Il piccolo giallo di Vinatzer

Il piccolo giallo di Vinatzer
(Le Mésules e il piccolo giallo della via Vinatzer-Peroso)
di Piero Pagliani

Era il 1988 e avevamo deciso di passare le vacanze estive a Selva di Val Gardena. Lì la nostra bimba di tre anni si rivelò una gran camminatrice, vincendo la medaglietta d’oro coi punti dei rifugi visitati. Una volta cresciuta, pur continuando ad amare la montagna si è dedicata al nuoto e al mare, non alla roccia. Legge del contrappasso spesso usata dai figli per distanziarsi dai genitori. Meglio così.

Con me le cose andarono diversamente. Pur amanti della montagna, i miei genitori speravano di non trasmettere la stessa passione al figlio, ma sbagliarono tutte le mosse. La peggiore fu quando nell’estate del 1970 per sbolognarmi mi spedirono a Misurina dove finii per mettermi sotto l’ala protettrice di Alziro Molin, guida di Auronzo e sicuramente uno dei più grandi liberisti della sua epoca. Quasi tutti i giorni Alziro mi portava su qualche parete e iniziai anche a condurre da primo, sotto il suo sguardo vigile ma rilassante e a volte scanzonato.
Il dado era tratto.

Piz Ciavazes: tracciato della via Vinatzer-Piazza

Quell’estate del 1988, dunque, mi trovavo in Val Gardena, e con un progetto ben preciso in testa: scalare a tema.
Ispirato da un articolo apparso sulla rivista del CAI nel 1972, nel quale Alessandro Gogna invitava a una riscoperta delle vie di Giovan Battista Vinatzer, il mio piano era quello di ripetere tutte le vie attorno a Selva aperte dal grande scalatore gardenese. Escluse però quelle alla Stevìa, che giudicavo un po’ troppo pericolose.

Le vie rimanenti erano su bella roccia, giuste di grado e comode. Ma più che altro c’era il piacere di passare dove Batista de Val aveva accarezzato la roccia. Un piacere “psico-storico-sportivo”, non so in che altro modo definirlo.

Edotto dall’articolo di Gogna e dalla vecchia guida di Ettore Castiglioni, eccomi allora con Maurizio Bellomia, scalatore a singhiozzo ma fido secondo, sulla Ovest della Terza Torre del Sella e sul Diedro Sud-ovest del Ciavazes. Eccomi poi con Bruno Telleschi, all’epoca istruttore come me alla Paolo Consiglio di Roma, a condurre sulla Nord del Sass dla Luesa, finita con una mia contrattura al bicipite destro e quindi, giocoforza, terminata unicamente col braccio sinistro mentre con l’altro potevo solo spingere (ma l’eroismo della vetta non c’entra nulla: avevo ritenuto più sicuro salire in quel modo fino al sentiero, piuttosto che ridiscendere in doppia tutta la via con un braccio in disuso).

E poi di nuovo al Ciavazes, con Emilio Fantin, artista preso dalla curiosità dell’arrampicata, alle primissime armi ed entusiasta, prima sullo spigolo Sud-ovest, che inizia friabile e finisce marmoreo, e poi sul misterioso Diedro Ovest, menzionato nella guida di Castiglioni. Una delle due “vie sconosciute” che venivano citate da Gogna nel suo articolo del dicembre 1972.

Torre Occidentale delle Mésules da las Biesces: tracciato della via attribuita erroneamente a Vinatzer.

In effetti non era una via molto nota visto che una guida, corredata di cliente, dalla prospiciente Terza Torre del Sella ci domandò se stessimo aprendo un itinerario nuovo perché lì non ci aveva mai visto nessuno.

Più tardi, nelle circostanze che riferirò, Vinatzer stesso mi avrebbe comunicato che in effetti la nostra era stata la seconda ripetizione.

E infine ci imbattemmo in un piccolo “giallo”.
Come dicevo, le informazioni le ricavavo dall’articolo di Alessandro Gogna, dalla vecchia guida CAI di Castiglioni e infine da quella in tedesco di Egon Pracht, il Sellagruppe, l’unica guida moderna della zona disponibile all’epoca.

Vennero a trovarmi i miei genitori. Mio padre Adriano Pagliani, istruttore da giovane alla Scuola Parravicini di Milano, era stato compagno di Carletto Negri alla direttissima della Nord della Grivola e proprio di Ettore Castiglioni durante la sua ultima “prima”, al Monte Berrio in Valpelline (e anche in galera con lui in Svizzera, per via delle note vicende della “banda del Berio” durante la Resistenza).

Erano decenni che papà non metteva le mani sulla roccia, ma si entusiasmò alla mia proposta di legarci in cordata. Avevo scovato nella guida di Castiglioni una breve via alla Torre Orientale delle Mésules da las Biesces 2330 m, terzo grado con forse un paio di movimenti leggermente più difficili, aperta da Vinatzer con un tal signor G. Peroso. Ci andammo, e ci divertimmo: papà non si era scordato i trucchi del mestiere.

Ma in quell’occasione avevo scoperto sulla guida di Pracht che il signor Peroso si era legato a Vinatzer anche per un’altra via sulle Mésules, alla Torre Occidentale delle Mésules da las Biesces 2336 m, più lunga e più difficile: “V+ (2 Stellen), sonst V und leichter”, recitava. Percorsa molto raramente, aggiungeva. Le informazioni le aveva avute da Heinz Steinkötter. Solo una brevissima descrizione suggellata dalla frase: “Nessun’altra informazione”.

Non importava. Ci dovevo andare e infatti ci andai seguito con fiducia da Maurizio, che essendo, come ho detto, uno scalatore rapsodico, non sapeva giudicare se andavamo a fare una cosa saggia o insensata.
Fu un misto delle due cose.

Confortato dalla valutazione delle difficoltà non mi ero portato dietro quasi nulla, solo tre o quattro chiodi, il martello e qualche cordino. La salita iniziava con una fessura compatta e assolutamente verticale. Dopo quattro metri o giù di lì trovai l’unico chiodo del tiro (il resto è inchiodabile) e dopo altri quattro metri capii che ero decisamente più dalle parti del sesto che non del quinto. Ma ormai ero in ballo. Con un po’ di ansia salivo lungo la fessura, bella ma difficile, sempre più difficile, completamente sprotetto. Mi trovai così a una decina di metri dal chiodo in una situazione imbarazzante. Quel tipo di situazione in cui anche se non è vero che tutta la vita passa in rassegna, tuttavia in rassegna vengono passati una serie di motivi, molto validi, che spingono verso una domanda chiave: “Perché sono qui e non al mare?”.

Questa serie, o più precisamente questo insieme aggrovigliato, di motivi e sentimenti mi aveva fatto piombare in una di quelle situazioni che molti alpinisti hanno provato nella loro carriera e che generano una specie di gorgo che risucchia verso uno stato contraddittorio di negazione della realtà e insieme di iper-percezione.

Quel particolare sentire che in termini più semplici si chiama “strizza”. Anzi: “molta strizza”. Era la seconda volta che lo provavo.

La prima era stata quindici anni prima su un satellite del Bianco, in circostanze molto diverse derivanti da problemi di altri e dalla mia inesperienza che mi fece stare per alcuni minuti statico in posizione alla Dülfer acciaiandomi, senza protezioni intermedie circa venticinque metri sopra un minuscolo terrazzino su cui il mio compagno mi faceva sicura a spalla (la menziono perché fu un’esperienza decisamente stupida, a partire dalla sosta non chiodata per continuare con la mancanza di protezioni intermedie, e che invito i giovani a non ripetere, ma allora si andava su così, con criteri di sicurezza che spesso si rivelavano vaghi o inesistenti).

La terza volta fu molti anni più tardi, sulla Via delle Guide alla Torre di Valgrande, in Civetta. Ma mentre alle Mésules fui sorpreso dalle difficoltà, quelle della Valgrande in definitiva me le ero andate a cercare di proposito, perché erano note e stranote, se non altro a partire dalla prima salita in libera di Heinz Mariacher e Luisa Iovane. Erano state proprio esse a suscitare la mia curiosità e fu così che mi trovai sul tratto chiave per capire che l’unico friend che mi ero portato dietro, per giunta comprato apposta, era troppo piccolo, inservibile. Iniziai a superare il passaggio guardando con ansia più in basso le protezioni originali: vetuste, gloriose e totalmente psicologiche. Passai con terrore. Ma non con tremore, semplicemente perché quello non me lo potevo permettere se non volevo cadere. Alessandro Gogna in Sentieri Verticali scrive che per fare quel passaggio ci vogliono “forza, determinazione e coraggio”. Ma devo fare una correzione a margine: quel passaggio, come nel mio caso, si fa anche se non si hanno né forza, né determinazione, né coraggio ma ormai si è sciaguratamente in ballo e l’istinto di conservazione non consente di prendere in considerazione né un’impossibile dearrampicata né una caduta. Bruno De Donà, la forte guida agordina, afferma che proprio per questo non si può dare un grado a quel tratto, ma che lì “si fa dell’estremo e basta”. Ma devo correggere anche lui perché io una valutazione personale l’ho data: è il precisissimo grado “Se lo sapevo non avrei venuto” (specialmente senza il friend giusto), come ripeteva nel romanzo La guerra dei bottoni il bambino emarginato dai compagni più grandi.

La fessura iniziale della misteriosa via Vinatzer-Peroso alle Mésules era dunque la seconda esperienza di quel tipo, cioè del tipo “sto morendo di paura – chi me l’ha fatta fare”. Ma, come dicevo, lì fui colto di sorpresa dalle difficoltà e non ne avevo molta colpa: il V+ di Egon Pracht (o Heinz Steinkötter) è infatti poi diventato VI/VI+ nella guida di Richard Goedeke (Dolomiten, Sella – Langkofel: Alpenvereinsführer “extrem”) e nella recente raccolta di Mauro Bernardi sulle arrampicate in Val Gardena, mentre è un VI nella guida del CAI-TCI di Fabio Favaretto e Andrea Zannini.

Dopo ancora qualche metro trovai finalmente un masso incastrato e con felicità e sollievo gli passai attorno un cordino. I motivi pro-mare svanirono dalla mente così com’erano apparsi e dopo una quarantina di metri di difficoltà minori giungemmo infine a una sorta di ballatoio sotto la parete terminale. Cercando a quel punto il facile, da lì salii per una fessura a destra con difficoltà modeste, buttando però più di un occhio interessato alla mia sinistra. Così qualche giorno dopo mi ricalai con mio padre al ballatoio e percorsi la parte superiore in modo più diretto per una parete che, seppur sprotetta, era veramente di V e IV+ e di roccia perfetta, l’ideale prosecuzione della Vinatzer-Riß della parte iniziale.

Tornato a Roma scrissi a Vinatzer. Innanzitutto gli inviavo uno schizzo del nostro percorso al Diedro Ovest del Ciavazes chiedendogli se avevamo seguito proprio la sua via, perché sulla Castiglioni c’era una descrizione sommaria e uno schizzo solo per modo di dire (l’itinerario è il 431 e, a pagina 376, e lo schizzo è il 24 alla pagina successiva).

Giovan Battista mi rispose gentilmente in poco tempo, informandomi, con delle note aggiunte al mio schizzo, che avevamo fatto la seconda ripetizione, alle spalle di un paio di ragazzi della sua valle. Ma si rammaricò che sia loro che noi all’ultimo tiro avessimo “pasticciato” (così scriveva) salendo verso destra invece di andare su dritti.

Non so i ragazzi gardenesi, ma io e il mio compagno avevamo avuto delle ragioni convincenti per farlo: quel giorno dalla cengia del Ciavazes dentro l’antro tra lo spigolo sud-ovest e la Terza Torre piombavano frigoriferi. Più volte sfiorati da scariche rabbrividenti, deviare infine in alto verso destra ci permise di essere parzialmente al riparo. Non so se è sempre così o perché il giorno prima aveva nevicato e stava sgelando.

Comunque sia è un buon quarto e quinto sostenuto, tutto da proteggere e in ambiente ben più tetro del gettonato diedro Vinatzer sulla parete sud-ovest. E’ vero, come mi scrisse Giovan Battista, che la via è logica, ma il mio consiglio è di rifarla solo se si hanno intendimenti filologici, altrimenti è molto meglio (e più sicuro) il diedro classico.

Nella lettera avevo poi chiesto a Vinatzer chi fosse quel signor Peroso col quale aveva fatto due vie sulle Mésules di così diversa difficoltà.

La risposta fu sorprendente:
a) Il signor Peroso era un cliente non particolarmente portato per l’arrampicata;
b) Con lui sulle Mésules aveva fatto solo la via facile e breve alla Torre Orientale mentre (e qui sta il bello) non sapeva assolutamente nulla dell’altra via, quella sulla Torre Occidentale: lui non l’aveva aperta e nemmeno sapeva chi l’avesse fatto. Anzi, nemmeno sapeva che esistesse.

Imbrigliato dalle mille cose della vita, non ho avvisato di questa risposta i compilatori della nuova guida del Sella del CAI e così è stato ripreso l’errore di attribuzione contenuto nella guida Pracht. Me ne dispiace. Comunque questa non è una correzione (di che cosa poi, in fondo?), ma un racconto di ricordi o al più una testimonianza di piccole cose di montagna.

Il piccolo giallo di Vinatzer ultima modifica: 2021-05-23T05:41:00+02:00 da GognaBlog

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4 pensieri su “Il piccolo giallo di Vinatzer”

  1. 1977. Azzardo giovanile, la meno prestigiosa  Del Torso.Tutto sommato  compiuta con calma e senza patemi. Al ritorno , con  passo Sella  deserto , dopo parecchio tempo e rassegnati a scendere camminando, un colpo di fortuna, ci forni’un passaggio un  serale transfrontaliero da Ortisei a Canazei.Era ansioso di dimostrare a qualcuno le prestazioni della sua nuova 128 rallye, allora si’ che in due amici di cordata provammo sui tornanti in discesa autentico terrore.

  2. Ho fatto quella che credevo la Vinatzer Peroso (seguendo la guida CAI TCI gruppo di sella) negli anni 80 e confermo che è una bellissima arrampicata, su roccia buona e proteggibile. Peccato che non sia di Vinatzer, credevo di aver messo a segno un’altra ripetizione delle vie del mitico,nessuna notizia in proposito?

  3. Bell’articolo, che prende in un’appassionante lettura. Bello il fil rouge di ripetere le vie di uno stesso alpinistista, come altri puntano a fare tuti gli itinerari con caratteristiche comuni (autore, ballata, montagna ecc). Intrigante il giallo della Torre Occidentale, la montagna è piena di misteri.

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