata. Nel ricordo di Massimo Bruseghini racconto della falesia dello Zoia perché, avendo vissuto a Sondrio, ho passato tantissimo tempo ad arrampicare su quel muro. C’era un progetto che mi solleticava parecchio la fantasia: riuscire a vincere, proteggendomi trad, lo scudo nero di roccia compattissima che non aveva ancora avuto questo tipo di interpretazione. Ho passato giornate su tutte le vie del settore a cercare la giusta chiave di lettura, ma ogni idea ad un certo punto si perdeva. Finché non mi son seduto davanti alla falesia e ho semplicemente individuato i punti migliori per proteggersi. Un punto è lì! A 5 metri da terra sulla partenza dell’8b+; il prossimo è là, due vie più a destra, altri 4 metri più in altro e 5 più a destra. Forse in mezzo ci sta un cliff… Poi in cima spero che entri un dado, altrimenti, a sbagliare il lancio, avrei fuori talmente tanta corda da arrivare comunque a terra dalla cima della falesia. Sarò sincero: ho provato più volte la tenuta dei pezzi (gergo per protezioni, NdR) con backup, un rinvio nello spit più sotto. Era difficile e in due occasioni uno sbaglio poteva aver una conseguenza catastrofica e alla fine penso che questa attività del trad debba comunque avere tutti i margini di sicurezza possibili. Quando ho rinviato la sosta di Katy for president, 8°, ho sentito rinnovata la mia passione e devozione per la scalata.

Matteo alla ricerca dell’aderenza notturna su Tapioca, 8b boulder, Valmasino. Foto: Katiucia Piazza.

Sei mai partito on sight per un tentativo greenpoint? Che strategia usi per minimizzare i rischi? Usi i crash alla base?
Son partito più volte on sight su tiri greenpoint, ma per lo più su multipich o su fessure che permettessero una chiara visione del da farsi in termini di protezioni. Il trad, che adoro, invece è una ricerca di un altro tipo. Il massimo per me è trovare una linea nuova e iniziare, ancor prima di capire i movimenti, a trovare uno schema di protezioni utili. Giocare con gli attrezzi è di per sé una fase divertente, ho sviluppato una leggera forma di autismo in questo senso, posseggo una marea di friend e dadi per non lasciare mai niente al caso, talvolta una piccola differenza tra l’attrezzo di una marca piuttosto che un altro può fare la differenza. Mi capita di scegliere tra 4 friend diversi della stessa misura quale funzioni meglio. Questo amplifica la sensazione di fiducia. Testare le protezioni è un’altra cosa fondamentale per me. Perché quando cerchi di spingere al limite le tue prestazioni tecniche non hai mai la certezza di riuscire a non cadere; sappiamo tutti quanto può essere fragile quell’equilibrio tra gravità e forza o resistenza, o quanto poco ci vuole perché scappi un piede. Avevo liberato un tiro a Campo Moro e l’avevo chiamato One pecker in paradise, 8a. C’era un Totem azzurro a 8 metri da terra messo in orizzontale di cui non avevo alcuna certezza, poi un pecker anche di dubbia tenuta e un c3 rosso che avrebbe protetto la sezione difficile. Poi, ironicamente, a 20 metri da terra e a un passo dalla sosta avrei potuto mettere ogni tipo di protezione bomba, anche se ormai a quel punto era tutto finito. Insomma non ero nelle condizioni mentali per partire a barra dritta. Il totem poteva uscire rompendo il bordo della tacca, anche il pecker aveva un gioco che non mi piaceva. L’unico era il c3 rosso, ma era a 15 metri da terra. Per aiutarmi ad accettare il rischio ho chiesto aiuto a Max Piazza e Simone Tentori che furono vittime di una pantomima degna di un film comico. Uno mi assicurava come stessi scalando normalmente e l’altro mi assicurava da due lasciandomi abbastanza lasco da poter testare le protezioni. Mi sentivo un salame in mezzo a tutte quelle corde ma senza questo test non avrei probabilmente mai trovato il coraggio di partire.

Qui a destra il rischioso viaggio greenpoint di Katy for president, 8°, allo Zoia. Foto: Andrea Ciscato.

Tra infortuni e cali di forma sei uno da grossi sbalzi di prestazione.
Purtroppo sì! Ho avuto tanti infortuni negli ultimi anni, più o meno gravi. Tirare una puleggia però non rientra nella mia categoria infortuni. Per esempio ho rotto per 5 volte la stessa caviglia e questo insieme ad altri devo ammettere che hanno fatto oscillare parecchio la mia costanza di prestazioni. Anche le spedizioni lasciano il segno! Ogni volta di ritorno da un viaggio abbastanza lungo tipo Etiopia o Kirghizistan o Himalaya ho avuto l’impressione di non essere più in grado di scalare. Una volta avevo sentito una frase in un video d’arrampicata che diceva di quanto fosse un privilegio potersi ritrovare nella scalata anche a distanza di tanti anni. Per me dovermi rimettere lentamente in gioco in termini di prestazione dopo un infortunio o un viaggio è un percorso che ho imparato ad accettare e che ormai mi stimola. Ripercorro vie o boulder già fatti per capire i progressi e non mi arrabbio se fallisco quel blocco che tre anni prima riuscivo a fare: insisto e insisto finché non mi riconosco nelle mie prestazioni. A quel punto ho di nuovo la consapevolezza di poter provare ad andare avanti e a concentrarmi su un nuovo progetto. Temo che se non riuscissi ad accettare anche questi momenti probabilmente avrei già smesso.

Alcune delle tue vie sono R/X nella scala di rischio americana. Come gestisci l’aspetto mentale? Anche tu aspetti il mitico giorno del flow?
L’aspetto mentale è sicuramente importante ma non quanto l’aspetto fisico, ma uno non può certamente fare a meno dell’altro. Il punto è che non mi sentirei mai pronto ad una salita di un certo tipo se non fossi certo delle mie capacità fisiche e in assenza di una buona forma il gioco del trad diventa per me fuori discussione. Vale lo stesso per una salita in ambiente: mi son accorto di quanto i due aspetti siano collegati tra loro durante una vacanza in Galles alla scoperta dell’arrampicata trad di Llanberis. Mi ero appena ripreso da un infortunio, tre settimane prima della partenza mi ero grottescamente tolto il gesso in terrazza, avevo rotto il cuboide e devo ammettere che era guarito velocissimo, abbastanza da farmi credere che il mio stato di forma sulle dita fosse comunque valido. Quando però mi son trovato ad arrampicare proteggendo la salita con dadi e friend avevo come l’impressione che niente nel mio corpo stesse funzionando, le dita deboli e gli avambracci che si stancavano subito. Ero oltremodo motivato, ma quando arrivava il momento di arrampicare le sensazioni provate il giorno prima mi bloccavano completamente, non riuscivo a entrare assolutamente in sintonia neanche sui tiri più facili dove in ogni caso la forza di dita era un aspetto abbastanza relativo. Capii con chiarezza quanto per me fosse importante aver il pieno controllo e consapevolezza del mio corpo. La salita trad nel mio caso ha assolutamente bisogno di questo aspetto fisico perché anche la mente possa funzionare liberamente, non a caso molte delle mie migliori salite son state precedute da ottime prestazioni boulder o in falesia. A Llanberis capii anche un altra cosa molto importante: mi trovavo in un enorme palcoscenico d’avventura dove in ogni salita serve la consapevolezza del “è meglio non cadere” esattamente come in montagna. Da quella volta ho affrontato il trad solo nelle mie migliori condizioni fisiche e con la mentalità di una salita in montagna, tutto deve filar liscio! Quindi, quando arriva la mattina del tentativo o sento che tutto è perfetto o lascio perdere, alcune volte ho lasciato perdere, altre volte sono al lavoro e mi capita di sentire che è il momento è quindi l’esigenza di andare a scalare la notte stessa. Uno degli highball più spaventosi che ho salito si è risolto in questa maniera.

De Zaiacomo sulla splendida fessura di Vanessa, 8a, Val Chiavenna. Foto: Andrea Ciscato.

Nel tuo ricordo di Massimo Bruseghini dici che c’è spazio per tutti e che spit e trad possono convivere sulla stessa via. Ma se qualcuno chiodasse una via che hai liberato trad?
Beh, è una domanda balorda. Fortunatamente non mi è ancora capitato ma ho avuto una discussione con degli amici con i quali stiamo chiodando una falesia in Val Malenco. Abbiamo chiodato un settore strapiombante e guarda caso una delle linee potenzialmente più facili è proprio una fessura, la roccia non è di qualità eccellente ma si presta comunque a qualche buona protezione, si presterebbe anche a un dignitoso tiro di riscaldamento essendo nettamente più semplice degli altri. Ho deciso che non andava chiodato perché se si sale trad allora va lasciato trad. Ho trovato qualche perplessità a questa decisione. Forse l’idea di lasciarlo trad da una parte è giusta ma il contesto potrebbe tranquillamente permettere entrambe le soluzioni, sia per chi vuole salirsi un bel 7c sportivo rinviando gli spit sia per chi vuole provare a farsi la sua piccola challenge trad. Se non avessi iniziato io a chiodare quella falesia probabilmente quel tiro sarebbe già stato chiodato ma son sicuro che avrei tentato di salirla trad a dispetto degli spit. Quindi sì, ed è sempre un compromesso perché le due cose convivano ma sono ancora combattuto sul da farsi a proposito di questo tiro e ho deciso di lasciare per ultima questa decisione. A Llamberis non avrei avuto queste perplessità probabilmente. Quindi spittare o meno quel tiro dipende dal contesto del posto e anche dal contesto della nostra cultura verticale, ma in quel contesto se un giorno arrivassi in falesia e lo trovassi spittato non ne farei un dramma. Ma se invece dovessi andare a Uschione e trovare il tiro (Ajou, 8b), che ho salito trad, completamente spittato ci rimarrei malissimo! Ma proprio male! Quel tiro è l’unica linea logica su un blocco enorme, in un contesto isolato e senza grosso potenziale sportivo intorno, la via non ha nemmeno la sosta! Avevamo fatto tutto con un albero in cima, Quello è il teatro di una delle mie più incredibili salite trad, che non ha cambiato la vita a nessuno ma che conserva tutta la potenza di poter far vivere nuovamente ad altri la stessa particolare emozione. Se un giorno dovessi trovarla spittata sarei veramente deluso che una mia idea non sia stata abbastanza forte da resistere al comfort di uno spit. Credo che non toglierei gli spit, semplicemente guarderei morire un’idea. La pura linea trad. In definitiva penso che nell’arrampicata non ci sono arbitri e nemmeno giudici del giusto e dello sbagliato, ognuno è libero di rappresentarsi in verticale come desidera.

Sei uno dei più giovani membri dei Ragni. Fonte di prestigio o viene vissuto anche come una responsabilità?
Far parte del gruppo Ragni di Lecco, ma come del resto essere stato ammesso al gruppo accademico del CAI, è innanzi tutto un onore incredibile ma anche uno stimolo enorme. Il gruppo Ragni in particolare conserva quell’autenticità di un semplice gruppo di amici disposti a tutto pur di realizzare una bellissima salita. Da questa semplice ambizione abbiamo visto susseguirsi una serie di salite che hanno segnato per sempre una piccola parte della storia dell’alpinismo, salite che tuttora fanno percepire il loro fascino! Per esempio la via dei Ragni al Cerro Torre: quale alpinista non sente il fascino di volerci andare? Quindi sapere che personaggi che hanno fatto la storia dell’alpinismo mondiale hanno riposto in te fiducia, è stato per me la scusa di ampliare il mio panorama verticale: ecco che di colpo immaginarmi in Kirghizistan o in Himalaya non era più una cosa solo da leggere sulle riviste ma un potenziale progetto. Le prestazioni alpinistiche sono il fulcro di tutte le nostre attività e sebbene le salite trad o di boulder in falesia facciano ormai parte del nostra identità non saremmo comunque in grado di sopportare la storia del gruppo se non ne conservassimo l’essenza: partire per il mondo con un gruppo di amici per scalare una montagna nello stile più elegante ed efficace possibile.

Matteo sulla mitica Odissea, 8c, al Sasso Remenno. Foto: Michele Crepaldi.

Hai dei progetti greenpoint/trad “impossibili”?
Come quasi tutti gli arrampicatori ho una lista di progetti che supera di gran lunga la lista di successi. Quello che mi piace del trad, e che amplifica tantissimo l’esperienza finale, è riuscire a trovare una propria via. Adoro ricercare e immaginare: qualche volta giro intorno a dei blocchi enormi di granito in Val Chiavenna e rallento sperando che la faccia nascosta e strapiombante celi nel mezzo una fessura perfetta! Per poi accorgermi, girato l’angolo, che si tratta dell’ennesimo strapiombo liscio. Il tiro trad perfetto sogno di trovarlo non lontano da casa e sogno sia l’unica linea logica di un sasso o di un muro. Un mio progetto che è ancora lì a fermentare è la salita trad di Odissea, un tiro sulla parete nord del Sasso Remenno nato dall’intuizione di Chicco Ranchi e Gino Molari, ma rimasto a lungo irrisolto. Prima di Chicco e Gino si era sfidato quel repulsivo muro liscio solo in chiave artif e quella linea chiodata, ma rimasta senza una libera, sembrava voler rimescolare le leggi di gravità. Durante i tentativi per aggiudicarmi la prima libera mi sembrava già abbastanza complicato riuscire a risolvere le varie sequenze. Nella primavera del 2018 ho salito il tiro con gli spit e l’ho gradato 8c e solo a quel punto l’idea di rifarlo trad si è pian piano fatta strada.

L’idea è ancora lì e il progetto prevede di costruire una base piana con dei bancali, un piccolo palco per poi coprirlo di pad: la prima protezione sarebbe a circa 7 metri dopo il passo duro, poi la seconda 5 più sopra, un ballnut discreto a proteggere l’ultimo passaggio a prendere la fessura dove metti dei 3BD. Ma forse è un idea destinata a rimanere lì per sempre. Poi ci sono altre linee che son più d’ispirazione che d’ambizione. Una via come Cobra Crack o Tribe sono probabilmente fuori portata ma un giro su Cobra un giorno mi piacerebbe farlo. Ma preferirei trovarmi la mia piccola Cobra o il mio Tribe qui vicino casa e investire anche tanto tempo a realizzare un progetto tutto mio.

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Greenpoint – 01 ultima modifica: 2021-09-10T05:48:00+02:00 da GognaBlog

17 pensieri su “Greenpoint – 01”

  1. Mi sono spesso chiesto, mentre lavoro in falesia, se quella linea su cui stavo lavorando fosse scalabile con protezioni mobili ( quindi con solo la catena in top) Magari non tutta, ma per la gran parte. Raramente la risposta è stata positiva. Ovviamente nella mia zona non esistono quelle meravigliose fessure di granito! Per come la penso io le protezioni mobili non devono essere “psicologiche”. Devono essere reali. Sulla sicurezza  non si discute per mille motivi. Mi sono allora chiesto se fosse logico in una falesia con 100 tiri avere uno o due tiri da proteggere in quello stile. La risposta è stata negativa poichè per scalare solo quei pochi tiri occorreva una attrezzatura, una capacità tecnica e psicologica completamente diversa. Devo dire che però l’argomento mi intriga ed è attuale per me poichè ho individuato una linea di 40 mt , bella, logica, proteggibile ….. Devo anche dire che, a mio parere, esiste il rischio concreto che una maggior rischiosità dello stile potrebbe portare più incidenti e quindi alla chiusura di  quel sito d’arrampicata da parte dei proprietari. 

  2. Gengis non dorme mai. Aggiungo ancora per lui: il Fix nell’arrampicata è come il Viagra o il Cialis (per i giovani, grandi consumatori) : ti permette di osare di piu senza paura di fare brutta figura. Fix it : pure il nome lo dice, nulla accade per caso. Quindi viva il Fix,  a sostegno di anime vagulae e blandulae di quest’epoca incerta,ben diverse dai virili eroi guerriero dell’eta’ dell’oro dell’alpinismo.

  3. Parafrasando il titolo di una famosa serie televisiva potremmo dire che in questa fase, dopo l’epoca eroica e lo scisma degli anni ‘70, l’arrampicata (non l’alpinismo) tende a configurarsi come una “House of Grades”. Vedremo le prossime configurazioni, se ci saranno. Anche se direbbe il Grande Gengis che l’importanza del grado per i maschi scende con l’età, come l’eburnea solidita’ di una loro parte cruciale: quando si fa più fatica si tende a dire che non è così importante. Ciao Gengis. Fai il bravo. Mi raccomando: altrimenti il Preside ti bastona.,

  4. Fornirsi di climbervocabolario prima di intraprendere una qualsiasi attività di parete e anche un buon trad-duttore può venir comodo.Così non si mescolano le varie cose.
    La cosa più Green che mi viene in mente sono le arrampicate di Icio dall Omo senza scarpette…avrebbe dovuto fare moda ma faceva un male cane forse più della scarpa stretta e poi se voli son guai serii e si chiuse li.  

  5. aggiunta:consiglio chi inventa un nuovo termine tipo”greenpoint”, di brevettarlo al piu’presto per ragioni di marketing, altrimenti lo faranno altri.Per esempio se cambi  nome al grano varieta khorasan (triticum turanicum), coltivato da migliaia di anni nella Mezzaluna …e lo cambi con una  K****e brevetti, ci fai la grana.Con il prefisso GREEN bisogna darsi una mossa..metti che uno inventi un carta igienica che si cammuffi  una volta usata nell’erba o nel bosco..se la chiama Greencart..e’ gia’ un copione di un qualche  marchio depositato. Se digiti “greenpoint” e cerchi sul web…di tutto appare ma non legato al bolloverde su vie di arrampicata.

  6. Vale sempre cio’ che si leggeva su una delle prime guide di Finale:” i gradi sono numeri, le vie, beh quelle c’e’ chi le sale e chi non le sale”. Mai frase fu piu’ azzeccata.

  7. Il Cristianesimo ci ha messo 400 anni per consolidarsi in una teologia strutturata ed è passato attraverso diverse eresie e conflitti. L’arrampicata ha elaborato negli anni una sua arrampicologia ma siamo ancora immersi nelle guerre di religione e forse ci vogliono ancora un 100/150 anni. Vedremo. Ci risentiamo nel prossimo secolo. 

  8. commento n.5.non ha tutti i torti, in certe condizioni
     Si legge che molti riportano incidenti gravi o letali..per scalate dal basso in palestre naturali , falesie, non troppo alte…poco attrezzate con regolari e saldi ancoraggi.Per molte pareti per allenamento   nulla impedirebbe di salirle dal versante più facile, calare corda  assicurata  ad anello o carrucola, e poi  cominciare dal basso assicurati con corda un poco lasca.Tanto ormai le corde non hanno prezzi proibitivi, non verrebbero eccessivamente sollecitate in caso di precipitazione.A parte la differente autogratificazione psicologica  nel percorrerle slegati o dal basso,non ne deriverebbe gloria imperitura nella storia dell’alpinismo per 10-20 metri…free solo.Basta accontentarsi di uno sforzo fisico ben fatto… di esperienza tecnico ginnica da applicare poi a scalate piu’ lunghe ed impegnative con fattore esposizione e lunghezze consistenti ma un bel bagaglio di come muoversi  messo a punto in tutta sicurezza. se nonmisbaglio, nel Verdon prima si calavano dall’alto assicurati ad una ringhiera metallica poderosa…e poi salivano.

  9. 7, Sarebbe interessante. Ma penso che tutto il castello costruito in quasi. 200 anni, con i connessi aspetti di competizione, crollerebbe. Visto che io ho vissuto nei due mondi, la vela per necessità e ‘ molto organizzata ma la difficoltà è meno dettagliatamente misurata e gradata. Sai la difficoltà di una rotta ma non il dettaglio perché quello lo conosci ora per ora e varia. 

  10. Un climber americano un anno fa su Rock & Ice ha lanciato la proposta provocatoria “Basta gradare le vie”. È stato ricoperto di risate.

    Lo diceva gia Hemming molti anni fa.
    Indicare  solo attacco e uscita. Per il resto arrangiatevi.

  11. Da sempre, non solo in palestra e in falesia, l’arrampicata, anche quella classica, vive una contraddizione. Da un lato si presenta come un terreno di ardimento, fantasia e libertà. Dall’altro è una delle attività più codificate e misurate che ci siano. Scale e gradi di ogni tipo. Si è arrivati oggi a gradare persino i singoli passaggi. E da sempre la stima e la fama nella comunità arrampicatoria sono state legate al grado e per molti, anche dilettanti,  persino l’autostima dipende dal grado che riesci a fare, e non solo oggi. Un climber americano un anno fa su Rock & Ice ha lanciato la proposta provocatoria “Basta gradare le vie”. È stato ricoperto di risate.

  12.  Attivita’  più semplice: salire le scale… in mancanza di meglio si fa, anzi sarebbe auspicabile apporre delle tabelle con foto all’ingresso di ogni condominio e palazzo e applicare al posto dell’ascensore divora energia .
    PERO’…
    https://www.rawtraining.eu/metodi-e-programmazione/affondi-sulle-scale/
    con la terminologia adatta e sigle  si trasforma in attivita’sopraffina.
    Meno male che abbiamo diffuso nel mondo la parola “Vibram”che molti accoppiano con” grip”,  non” presa”, non se ne puo’uscire. C’e’ anche il gergo misto invarielingue ..ne esce un bel Chasino.

  13. Realmente un significativo e difficilmente superabile passo in avanti nell’esteso campo della masturbazione mentale!

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