Hias Rebitsch
(dal Rofan agli Dei d’argento del Cerro Gallan)
di Toni Hiebeler
(pubblicato su Alpinismus, aprile 1967)
Disegnare un ritratto di Mathias Rebitsch equivale a risolvere un complicato “giallo”, perché Rebitsch cerca sempre di strisciare nella sua tana da topo quando un giornalista vuole qualcosa da lui. “Che cosa? Vuoi scrivere un articolo su di me? Sei uno sciocco, davvero, non farmi del male perché sono un modello, perché i modelli non hanno vita facile, e io vorrei essere un dio!”. Ci siamo fatti un sorso di cognac, quello buono francese, anche lui è abbastanza un intenditore. Poi abbiamo parlato del suo meraviglioso armadio barocco, che non gli piace aprire di fronte agli estranei perché potrebbero vedere il casino che c’è dentro, ricordi delle spedizioni, riviste, libri, foto e quant’altro non si riesce a vedere a prima vista. Poi abbiamo parlato di tappeti per i quali entrambi abbiamo un debole, di Terme, di donne – “vabbè, quelle di una volta!” – di Incas, il cui passato enigmatico occupa la sua mente ogni giorno. “Mi sono messo in contatto con gli Incas, perché dopo tutto avevano siti sacrificali su montagne alte oltre 6000 metri, quindi erano loro i primi alpinisti”- e stavamo già chiacchierando di alpinismo e di arrampicata, buttando giù un altro calicino di cognac.
Lo osservavo, la vecchia volpe, e non potevo credere che avesse già cinquantacinque anni – nato l’8 agosto 1911 a Brixlegg (Tirolo) – perché i suoi occhi potevano essere quelli di un ventenne inquieto, pieno di fuoco ed entusiasmo come se cercassero minuscoli appigli sul muro della stanza. E poi, subito dopo il cognac successivo, finalmente si è lasciato andare… Gioventù, ricordi, montagne, amici, avventura. Le prime imprese vicino a Hiasen non lasciavano trarre alcuna conclusione sul fatto che un giorno sarebbe diventato un grande maestro. Diciassettenne si è buttato d’inverno sulla cresta sud della torre sud della Südlichen Grubreisenturm (IV-V) senza nemmeno avere la minima idea di alpinismo invernale. Seguì una drammatica ritirata, una caduta durante la discesa in corda doppia, un soccorso notturno con i fari che erano già lì grazie al fatto che il suo idolo d’alpinismo, Roland Rossi, stava girando un film con una troupe nell’Hafelekar. Risultato, schiacciamento dello sterno, la prima citazione sulla stampa di Innsbruck al riguardo dell’alpinista Rebitsch, sanzioni scolastiche per assenza ingiustificata dalla classe.
L’avventura della Grubreisen è un anticipo della carriera di Hias Rebitsch: un uomo dalla testa coraggiosa e testarda per il quale anche il più pazzo non è affatto pazzo; una persona che è attaccata a tutte le bellezze della vita e quindi ha la volontà e la forza di spingersi fuori dalla situazione più disperata, con fredda determinazione e intelligenza e – a quel tempo – “ma comunque con grande rispetto per le grandi pareti e per i loro conquistatori…” mi disse sorridendo. Eh sì, il testardo testone Hias si è preso la rivincita con la cresta sud della Grubreisen Südturm, facendone la prima salita invernale. Arrenditi, sì, ma non per sempre! Più o meno come la parete sud del Goldkappl, nel Tribulaun (Stubaier Alpen). Anche il famoso Hias Auckenthaler, uomo della cui esperienza non si poteva dubitare, aveva dovuto rinunciare alla prima salita a causa di una caduta. Per Hias Rebitsch fu dura anche sulla parete sud del Goldkappl (con H. Pachner, 1936): dopo aver superato un punto chiave, gli si staccò un blocco, caduta, tre costole rotte, commozione cerebrale. Quattro settimane dopo ci torna e fa la prima salita con Hans Frenademetz. Hermann Buhl, uomo che di certo non si lasciava impressionare così facilmente, disse dopo la seconda ascensione (1947): “Una volta e mai più!” La prima senza voli fu solo nel 1963, in occasione della quarta ascensione. Ma Hias mi ha detto: “Secondo me, la brutta fama della parete sud del Goldkappl non è del tutto giustificata”. Proprio Rebitsch, il pazzo incorreggibile.
Faceva vie di quinto e sesto grado ovunque: nei Kalkkögel, che a quel tempo per quelli di Innsbruck era ancora più popolare che oggi, nel Wilder Kaiser, nelle montagne del Wetterstein, in Karwendel, e poi ancora Rofan, fino alle Alpi Giulie. Ma Rebitsch non era uno di quei fanatici che ogni domenica attaccavano una muraglia verticale diversa. Con dispiacere dei suoi compagni, nella domenica più soleggiata gli poteva venire in mente di preferire i suoi calzoncini da bagno alla corda e perciò passarla ad oziare (e magari anche la domenica dopo): Hias poteva essere entusiasta anche di questo. Ma se prendeva una decisione – e oggi non è diverso – allora niente al mondo poteva dissuaderlo dal suo piano. L’estate in montagna del 1937 fu dedicata all’allenamento per l’Eigerwand. Ma l’inizio non diede adito a grandi speranze: con Hermann Treichl si era impegnato nella prima invernale della parete ovest del Bauern Predigtstuhl nel Wilder Kaiser. Tutto andò bene, fino a poco sotto la vetta, dove c’era ancora solo il passaggio Schrofen da superare. Erano slegati. A pochi metri dall’ometto di vetta, Hermann Treichl cadde fatalmente quando gli cedette una lastra di roccia. Rebitsch: “Sono sceso in arrampicata sul Rittlerkante fino al suo corpo e l’ho trascinato, legato sugli sci, fino a Ellmau”. Ma l’allenamento per l’Eigerwand doveva essere continuato. Qualche tempo dopo, con Ludwig Schmaderer, gli riuscì la prima invernale della parete ovest del Predigtstuhl-Mittelgipfel: tempesta di neve, bivacco in vetta, discesa in corda doppia lungo la parete ovest. Davvero un allenamento durissimo. Poiché non ci sono pareti di 1000 metri nel Wilder Kaiser, Hias si è risolto a scalare quanti più metri possibile “escogitando le cosiddette “combinazioni”: sul Rittlerkante fino al Bauern Predigtstuhl, poi spigolo sud-est della Christaturm, cresta sud-est del Totenkirchl e parete sud, poi di nuovo sulla cresta sud-est, ovviamente da solo. Oppure: parete ovest del Bauern Predigtstuhl e parete est della Karlsspitze in un giorno con Anderl Heckmair. Oppure: parete sud-est della Fleischbank, parete est della Christaturm (per la via Schmitt), Dülferriß e spigolo sud-est della Christaturm fino alla parete sommitale, dove un temporale lo ha costretto a riscendere per lo spigolo. Una ragazza e un amico, che stavano salendo contemporaneamente, rimasero scioccati da quel tour no-stop.
Poi ha voluto ottenere il premio per tanto duro allenamento e quindi attaccò l’Eigerwand. Con Ludwig Vörg stava salendo verso la Rampa. Cambiato il tempo, si ritirarono: e quella era la prima volta che una cordata riusciva a tornare indietro. Dopo quattro giorni. I corpi di Hinterstoisser e Gollackner erano stati appena recuperati. Un anno dopo (1938), la destinazione Eigerwand fu sostituita da una ancora più grande: il Nanga Parbat. Nonostante il maltempo, Hias quasi raggiunse il Silbersattel 7350 m.
Dopo la guerra, prime ascensioni nel Kaiser, nel Kalkkögel e nel Karwendel. Nell’amaro dopoguerra, quando le provviste per la gita consistevano solo di pane e polenta, a Hias riuscirono le sue due più grandi imprese, la Diretta della parete nord della Lalidererspitze (1946) e il Diedro Nord della Lalidererwand (1947). Ma Hias non si è riposato per molto tempo: giro sulle pareti rocciosa della Lapponia svedese (1949), dei Pirenei (1950). Poco prima dell’inizio della sua seconda spedizione (1950), Hias fu duramente colpito. In una gita con gli sci, oltre ad altre rotture, si è danneggiato la colonna vertebrale ed è stato ingessato per quattro mesi. Ma Hias non si è arreso, coglieva ogni occasione per allenarsi. Non appena fu di nuovo in forma ragionevolmente, ebbe la caduta successiva, questa volta con la moto – si dice che fosse un pilota temerario. Polpaccio e stinco rotto, paralisi temporanea della gamba destra, per un totale di undici mesi. Ciò implicò la rinuncia all’arrampicata estrema. Inoltre, le spedizioni erano troppo impegnative per potersi anche occupare delle difficili pareti alpine: una spedizione nel Karakorum, una nel Perù meridionale, quattro alla Puna de Atacama, in una delle quali sul Cerro Gallan a 600 m da terra trova i reperti degli “Dei d’Argento”. Sulle vette di Atacama, Hias e compagni non solo scoprirono gli dei d’argento e i luoghi per i sacrifici al sole fino a un’altitudine di 6700 m: fu anche chiaro che gli indiani, secoli fa, avevano raggiunto traguardi alpinistici, molto prima della nascita dell’alpinismo.
Certo, quasi dimenticavo! Rebitsch ha anche una vita borghese, anche invidiabile, motivo per cui non di rado si dice che sia un vero artista della vita: dopo il diploma di scuola superiore, ha studiato chimica, e tra incidenti e spedizioni, tra storia e storia, altre e molteplici attività lo hanno sempre tenuto impegnato… Beh, lasciamo perdere. Ha tenuto conferenze (ma non gli piace), ha scritto un libro accattivante (ma a lui non piace mai quello che scrive) e – con nostra gioia – ora gioca con l’idea di scrivere un libro sulle sue avventure alpinistiche. Ha ereditato una segheria dai suoi genitori e può vivere affittandola senza preoccupazioni.
Hias è rimasto giovane dentro, non inveisce nemmeno contro i chiodi a pressione. Per me Rebitsch è stato un modello di riferimento per l’alpinismo vent’anni fa, ma non perché ha fatto brillanti prime salite, ma perché è sempre riuscito a tornare. E questa è sempre la vera difficoltà…
DIDA
Hias Rebitsch oggi
nella sua tempesta e tempo di stress.
Foto: Mathias Rebitsch
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Emilio Comici morí in montagna. Morí certamente per un incidente di montagna, che nelle statistiche deve essere classificato nell’ambito dell’arrampicata.
Ma, in sostanza, si trattò di una sfortunatissima fatalità, che non ha alcun nesso con l’alpinismo praticato dal povero Comici. Il cordino che si ruppe, tra l’altro, non era neppure suo; fu prelevato dallo zaino di un suo compagno di gita: una normalissima gita con gli amici, come quelle che tutti noi abbiamo fatto a dozzine. In quel giorno disgraziato Comici non aveva neppure portato con sé né la corda né i chiodi, ma la sua chitarra. E la suonò, finché una ragazza della compagnia, col sorriso sulle labbra, lo invitò a raggiungere gli altri che stavano concludendo la loro arrampicata: fu la sua fine.
Le testimonianze oculari dell’incidente sono almeno due e sono riportate in letteratura. Si veda per esempio la biografia di Emilio Comici scritta da Spiro Dalla Porta Xydias.
… … …
Per vincere la loro noia gli dei del cielo si trastullano giocando a dadi. E la posta è la nostra vita.
Chiedo scusa se rispondo solo ora, ma ho poco tempo libero in generale e pochissimo da dedicare agli interventi sul blog.
Certo che Comici non è morto di vecchiaia, ma non si può nemmeno dire che sia morto arrampicando.
Aveva accompagnato in Vallunga alcuni amici, decisi a salire una paretina sul Gardeccia. Non aveva nessuna intenzione di scalare, ma si lasciò convincere da un’amica a precedere i compagni sulla cima salendo, per altro versante, un semplicissimo pendio.
Una volta su, si sporse nel vuoto appendendosi ad un cordino legato intorno ad un albero; il cordino, logoro e marcio, che Comici aveva preso dallo zaino del suo amico Gianni Mohor, si spezzò e lui cadde nel vuoto.
Una leggerezza incredibile e una morte assurda, che non mi sembra proprio coerente con la sua filosofia, la sua etica, la sua vita.
Leggerezze simili in contesti diversi: l’utilizzo di un cordino trovato in parete sarebbe potuto costare molto caro, senza l’aiuto della fortuna, ad un giovanissimo Kammerlander in uscita dalla nord del Cervino.
Comici: non comprendo la tua perplessità. È uno che ha dedicato la sua vita dell’alpinismo ed è morto. Pef un incidente stupido in unz giornata collaterale, ma non è morto di vecchiaia nel suo letto.
Il secondo spunto è molto interessante, ma è unz conferma della mia immagine metaforica. Per fare il portiere ci vuole una personalità molto particolare, decisamente diversa da quella degli altri giocatori. Rappresentano quella percentuale di alpinisti che per talento e vocazione hanno un qualcosa in più e di diverso rispetto alla grande platea dei frequentatori della montagna (che, nel parallelismo calcistico, possono essere i giocatori di campo. Pur essendo incuriosito dagli alpinisti top (ho petfino scritto un libro su Gervasutti…), la mia attività didattica di lunga data si è concentrata sul mare magnum dei “normali” alpinisti di medio livello. Mk pare che li’ mettesse il mio ragionamento: se gli alpinisti medi e domenicali vengono cissati (,è un piemontesismo, non so se si dica in italiano) a emulare i top… li’ si può creare il cortocircuito fatale. È come mettere un automobilista della domenica al volante di una F1. Spunto interessante il tuo. Buona domenica!
Comici?
Poi c’è il portiere, che gioca a calcio e tocca la palla con le mani e con i piedi.
Intervengo esclusivamente per precisare che non prendo per i fondelli nessuno, queste sono davvero le idee in cui credo e ci credo dai miei 15 anni circa (cioè da 45, visto che ne hop 60). Quando, maturato come allievo e passato istruttore, ho iniziato la mia attività divulgativa (a 20 anni circa) questo è il paradigma che ho sempre esposto. Volendo prendere i miei articoli dei primi anni ’80, nonché l’infinita mole di articoli, conferenze, libri ecc ecc ecc scritti in 40 anni, si può verificare che il mio pensiero si è sì sviluppato, ma lungo la stessa linea. Io qui non voglio coinvolgere altri personaggi (spesso mie amici e cmq mie colleghi), perché lo troverei disdicevole, ma vi prego di credere che l’ambiente in cui normalmente agisco è a sua volta di questo tipo. Anzi, posso dire che io sono il classico output di tale “visione” (di fatti la “visione” – non solo della montagna – non è solo quella che piace a voi, ne esistono anche di diverse e antitetiche a quelle che vi infiammano).
Scrivo molto, qui come altrove, perché scrivere mi piace, ho una cera scioltezza (è un dono di natura, affinato con l’uso quotidiano da decenni e decenni), lo faccio di mestiere (in campo economico e politico) e per me stendere 2.000 battute mi porta via 5 minuti 5. Quindi contesto che non ci sia spazio per altri. Spesso molti di voi mi danno la sensazione di essere invece dei selettori al contrario, ovvero che pensiate che la montagna per definizione sia esclusivamente il regno della libertà senza freni, senza autocontrollo, cioè il regno solo di chi agisce esclusivamente o prioritariamente di pancia. Esiste quella montagna, certo. Ma io vi porto all’attenzione che esiste anche un mondo umano (tra l’altro molto numeroso) di persone che hanno un approccio diverso, antitetico.
Quanto ai nomi citati, esistono sempre delle eccezioni. In più vorrei sottolineare che c’è una differenza strutturale fra le scuole di alpinismo e quelle di scialpinismo, nelle prime è più fisiologico che possano emergere alpinisti che, seppur come amatori (ovvero che dedicano solo il tempo libero alla montagna) sono cmq alpinisti di punta. Certo, devono avere anche del talento, che non è solo “di pancia”. La mia esperienza di vita mi ha portato a concludere che spesso gli alpinisti di punta non sono degli ottimi istruttori e viceversa. Spesso l’alpinista di punta “chiede” un allievo già disgaggiato che gli faccia da ottimo secondo nella vita tosta che lui (l’alpinista di punta) ha in testa di fare. Raramente mette da parte i suoi progetti personali e va a fare una via di III grado con un allievo imbranatissimo, impostandolo dalle fondamenta. Il buon istruttore è invece colui che sa anche rinunciare per quella domenica alle sue ambizioni personali e di “dedica” nel ruolo di maestro elementare. Quest’ultima vocazione difficilmente si concretizza nelle scuole di alpinismo (che giustamente “spingono”), mentre è più fisiologica nelle scuole di alpinismo. Quanti allievi “zero zero” (come li chiamiamo noi) mi sono sciroppato nella mia vita, insegnando loro per tutta la giornata il dietro-front con le pelli!!! E anche in fasi della vita in cui, la gita prima e quella dopo all’uscita della scuola, facevo gitoni e sciavo sul ripido…
Un altro punto che ci tengo a chiarire è che la mia mentalità non è affatto castrante: prepara un approccio medio alla montagna, poi ciascuno sceglie dove posizionarsi in termini di livello tecnico. Non voglio citare il mio curriculum (cmq di cose ne ho fatte da togliermi la voglia… con gli sci, senza sci, sulla roccia, sul ghiaccio, su medie pareti, in falesia, nei canyon ecc ecc ecc), ma invece cito un mio carissimo amico: ha fatto la sua prima gita in montagna proprio in gruppo con me (per cui lo considero a tutti gli effetti un “mio” allievo), si è adeguatamente formato prima come allievo e poi come istruttore, è diventato molto più forte di me, è stato Direttore 15 anni dopo di me e, nella sua attività privata, ha realizzato performance di rilievo (sia con gli sci che senza), con la punta di diamante (ma non isolata) del Pilone Centrale al Bianco. Ciò nonostante anche lui, in determinate uscite della scuola, si è sciroppato, con dedizione, gli allievi “zero zero”…
Quindi non è assolutamente detto che “ragionare di testa” e avere una vita “normale” (lavoro, matrimonio, figli, altri familiari cui pensare, mille altri interessi ecc ecc ecc) sia inevitabilmente una gabbia castrante, come spesso tende a pensare chi crede nell’ideale della montagna senza freni e di pancia.
C’è un altro punto ancora che è quello che collega queste considerazioni all’articolo su un alpinista “top” come questo articolo. Ho già detto che i passaggi nella storia dell’alpinismo richiedono (salvo eccezioni molto particolari) una tipologia di alpinisti completamente diversa da me (di fatti io non mi propongo né di realizzare un tassello dell’evoluzione alpinistica in prima persona, né di produrre alpinisti che faranno ciò). Tuttavia gli alpinisti top mi affascinano, proprio come individui prima ancora che come alpinisti, spesso li studio a fondo (es ho fatto ricerche molto approfondite su Gervasutti, arrivando a scrivere un libro su di lui), ma non ne condivido le scelte di vita e quello che si chiama il loro “paradigma”. Salvo rarissime eccezioni, ai mie occhi gli alpinisti top sono spesso individui non in equilbrio, diciamo così. La storia dell’alpinismo ha “bisogno” di personaggi così e quindi è storicamente giusto che li si analizzi e che ne arrivino sempre di nuovi, altrimenti l’evoluzione si fermerebbe. Ma il mondo umano di chi fa montagna solo nel tempo libero, come hobby, come divertimento, è un altro e per tutti costoro occorre applicare parametri completamente diversi (rispetto a quelli di chi vivi di montagna e per la montagna). Mescolare le due cose è rischiosissimo, ho già fatto l’esempio di calcio e basket. E’ in quella mischietta che si annidano i presupposti della stragrande maggioranza degli incidenti gravi che accadono quasi ogni week end. Riflettete e vedrete che queste cose sono tutt’altrto che campate in aria. Buona giornata a tutti!
Che ci stia prendendo per i fondelli l’ho pensato anch’io più di una volta però conosco bene una persona che si comporta nello stesso modo e so per certo che non prende per il sedere nessuno, è semplicemente così e basta.
Con un pizzico di rammarico mi tocca dire che una volta c’era il Gogna Blog, adesso c’è il Crovella Blog. Il pizzico di rammarico deriva dal fatto che le intenzioni originarie di questo blog erano buonissime e lo sarebbero tuttora ma è abbastanza evidente che si sia giunti a una situazione di stallo in cui gli interventi di Crovella, e soprattutto la sua figura, abbiano monopolizzato l’attenzione di tutti e distolto di fatto da un sano confronto sui contenuti dei vari articoli.
E’ un peccato perché in questo modo finisce che si perdono per strada contributi interessanti di persone che alla lunga si rompono i coglioni.
In realtà prende in giro solo se stesso autoconvincendosi della assoluta validità delle sue idee, che peraltro sono come minimo campate in aria.
E bastano due nomi al volo (e pure sabaudi) per smontare tutta la costruzione dalle fondamenta: Guido Rossa e Ugo Manera.
Ma tant’è…alla fine è lui che “vive male e non se ne accorge neppure”
Dai, non è possibile, ci sta prendendo tutti per i fondelli.
Detesto quando si dice: “Io ragiono di testa e quindi sono superiore. Tu, che non sei d’accordo con me, ragioni invece di pancia: sei inferiore”.
… … …
Per quanto riguarda Hias Rebitsch, lasciamolo in pace, sia nella testa che nella pancia.
Mettete ogni oggetto nella giusta categoria e che questa sia riconosciuta e approvata dal sabaudo regno. Tutto ciò che resta fuori non può essere approvato, deve quindi essere eliminato per il bene comune e per non creare turbamenti.
Cosí sia, amen
Bell’articolo storico su un personaggio non adeguatamente conosciuto qui da noi. Complimenti per averlo riproposto.
Sul tema generale, io sono convinto che in montagna esistano due mondi umani che quasi non hanno nulla in comune (in realtà di mondi ne esistono molti, ma sul tema sono due e ben diversi).
Da un lato c’è mondo degli alpinisti top, o cmq di chi prende la scelta di vita di dedicare la propria esistenza alla montagna. Dall’altro ci sono le persone normali che conducono una vita normale, hanno un lavoro lunedì-venerdi (a volte anche sabato, almeno al mattino), un matrimonio, dei figli, una casa, la mamma, la nonna e mille interessi ecc ecc.
Fatti i debiti adeguamenti, è come dire che esiste il mondo dei piloti di F1, che vanno a 300 all’ora, e il mondo degli automobilisti della domenica, che devono saper portare prudentemente l’auto a 130 all’ora.
I primi (F1) corrispondono agli alpinisti di punta ed è fisiologico che vivano di pancia o con una preponderante componente di pancia (senza la quale probabilmente non si porta un po’ più in là il confine dell’umano…). La storia dell’alpinismo è fatta da costoro. I secondi invece, gli amatori (gli automobilisti comuni), devono saper inserire l’interesse verso la montagna in modo armonico nella loro vita di cittadini normali. Qui entra in gioco la testa, che serve, come sono abituato a dire ai miei allievi, a mettere le briglie al cavallo della passione. Gli obiettivi prioritari della vita sono altri: matrimonio, figli, lavoro, magari fede religiosa (perché no?), volontariato, impegno civilr o politico e mille altri interessi… Almeno, questi sono i miei valori e, coerentemente, questi valori insegno. Da parte di un alpinista amatore, rischiare la vita a danno di questi valori, per il mio paradigma, è un abominio etico.
Quindi la “pancia” in alpinismo non la stigmatizzo in assoluto, ma la stigmatizzo se governa la montagna di chi ha una vita normale ed è un alpinista normale. Questo insegno. E non è necessario che si arrivi all’incidente fatale. Quando la passione per la montagna prende il comando dell’individuo e non viceversa (il tutto inserito in una vita normale, non in una vita da top climber) diventa una droga. Io li chiamo squali di montagna e li critico. Sono divorati da una droga come i cocainomani. Non ragionano più e spesso questo è l’anticamera dell’incidente fatale.
Non arrivo invece a criticare gli alpinisti top che pure hanno incontrato la morte coetentemente con la loro filosofia, da Mummery a Preuss, da Comici a Gervasutti, da Kukuzka ai tre recenti dispersi sul K2, perché il “loro” mondo quelle regole li’ ha. Certo, io non appartengo a quel mondo e loro non appartengono al mio mondo. Viviamo in due universi completamente separati. Li ammiro, mi piace conoscere aspetti della loro persona e della loro esistenza, ma non fanno parte della mia vita.
Invece chi sta a metà (gli squali, cioè i drogati di montagna nonostante un’apparente vita normale) è come se cercasse di giocare contemporaneamente a calcio e a basket. O giochi a calcio (tocchi la palla con i piedi) o giochi a basket (tocchi la palla con le mani). L’obiettivo medio delle scuole CAI deve essere produrre alpinisti amatori chr siano equilibrati e quindi con preponderante componente di testa che consente loro di governare la passione ed evitare che diventi droga. I top, i Messner, i Bonatti, i Simone Moro non sono l’esempio standard dell’output delle Scuole CAI. Questa divisione deve essere molto chiara e molto netta, altrimenti si rischia una mischietta che è il prologo di incidenti fatali. Buona serata a tutti!
come potrebbe fare la mente senza il braccio e viceversa?
In Rebitcsh credo che testa e pancia si siano unite insieme e infatti è venuto fuori un talento, un caposcuola, un fuoriclasse.
Penso che non si possa dare una risposta secca a favore dell’uno o dell’altro modo di agire. In montagna mi è capitato di agire a volte di testa altre d’istinto.
L’istinto, quella la vocina interiore che a volte ti parla è stata di suggerimento alla razionalità della testa.
È interessante notare che i grandi talenti non nascono mai dall’ordine costituito, ma semmai dal (apparente) disordine.
Rebitsch sarà stato uno che agiva “di pancia” o “di testa”?