Stupisce che in un paese “giovane” come il Brasile le difficoltà giuridiche che gli amatori incontrano nel praticare gli sport d’avventura siano così simili alle nostre. Probabilmente è vero che, come scrive André Ilha, “il sistema legale brasiliano appartiene al diritto romano-germanico, e così si suppone che lo Stato sia responsabile della legiferazione e dell’aiuto ai propri cittadini. Questo fornisce grandi spazi di manovra per questa “corsa alla norma”, mentre si fatica il doppio a pensare a una fondazione più favorevole al concetto di “libero volere”. Questo concetto è ben presente nei paesi anglo-sassoni, dove si è liberi di scegliere qualunque hobby, basta che le conseguenze di questa scelta non coinvolgano altri“.
Vale la pena di leggere con attenzione la bella e complessa analisi che André Ilha, famoso alpinista brasiliano, fa della situazione nel suo paese. Lui è ben cosciente della grande sfida che tutti abbiamo davanti, nella difesa della nostra libertà: al contrario di noi che in maggioranza tolleriamo una società favorevole ai divieti e iperprotettiva.
Pra Caramba, free solo, Pedra de Sao Pedro, Brasile. Foto: Cedar Wright
André Ilha ha aperto più di 600 vie nuove in Brasile e oggi è il direttore della Biodiversity and Protected Areas at the Rio de Janeiro State Environmental Agency (INEA). Ilha l’anno scorso è stato uno dei principali accusatori della Chiesa cattolica quando questa, per fare spazio e poter celebrare una messa per i pellegrini in occasione della visita di papa Francesco a Rio de Janeiro, ha fatto tagliare senza alcun permesso 334 alberi nel parco nazionale Serra da Tiritica. Parte della zona è proprietà della Chiesa. “Mai avremmo autorizzato questo. Si tratta di una porzione di foresta tropicale dell’Atlantico in pericolo di estinzione. Li denunceremo per questo crimine”, ha sottolineato Ilha.
Il diritto al rischio
di André Ilha
Traduzione dal portoghese all’inglese di Kika Bradford
Traduzione dall’inglese all’italiano di Alessandro Gogna
La vita dei nostri antenati non era facile. L’evoluzione ci ha fatti scendere dagli alberi alle pianure per la ricerca di cibo. Questo ha portato al nostro essere bipedi e a quella serie di qualità fisiche e mentali che hanno contribuito al successo della nostra specie. Forza, agilità e riflessi pronti unitamente a un’attitudine all’esplorazione hanno portato gli umani alle differenti nicchie ecologiche del mondo. In questo processo, molte specie si estinsero o furono costrette a migrare dall’eccezionale capacità di adattamento degli umani ai diversi ambienti naturali.
Comunque, la caratteristica più rimarchevole che differenzia l’homo sapiens dagli altri animali, è il suo potente intelletto, che deriva da un cervello altamente evoluto. Questa caratteristica ha permesso all’uomo di moltiplicare i risultati del suo lavoro, con strumenti e macchine, in modo da creare ecosistemi artificiali per se stesso e per la propria prole, comodi e sicuri, e da eliminare l’incertezza e i pericoli del mondo primitivo. Oggi, la maggioranza della popolazione al mondo vive in contesti ampiamente prevedibili, in situazioni sotto controllo che includono riparo, cibo, vestiario, salute e sicurezza, in misura di solito direttamente proporzionale alla posizione sociale. Queste condizioni permettono all’uomo di trascurare le sue qualità naturali e di dedicarsi alla conquista del pianeta.
Per molti questa è una condizione ideale, perché non devono affrontare i pericoli e quelle incertezze del mondo selvaggio che potrebbero costare loro la vita. A ogni modo la civiltà si è evoluta solo nelle ultime poche migliaia di anni, e questo tempo è nulla se pensiamo all’intero periodo di evoluzione. Tutte quelle qualità fisiche e sensoriali che ci hanno portato a successi importanti in fatto di sopravvivenza e riproduzione non sono state eliminate dal nostro genoma; sono ancora “ibernate” dentro di noi. Per alcuni queste qualità sono nascoste nel sonno profondo della nostra vita moderna, addomesticate, sperano. Per altri, queste qualità sono emergenti e vogliono essere espresse, tramite corpo e mente. Come nell’immortale libro di Jack London, è come se la wilderness stesse chiamando qualcuno di noi, invitandolo a ritornare a ciò che eravamo o a ciò per cui eravamo destinati nel nostro lungo viaggio evolutivo.
Gli sport d’avventura
Al giorno presente, il modo più diffuso per poter manifestare questa spinta ancestrale sta in una serie di attività sportive, generalmente note come sport di avventura, ben definite dal Ministero brasiliano dello Sport (Risoluzione 18 del 9 aprile 2007): “una serie di sport formali e informali, a contatto con la natura in condizioni di incertezza e di rischio calcolato, che portano a sensazioni ed emozioni. Si praticano in terreno naturale (aria, acqua, neve, ghiaccio e terra) come mezzo per testare i limiti umani nel fronteggiare le sfide poste da quegli ambienti. Sono legati alla sostenibilità socio-ambientale e possono essere praticati per educazione, ricreazione e propositi di performance, con conoscenze ed equipaggiamento specifici”. La stessa Risoluzione offre una definizione pertinente di “sport estremi” che si svolgono in ambienti controllati che possono essere artificiali (per es. skateboarding, motocross, bungee jumping). Per essi, sono ugualmente valide le osservazioni e considerazioni a seguire.
Prima di procedere oltre, analizziamo alcuni aspetti della definizione sopra riportata che tratteggiano molto bene le motivazioni di surfer, subacquei, scalatori, canoisti, hang-gliders, B.A.S.E. jumpers, ecc. Dopo analizzeremo come tutto ciò possa essere equivocato, o disturbato da quelli che hanno una vita “regolare”, con tutte le complicazioni sociali e legali che ne nascono e che limitano la libera pratica degli sport d’avventura nel nostro paese.
Cominciamo con distinguere che noi abbiamo a che fare sia con sport formali che informali. Anche se la maggior parte di questi sport offre formali competizioni con regole specifiche e sistemi di graduatoria che dicono chi vince e chi perde, in effetti la maggioranza li pratica in modo spontaneo. Così, un gruppo di amici va ad arrampicare nel weekend, o a fare surf o immersioni, senza curarsi di regole, di cronometrare i tempi o di fare classifiche. E senza dover giustificarsi di fronte a nessuno. Come detto nella definizione, la loro unica preoccupazione è di stare insieme in un contesto naturale. In molti casi, c’è anche attenzione alla performance individuale, quando un atleta vuole capire se sta migliorando o no, in modo da poter affrontare quella sfida che l’ambiente naturale gli pone. Potrebbe sembrare ozioso parlare di queste cose, ma è vero che l’assenza di regole fisse e scritte imbarazza molta gente. Costoro periodicamente cercano di imporre delle regole, creando serie conseguenza all’esistenza stessa di questo genere di attività, come vedremo dopo. Qualche volta la libertà può sembrare incomprensibile.
Piedra Riscada, Brasile
La definizione precisa che gli sport d’avventura sono praticati nella natura dell’aria, dell’acqua, della terra, della neve e del ghiaccio. Anche questo potrebbe sembrare ovvio, ma è importante sapere di che genere di natura stiamo parlando. I parchi urbani, i giardini, gli spiazzi esistono per soddisfare quell’intimo amore per piante e animali che conserviamo anche nel modo di vita più controllato, senza identificabili rischi per la nostra incolumità. Negli annunci pubblicitari, dove il consumatore è invitato a comprare il suo “posto in paradiso”, le foto sempre mostrano alberi bellissimi sullo sfondo, con farfalle e uccellini che svolazzano colorati attorno a famiglie sorridenti tra i fiori. Qualcuno desidera qualcosa di più e si affida a guide professionali per farsi portare a “una natura più naturale”, in mezzo a sentieri ben segnalati o in qualche altra attività outdoor del tutto prevedibile. Questi sono gli eco-turisti, che ricadono in uno dei settori del turismo a più rapida crescita degli ultimi tempi. Il livello dopo è dedicato ai praticanti lo sport d’avventura che amano invece ingaggiarsi in aree del tutto naturali. In certo qual modo questi vogliono tornare alle condizioni primitive, mondo dal quale tutti proveniamo, dando espressione libera a questa parte della nostra eredità biochimica. Dato che non dobbiamo più affrontare orsi o tigri dai denti aguzzi, dato che possiamo comprarci da mangiare nei negozi, come pure attrezzatura e vestiario, la sfida moderna assume le forme di onde oceaniche giganti, pareti verticali di roccia, grotte strette e profonde o acque turbolente.
Questo ci porta al concetto più importante della nostra Risoluzione 18/2007: “in condizioni di incertezza e di rischio calcolato (…) come mezzo per testare i limiti umani nel fronteggiare le sfide poste da quegli ambienti”. La parola “avventura” assume l’accettazione di incertezza e rischio. Se non c’è incertezza né rischio, non c’è avventura. Un’attività prevedibile non può essere classificata “avventurosa”, e non c’è avventura senza un certo gradi di incertezza e di rischio. Anche poco, ma rischio deve esserci. I dizionari sostengono questa percezione quando definiscono l’avventura come “impegno (a risultato incerto) che comporta rischio, pericolo”.
Quindi, per gli avventurosi, l’esigenza di risultati prevedibili distorce il proposito dell’attività, mentre l’eliminazione di tutti i rischi cancella l’attività stessa. Emozioni, anche molto forti, possono essere provate nei luna-park, ma non si può parlare in questi casi di avventura, nella totale assenza di rischio (con l’unica eccezione di una manutenzione insufficiente o superficiale). Il cosiddetto “turismo d’avventura” merita il nome quando, a dispetto delle precauzioni prese dagli operatori, non si può eliminare completamente rischio e incertezza del risultato. Una volta ancora, la soppressione di rischio e incertezza nullifica l’attività in se stessa.
Minacce legali per gli sport d’avventura
Molti non possono capire le motivazioni che portano altri a praticare sport che possono recare molte privazioni, come fame, disidratazione, caldo o freddo estremi, significativi danni alla propria mobilità, anche morte. Aggettivi come “pazzi”, suicidi”, “masochisti” e “scriteriati” sono indirizzati verso coloro che s’ingaggiano in attività avventurose, che li ascoltano con un misto di tolleranza e di orgoglio. Tolleranza perché i critici sono così distanti dalla loro natura interiore che in effetti non possono afferrare il significato di una vita che non sia immersa in comodità, beni e tecnologie. E orgoglio per sentire di essere stati capaci di essersi provati in attività che hanno portato loro piacere e riconoscimento. Il comune cittadino percepisce queste attività come inutili, perciò è difficile capirlo quando si vede che il suo fine è accumulare beni, servizi e comodità, pensando che tutti dovrebbero fare così.
E’ solo una divergenza di opinioni. Il problema arriva quando la gente comincia a creare restrizioni alla pratica di sport d’avventura con la giustificazione che sono “pericolosi” (anche se lo sono). A causa dei pericoli connessi, ecco sorgere una grande quantità di artifici legali e sociali per restringere o inquadrare questi sport, talvolta in modo indiretto. Artifici che non hanno speranza di salvare la gente da se stessa.
Olivia Hsu, Brasile
Il più comune di questi artifici è il proposito di norme legali e irrazionali che tentano di “ingessare” queste attività. Come se potessero costringere queste attività in una stretta giacca di norme scritte, dimenticando che si tratta di esigenze interiori di libertà ispirata e avventura. Qualche volta queste norme non hanno senso e sono impossibili da applicare e, se approvate, distruggerebbero quelle attività che cercano di regolamentare. Questi progetti per lo più sono rivolti alle imprese commerciali e quindi più dirette al turismo d’avventura che non agli sport d’avventura. Comunque, per via della non precisa esposizione delle norme, queste ricadono sugli appassionati, che non saranno mai capaci di obbedire a tutte quelle norme senza senso: con il risultato o di far abbandonare l’attività o di praticarla illegalmente, data l’impossibilità di gestire l’applicazione delle regole.
Focalizziamoci ora sul “montanhismo” (termine usato in Brasile per indicare arrampicata ed escursione in montagna), con il quale ho più familiarità, dato che l’ho praticato per almeno quattro decadi. Improvvisamente sentimmo che i politici stavano cercando di far approvare norme che imponessero ai climber l’uso dei guanti, una corda di riserva e una persona che stesse alla base della parte a osservare i progressi della cordata. Un politico dello Stato di Rio de Janeiro tentò un’altra regola che voleva definire, tra l’altro, perfino il colore del casco degli arrampicatori. A prescindere dalle buone intenzioni del promotore, queste proposte mostrano grande povertà di comprensione delle attività d’avventura e delle motivazioni, e a volte impediscono fisicamente l’attività stessa (come nel caso dei guanti per l’arrampicata su roccia: un’idea che probabilmente gli è venuta guardando qualche film di salita su ghiaccio, dove i guanti sono una necessità).
Queste regole ossessivamente tendono anche a certificazioni o accrediti formali, come se queste da sole potessero garantire la qualità degli operatori commerciali. In più, non tengono conto della differenza tra operatori commerciali e “amatori” (sia quelli indipendenti sia quelli membri di club e associazioni), i quali sono i soli a eventualmente poter pensare a norme ragionevoli e funzionali. Questo tentativo di burocratizzare attività i cui praticanti, curiosamente, cercano proprio la libertà dalla vita urbana e conformista, genera un modo lucroso di sostenere il mercato delle agenzie abilitate alle certificazioni; è come porre la spada di Damocle sulla testa degli operatori del turismo d’avventura (e per estensione anche sulla testa dei praticanti gli sport d’avventura). In caso di incidente i praticanti che non avessero neppure una tessera o un timbro avrebbero delle aggravanti.
Al contrario, una persona meno competente o esperta potrebbe essersi dotata di tessera, magari semplicemente comprandola, e solo per questo potrebbe essere difesa da una norma legale assurda, fatta solo per restringere la libertà o incoraggiare la trasgressione.
A dispetto delle pressioni, fortunatamente un’attenta riflessione e lobby di altri politici sono state in grado di fermare molte di queste proposte, sbagliate o male informate (anch’esse risultato di altre lobby). A Rio de Janeiro, i membri del Congresso Miro Teixeira e Átila Nunes ritirarono le loro proposte dopo essere stati convinti degli esiti indesiderabili e disastrosi che esse avrebbero comportato. Il parlamentare Carlos Minc, ex ministro dell’Ambiente, ha abbracciato la causa della libertà per gli sport d’avventura. Il suo intervento è stato decisivo per influenzare i politici coinvolti nelle proposte sopra elencate, semplicemente spiegando loro alcuni concetti base.
Per dare un esempio a livello nazionale, l’ultra-restrittiva norma PL 5609/05, compilata dal parlamentare Capitão Wayne aveva a che fare con gli aspetti commerciali degli sport estremi e d’avventura, e avrebbe avuto un forte impatto per i praticanti “amatori”, se approvata. Il parlamentare José Otávio Germano fu nominato relatore, e molto sensatamente disse: “Questo tipo di normalizzazione sembra un’indebita interferenza del Governo nelle relazioni tra gli appassionati sportivi, senza connessione né con un servizio pubblico né con coloro che vogliono acquistare i servizi. Non è compito del Governo interferire in queste relazioni. Se qualcuno vuole ingaggiarsi in attività che comportano qualche rischio, dovrebbe essere libero di farlo. La libertà è un diritto costituzionale”.
Questa guerra si combatte caso per caso. Una comunità che vigili e sia d’appoggio su questi temi è la chiave per prevenire l’approvazione di quel tipo di norme. Le leggi, se approvate, sono più difficili da correggere e per qualche magistrato potrebbero essere lo strumento per punire doppiamente coloro che hanno già vissuto l’esperienza traumatica o anche perso un amico nell’incidente. A dispetto del fatto che queste attività danno grandi soddisfazioni ed emozioni a molti, c’è gente che ha bisogno di trovare qualcuno (individuo od organizzazione) da condannare per la perdita di un beneamato (marito, figlio, fratello, amico). Vogliono qualche sollievo per aver perso qualcuno che è morto in un incidente causato da un fenomeno naturale, prevedibile o imprevedibile, o da un errore tecnico, o dall’uso scorretto di uno strumento o ancora dall’erroneo giudizio sull’idoneità della vittima a quell’impresa.
In modo sempre più frequente e duro, ci sono quelli che cercano una compensazione economica al verificarsi di un incidente serio. Per lo più la pretesa è rivolta al Governo, ma può anche essere nei confronti di un membro del gruppo della vittima, dell’associazione di cui questo faceva parte e perfino del proprietario del terreno sul quale è avvenuto l’incidente (anche se detto proprietario nulla ha a che fare con l’incidente: solo per il fatto che ha “permesso” che si svolgesse quell’attività sul suolo di sua proprietà).
La compensazione può essere richiesta anche a tutti assieme questi “attori”. Chi richiede può farlo per una sua convinzione ma anche perché un avvocato gli si offre. Il fatto è che talvolta la famiglia della vittima è in cerca di qualche sollievo, di un modo per onorarla, anche con una compensazione economica.
In questo contesto, sia le organizzazioni che gli appassionati stessi sono soggetti a un rischio ancora più grande che l’incidente stesso: potrebbero essere accusati ingiustamente di essere responsabili della perdita della vittima, probabilmente amata sia dai parenti che dai compagni.
Il sistema legale brasiliano appartiene al diritto romano-germanico, e così si suppone che lo Stato sia responsabile della legiferazione e dell’aiuto ai propri cittadini. Questo fornisce grandi spazi di manovra per questa “corsa alla norma”, mentre si fatica il doppio a pensare a una fondazione più favorevole al concetto di “libero volere”. Questo concetto è ben presente nei paesi anglo-sassoni, dove si è liberi di scegliere qualunque hobby, basta che le conseguenze di questa scelta non coinvolgano altri.
Il problema è anche più critico quando si ha a che fare con minori. La legislazione brasiliana, con il suo spirito iper-protettivo, crea un muro di pietra di fronte allo sviluppo giovanile e al potenziale che hanno questi sport e la ricreazione outdoor, sia per i più piccoli che per gli adolescenti. Se si legge con attenzione tutta la dottrina legale, a nessuno sotto i 18 anni sarebbe permesso di affrontare attività rischiose, anche se queste sono state autorizzate dai genitori o perfino si svolgano in loro compagnia.
Dal mio punto di vista, ciò sembra essere un’inappropriata interferenza di Stato nei rapporti familiari. In più, se si osservano rigidamente le leggi, si hanno risultati anche più negativi di ciò che si voleva evitare: cercherò di dimostrare con un esempio quello che sto dicendo. Io ho cominciato ad arrampicare a 14 anni con il Centro Excursionista Petropolitano, una vecchia associazione di Petrópolis (Rio de Janeiro). A 15 anni, feci un altro corso con il Centro Excursionista Brasileiro, il più antico club di arrampicata dell’America latina, fondato nel 1919, ancora oggi operativo a Rio de Janeiro. Mio padre era morto, così fu mia madre a firmare un’autorizzazione in entrambi i casi. Così io posso attestare che dedicare gli anni dell’adolescenza all’escursione e all’arrampicata (a 17 anni ero tra i top brasiliani dell’epoca), con qualche puntata anche di surf e di immersioni subacquee tanto per non essere monotematico, fu la chiave della mia evoluzione personale. Praticando queste attività, fui in grado di sviluppare fiducia in me stesso, coraggio, spirito di gruppo, giudizio e capacità di decisioni sotto pressione, ecc. Per non menzionare il profondo rispetto e l’ammirazione per il mondo naturale che quell’esperienza nella wilderness, lontana dalla scenografia dei parchi urbani, risvegliò in me, indirizzandomi a una vita intera di immersione nella natura, cui mi sento di dover molto.
L’educazione all’outdoor è diventata progressivamente sempre più importante negli Stati Uniti e in Europa in generale, e non sto parlando di semplici uscite all’aperto. Le esperienze di questo tipo sono viste come componente essenziale allo sviluppo del giovane, e comprendono escursionismo, alpinismo, kayaking, rafting e altre. Il governo americano ha anche programmi specifici dedicati ai giovani e alla loro riabilitazione al rischio, che usano l’arrampicata su roccia per diffondere alcune delle qualità sopra menzionate. In Brasile ciò sarebbe proibito, stando alla legge, anche se queste attività si svolgessero in presenza dei genitori.
Evidentemente gli incidenti possono capitare sia ai giovani che agli adulti. Ma privare l’adolescenza di milioni di giovani delle opportunità di crescita offerte dal contatto con la natura, a causa di una limitata possibilità di sventure, è il baratto di troppo con troppo poco. Lo prova il fatto che questa norma non è osservata per nulla. Ma in ogni caso è una minaccia per quei genitori e insegnanti che ci provano a dare ai ragazzi qualcosa di più che ecosistemi artificiali fatti apposta per la comodità e la sicurezza, ivi compresi anche i parchi civici.
Ogni giorno succedono terrificanti incidenti stradali in tutto il mondo, in molti dei quali sono coinvolti adolescenti e bambini. Anche da pedoni si corrono dei rischi. A dispetto di questo, nessuno ha mai proibito ai minori di salire su un’auto o camminare per strada, senza per di più la supervisione di adulti. Perché? Perché le statistiche ci mostrano i grandi vantaggi presenti nel lasciare i giovani formarsi anche su una strada piuttosto che stando chiusi in casa fino alla maggiore età, lontani da ogni danno fisico (a eccezione di violenze o incidenti domestici, cose anche queste assai comuni). Quindi, a me sembra che estendere questa considerazione anche al mondo naturale e selvaggio sia cosa valida. I genitori possono accompagnare i figli, ma dopo una certa età questo non è più necessario. La sola spiegazione possibile di questa differenza di trattamento presente nella legislazione è l’enorme fossato che si è scavato tra la moderna vita urbana e le nostre radici ancestrali.
E’ evidente comunque che tutti gli incidenti seri in attività d’avventura dovrebbero essere indagati con attenzione, per almeno due ragioni. Primo, perché capire come l’incidente è successo può portare a nuove procedure o avvertenze per minimizzare in futuro casi del genere. Secondo, perché attitudini criminali e grossolana negligenza possono in ogni caso verificarsi, e nessuno deve essere al di sopra della legge. Poi ancora ci sono leggi che regolano queste evenienze. In effetti, il Consumer Protection Act regola con mano severa il turismo d’avventura e il servizio di accompagnamento con guida. Comunque l’approccio che si ha per il turismo d’avventura non può essere valido per un gruppo di amici o membri di un club che si mettono in attività avventurose. In pratica, questo vorrebbe dire impedire queste attività o spingere alla loro pratica clandestina. Sono entrambe situazioni indesiderabili, dove i praticanti sarebbero soggetti a immeritate sanzioni.
Restrizioni d’accesso
Un’ultima e significativa minaccia agli sport d’avventura è la restrizione d’accesso alle aree selvagge, là dove emessa per paura di azioni criminali o danni. Questa tendenza fu dapprima propria di aree protette e pubbliche, come i Parchi, ma poi si è allargata alle aree private, sia pure con minore estensione. Queste restrizioni arrivano in varie forme: 1) con la richiesta di certificati scoraggianti se non inottenibili per la maggior parte degli amatori; 2) con l’obbligo di affidarsi a guida competente per poter visitare parchi (in questo caso ci sono anche motivi ambientali che giustificano questa richiesta); 3) l’accesso ad aree specifiche è semplicemente precluso per le attività d’avventura.
Queste restrizioni sono particolarmente ingiuste se si pensa che in passato furono proprio gli appassionati ad avere coscienza dei valori dell’ambiente e quindi a perorare la creazione di molte di queste aree protette, sia con iniziative dirette sia sostenendo movimenti di opinione a favore di zone montuose, foreste o laghi. Dopo aver lottato per la creazione del parco ci si può sentire davvero frustrati di fronte all’asserzione che chiunque può essere un potenziale distruttore dell’ambiente, senza possibilità di poter dimostrare il contrario. Ciò può generare una deprecabile ma ben comprensibile riluttanza a volere altri parchi, perché semplicemente anche quelle zone diventerebbero inaccessibili.
Abbiamo già parlato dei certificati. In realtà questi non garantiscono né capacità più raffinate, né comportamenti migliori in situazioni pericolose. Molti dei più famosi alpinisti brasiliani non si sono mai impegnati in questi programmi di certificazione, mentre ad altri che, pagando, si sono iscritti ai corsi è stato rilasciato un accredito formale che non serve a nulla di fronte a una situazione pericolosa. Nei parchi americani o europei nessuno deve esibire certificati, e neppure occorre essere soci di qualche club o federazione per andare a camminare, sciare o arrampicare. Ciascuno è cosciente dei pericoli insiti nella wilderness e quindi è responsabile per se stesso.
L’idea di richiedere ai visitatori di pagare una guida per la visita a parchi privati e pubblici nacque, in un’occasione assai specifica, nel parco nazionale di Chapada dos Veadeiros, vicino a Brasilia. Il fine era di bilanciare il numero degli addetti nei confronti dei visitatori. Non c’erano abbastanza impiegati. Questa motivazione, sebbene mal gestita, può essere comprensibile date le circostanze. Comunque, siccome era una soluzione pacchetto per adempiere a uno degli scopi del parco (fare in modo che il parco venisse visitato), i manager degli altri parchi del Brasile la adottarono pedissequamente. Subappaltarono alle guide il compito, e la responsabilità, di gestire i visitatori, inventandosi delle credenziali a prescindere dall’esperienza e dalle capacità delle cosiddette “guide”. Queste potevano accompagnare gruppi di una mezza dozzina di persone, trascurando perciò gli appassionati con maggiore esperienza.
Nota. La legge n. 9985/2000 stabilì il Sistema Nazionale delle Aree Protette (SNUC in portoghese) che esplicitamente dice che due delle funzioni dei parchi nazionali, e quindi per estensione delle altre zone protette, sono la ricreazione e l’ecoturismo.
Al Parco di Chapada dos Veadeiros l’invenzione si mangiò l’inventore. Per molti anni l’amministrazione del parco fu ostaggio dell’associazione locale di guide, che lavoravano quando e come gli aggradava. Sia che i visitatori fossero brasiliani o stranieri erano trattati dalle guide a seconda dell’umore del momento. Meno male che erano guide certificate…
Spesso il direttore era costretto ad andare a inseguire le guide una per una per cercare di accontentare gruppi di turisti che aspettavano impazienti alle porte del parco, magari dopo aver fatto un lungo viaggio per arrivare fin là. Un altro risultato fu che gli escursionisti esperti misero una croce su quel parco. Non era piacevole dover pagare anche belle somme alle guide locali, pregandole per di più. E per essere accompagnati su due o tre escursioni, sempre quelle, e di certo ben al di sotto dei loro interessi e capacità.
Fortunatamente, l’ICMBio, l’agenzia federale che gestisce quell’area, recentemente ha cambiato rotta. Fu una lotta con le guide locali per fare che il turista si riappropriasse del parco. Ora la gente può scegliere se prenotare una guida e, anche se il parco incoraggia questa soluzione, non è più obbligatorio. Una volta crollato questo feudo, anche altre aree in Brasile seguirono l’esempio. I servizi di accompagnamento guida sono ancora disponibili per chi vuole o ne ha bisogno, ma è permesso esplorare la wilderness con i propri mezzi, a patto di seguire le regole ambientali.
L’ultima restrizione alla libertà di praticare sport d’avventura e turismo è la più radicale. La chiusura “periodica” dell’accesso. Nello Stato di Espirito Santo, l’arrampicata è stata bandita per anni nei parchi nazionali, solo perché qualcuno aveva pensato che fosse un’attività pericolosa (e lo è) e non bisognava averci a che fare. Anche se ci sono altri parchi nazionali che dimostrano più flessibilità e concedono più libertà, e a dispetto delle promesse di revisione, questa brutta norma è ancora valida e colpisce tutta una classe di potenziali visitatori. Il diritto al rischio è arbitrariamente, unilateralmente soppresso con norme legali molto discutibili, trascurando perciò ogni vantaggio fisico e spirituale di cui i visitatori potrebbero beneficiare. Anche se il locale club di arrampicatori sta ancora negoziando, i progressi della trattativa sono lenti.
Conclusione
I tentativi storici di soggiogare gli impulsi di base dell’uomo sono falliti, avendo creato più problemi di quelli che intendevano risolvere. Con il Proibizionismo negli USA (1919-1933), bande violente si combattevano per il controllo della vendita clandestina degli alcolici, magari prodotti negli scantinati di rispettabilissimi cittadini. Proprio come l’alcol, anche le droghe portano qualcuno all’irresistibile impulso ancestrale di trascendere la realtà. L’odierna repressione in fatto di droga (la “guerra alla droga”) ha spinto alla formazione di altre gang ben più violente (i “cartelli”) per gestire un giro di miliardi di dollari. Tutte quelle strategie proibizioniste hanno fallito e servono solo a generare più violenza, più corruzione e a cacciare in galera migliaia di cittadini, altrimenti rispettabili, solo perché sono stati sorpresi in possesso di modeste quantità di sostanze varie e solo per uso personale. In evidenza di assenza di pericolo per altri. Oggi, alle Nazioni Unite, si è dibattuto su queste “guerre alla droga”, ma non si arriva a prendere decisioni valide proprio per la fortissima opposizione degli USA, guarda caso il paese che ha il più forte consumo di droga. La Chiesa cattolica s’inventò il celibato per poter reprimere uno dei più forti istinti dell’uomo: il sesso. Il grado di successo fu ed è minimo, è abbastanza comune vedere preti che trasgrediscono. In Brasile, al tempo coloniale, gli stranieri erano esterrefatti dal comportamento dissoluto di vescovi e alti prelati, sebbene a questo i nativi non facessero caso più di tanto. E, ancor peggio, in molti casi, la repressione ha portato ad atrocità perverse, come la pedofilia, diffusa in tutto il mondo, anche se la Chiesa si è sempre adoperata per reprimerla.
Per riassumere, gli amanti dello sport d’avventura stanno solo chiedendo il diritto di soddisfare un’esigenza che tutti ci portiamo dietro da tempo, poter praticare attività che loro sanno benissimo essere pericolose, poco o tanto. Nel farlo, sono coscienti di assumersi le conseguenze della loro scelta senza richiedere a nessuno (individui o istituzioni) quell’aiuto che in effetti non è doveroso. Questo è un obiettivo, né pretenzioso né ingiustificato.
2 febbraio 2014
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Articolo molto interessante, mi fa piacere sapere (non che anche in Brasile ci sono questi problemi, ma almeno) che c’è chi li ha esposti e trattati in modo critico.
Non so nulla di legislazione di quel Paese; dalla terminologia della riportata Risoluzione 18 del 9 aprile 2007, a mia prima impressione se ne possono però intuire almeno due matrici: l’una attiene al c.d. “Turismo responsabile” (“sostenibile”, o simili), sul quale da tempo si traffica a livello globale, l’altra al “mercato”, pure globale, ed ai suoi strumenti (quanto allo sport, nella definizione là adottata si noti ad esempio l’impiego delle categorie “informale”/”informale”, “performance”, “sfide”, “educazione”, ecc., ormai in generale correnti nel linguaggio e nel pensiero sociale/economico/politico/giuridico dell’azione dell’Unione Europea).
Mi lascia perplesso (speriamo che anche su questo punto ci sia chi possa darci approfondimenti) la ritenuta maggior influenza sull’attuale legislazione brasiliana in materia del diritto romano-germanico piuttosto di quello dei Paesi anglo-sassoni, nel senso che, in Brasile, sia stato il primo il “responsabile della legiferazione e dell’aiuto ai propri cittadini” e quindi “iper-protettivo”; almeno in Italia (c’è ragione di pensare che per il Brasile di oggi sia diverso?) il trend (variamente spinto, sovvenzionato e ricompensato) è invece proprio quello dell’estensione del sistema e del pensiero giuridico americano e britannico a carico dell’altro che noi chiamiamo di diritto continentale (da noi voci autorevoli quest’ultimo ormai lo definiscono “recessivo”), su motivazioni diverse da quelle del passato. Ad esempio, proprio il tema di prevenzione dei (pericoli/)rischi è viralmente interessato dalla teorica e pratica del c.d. “Risk management” che, nei suoi intenti e sviluppi parossistici ci è stato recentemente importato dai Paesi di lingua inglese (si noti che il nostro vigente Codice penale del 1930 parlava/parla sovente di “pericolo” e mai di “rischio”) e che ha a sua volta una matrice nettamente liberistica (piuttosto di liberale) intrinsecamente fondata e legata ad esigenze soprattutto d’interessi economici più che ideali.
D’altra parte, se il Brasile è un Paese “giovane” e coi tempi che corrono, è da giovani usare le novità piuttosto che la tradizione.