Massimo Ginesi ha 51 anni, va in montagna da 40, è stato istruttore di alpinismo del CAI per una quindicina d’anni e tecnico di soccorso e poi elisoccorso per quasi trentuno. Oggi dice d’essere solo uno che va in montagna. Nella vita, dal 1992 fa l’avvocato (si occupa essenzialmente di diritto immobiliare), collabora con il il Sole24ore e con diverse case editrici che si occupano di diritto e formazione e da quindici anni è Magistrato Onorario di Tribunale. Per undici anni ha fatto il vice procuratore della repubblica a Massa e da quattro anni ricopre il ruolo di giudice civile. Abita a La Spezia ed è particolarmente legato alle Alpi Apuane, anche se ha “giracchiato” un po’ per tutti i rilievi del paese.
La colpa, il diritto e l’Alpe… – parte 2
di Massimo Ginesi
(qualche riflessione di “filosofia alpina del diritto”)
per leggere la parte 1, vedi qui.
Abbiamo esaminato nella prima parte i principi generali della responsabilità, resta ora da vedere, sempre con un approccio per quanto possibile pratico, come quei principi trovino applicazione nel quotidiano girovagare per rocce e ghiaccio.
Conviene a tal proposito richiamare le ipotesi generali della colpa generica: ovvero una condotta imprudente (faccio ciò che non dovrei), imperita (faccio male ciò che dovrei saper far bene) o negligente (non faccio ciò che dovrei) oppure non si è attenuta a prescrizioni previste in leggi, regolamenti ordini o discipline.
E’ necessario anche far riferimento ad altri due concetti di rilievo: la posizione di garanzia e l’esigibilità.
Sono concetti più da corridoi forensi e toghe che da valli, colli alpini e ramponi, per cui fra breve proveremo a comprendere come debbano intendersi e che conseguenze comportino quando si cerca di individuare responsabilità nella pratica degli sport montani.
Vale però la pena osservare, per chi invece intende avere un approccio più tecnico-giuridico, che di recente sono uscite diverse pubblicazioni che affrontano con molta accuratezza il tema della responsabilità penale e civile nelle attività connesse all’ambiente montano (per esempio, AA.VV. La responsabilità civile e penale negli sport del turismo – Vol. I – collana la Montagna – Giappichelli, Torino, 2013).
Abbiamo già sottolineato la peculiarità dell’ambiente in cui si svolge l’attività alpinistica, uno di quei settori (fortunatamente) sino ad oggi sfuggito – se non per episodici, esecrabili e circoscritti fenomeni – ad una normativizzazione e codificazione delle condotte (di alcuni se ne è discusso anche qui sopra, https://gognablog.sherpa-gate.com/patentino-e-guida-alpina-obbligatori-in-abruzzo/).
Se ciò esclude per buona parte la riconducibilità a colpa specifica (ossia la violazione di norme di legge, regolamenti o usi), nella ordinaria attività non professionistica, lascia anche grandissimi interrogativi su quali confini dare a termini di negligenza, imperizia e imprudenza nella pratica di sport che si svolgono in ambienti e condizioni così peculiari.
A tali concetti si collegano, strettamente, i due presupposti che abbiamo evidenziato poco sopra ovvero l’esigibilità (cosa potevo pretendere da un determinato soggetto in una determinata situazione per non considerarlo colpevole e in base a quali parametri) e la posizione di garanzia – strettamente collegata al reato omissivo improprio previsto dall’art. 40 u.c. cod.pen. : “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” – che è riconosciuta a determinati soggetti (Stefania Rossi, Le posizioni di garanzia nell’esercizio degli sport di montagna, Diritto Penale Contemporaneo, 2013).
Chi arrivato sin qui stia per gettare la spugna per troppa giuridicità, consideri queste brevi premesse tecniche come un noioso zoccolo erboso per arrivare all’attacco. Lo zoccolo prevede ancora qualche fastidiosa e insidiosa roccetta giuridica e poi lo facciamo terminare: la Cassazione, anche di recente, ha affermato che “la responsabilità ex art. 40 c.p. “presuppone la titolarità di una posizione di garanzia nei confronti del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice violata, dalla quale deriva l’obbligo di attivarsi per la salvaguardia di quel bene; obbligo che si attualizza in ragione del perfezionarsi della c.d. situazione tipica. In presenza di tali condizioni la semplice inerzia assume significato di violazione dell’obbligo giuridico (di attivarsi per impedire l’evento) e l’esistenza di una relazione causale tra omissione ed evento apre il campo all’iscrizione penale, secondo la previsione dell’articolo 40 cpv. c.p.” Cassazione penale, sez. IV, sentenza 05/09/2013 n° 36399.
Tradotto dal linguaggio aulico e oscuro dei giudici, che significa tutto ciò per chi arrampica (a Finale Ligure come sulla Est delle Grandes Jorasses)?
Significa che in caso di incidente potremmo finire davanti a un giudice che dovrà valutare:
la mia condotta positiva, ovvero ho fatto qualcosa che ha direttamente influito sulla causazione dell’evento: ho fatto cadere sassi, ho dato corda in maniera inadeguata tirando giù il mio socio, ho tagliato il pendio e fatto cadere una valanga, ho piantato male un chiodo che si è tolto, ecc., ho messo una fila di viti in una cascata che si sbottonata integralmente al momento del volo (caso realmente accaduto);
la mia condotta omissiva, ovvero ho omesso qualcosa che invece avrei dovuto fare: non ho passato alcun chiodo sul tiro, quando il mio compagno è volato non ho messo mano al discensore con cui lo stavo assicurando ma sono rimasto inerte a guardarlo, non ho portato una pila che mi consentisse di rientrare al buio e nel vagare per tutta la cresta Kuffner al Mont Maudit nel tentativo di ritornare al Col de la Fourche il mio socio è assiderato, ecc.
La valutazione di quel Giudice dovrà poi tener conto delle caratteristiche professionali, dei titoli e della esperienza dei soggetti, delle natura della gita, del rapporto che si instaura fra i due, delle concrete condizioni in cui la vicenda si è verificata: in taluni casi la posizione di garanzia è in re ipsa ed è stringente poiché si fonda sull’affidamento di un soggetto ad altra figura preposta a svolgere un determinato compito (guida/cliente, Istruttore allievo, Maestro di Sci/allievo); in tali ipotesi oltre al fatto di reato e alla responsabilità extracontrattuale per fatto illecito può sommarsi anche la responsabilità contrattuale che nasce dal rapporto fra i due; in altre ipotesi la posizione di garanzia è più labile e tutta da verificare oppure non esiste affatto e – per tali ragioni – la situazione processuale può essere ancora più insidiosa (cordata liberamente formata ma con un compagno più esperto, due istruttori che vanno ad arrampicare insieme per diletto, gruppo di scialpinisti con un paio di componenti esperti che scelgono il percorso, ecc.).
E come fa un signore che veste tutto il giorno la toga, che passa due terzi della sua vita su uno scranno con scritto sopra alla testa “la legge è uguale per tutti” e che pensa che Peuterey sia una marca di abbigliamento e Rochers Gruber una marca di cioccolatini tedeschi a decidere se sono o meno colpevole – alla luce di quanto abbiamo appena detto – in caso di incidente in montagna?
Poiché è assai improbabile che ne abbia scienza propria (esistono pure giudici che sono valenti alpinisti), di solito chiede lumi. A chi? A un perito nel processo penale e a un Consulente Tecnico d’ufficio in sede civile, ovvero a qualche figura qualificata che gli esponga cosa si sarebbe dovuto fare e perché nel caso che è finito al suo esame. In tale ipotesi le parti possono nominare propri consulenti di parte che affiancano il consulente nominato dal giudice e lì, di solito, inizia il parapiglia, poiché mezzi che erano nati come forma di garanzia e di contraddittorio fra le parti – per le storture, la lentezza e la farraginosità sempre più marcata di questo paese – sono diventati leve di forza non sempre equilibrata all’interno del processo.
Non servirà dire che, solitamente, queste figure sono guide alpine, militari istruttori o tecnici del soccorso, ossia figure che hanno (ho dovrebbero avere) una lata competenza specifica e professionale della materia. E non servirà dire che, spesso, per le storture evidenziate, a seconda della parte assistita, i tecnici coinvolti suggeriranno soluzioni diametralmente opposte fra loro.
E’ evidente, da quanto sin qui detto, che è salubre – per quanto possibile – evitare di frequentare qualunque struttura burocratica di questo paese come gli ospedali e i tribunali (cosa che vi dirà qualunque medico o avvocato di buon senso), ma a volte non vi è proprio scelta e allora è utile comprenderne, almeno in maniera sommaria, i meccanismi.
Come si arriva dunque fin sotto la famosa (e ottimistica) scritta sulla legge e l’uguaglianza al fine di essere valutati per la propria condotta od omissione?
Dipende dai casi. Proviamo a esaminarli singolarmente.
La cordata o la sciata libera
E’ l’incidente che accade alla cordata o al gruppetto di sciatori (alpinisti o freerider) composto da appassionati, quando ci scappa il morto o il ferito grave, appartenente o meno al gruppo suddetto.
Si tratta di due ipotesi procedibili d’ufficio (ovvero l’autorità intervenuta farà un rapporto alla Procura della Repubblica, che dovrà valutare la sussistenza di reati in capo ai sopravvissuti) e in tali casi, a meno di evidenti e manifeste negligenze, il fatto viene ascritto dalla autorità a disgrazia. Il procuratore potrà eventualmente, ove gli agenti di polizia giudiziaria intervenuta abbiano ravvisato elementi che potrebbero dar luogo a colpevolezza (corde consumate, manovre azzardate, condotte omissive evidenti) incaricare un tecnico che valuti la condotta dei soggetti coinvolti per comprendere se sussistano quei requisiti di prudenza, perizia e diligenza che escludano la sussistenza della colpa.
Tali indagini diventano spesso più combattute quando a dare impulso al procedimento vengono coinvolte le persone offese dal reato, ovvero il danneggiato o gli eredi del soggetto che ha avuto la peggio, che hanno facoltà di intervenire nel procedimento adducendo ulteriori elementi di prova e di sollecitazione delle indagini, magari suffragati da un tecnico di parte.
Il dolore e il denaro sono, purtroppo, due fra i peggiori consiglieri dell’animo umano e spesso spingono a cercare nella giustizia umana una ragione e una consolazione per eventi difficili da accettare.
Va opportunamente sottolineato che, nel caso di soggetti che stanno liberamente svolgendo attività ludico ricreativa (alpinismo, arrampicata, sci, ecc.), il giudice dovrà attenersi ad una valutazione della condotta di costoro rapportandola a quella che si dovrebbe pretendere da un alpinista di media capacità, per arrivare a capire se qualcuno dei soggetti coinvolti è sceso sotto quella soglia e ha integrato gli estremi della imprudenza, imperizia o negligenza.
Chiederà quindi a un esperto che cosa è successo e cosa invece si sarebbe dovuto fare affinché l’evento non si verificasse. Non servirà spendere molte parole per comprendere che questo giudizio a posteriori, ma fatto con prognosi ex ante (così dicono i giuristi, ovvero il tecnico deve immaginarsi nella situazione concreta e- seppur a posteriori – deve esprimere una valutazione su cosa avrebbe dovuto prevedere e fare colui che si trovava di fronte a un determinato contesto), è spesso impossibile da rendere in vicende di montagna.
Le variabili in gioco (climatiche, emotive, tecniche) sono tali e tante che è assai improbabile che da quel giudizio esca una giustizia: un conto è stabilire mediante una consulenza quali sono le tegole più adatte a non far entrare acqua in un tetto o che misura dovevano avere i piloni per non far crollare il viadotto e un conto è stabilire cosa si doveva fare un certo venerdì alle ore 17.30 dopo dodici ore di arrampicata in mezzo alla bufera sulla Colton-McIntyre alle Grandes Jorasses.
Il caso della guida francese morta qualche anno fa insieme alla cliente poco sotto la vetta delle Grandes Jorasses lungo la normale dopo aver salito il Linceul è emblematico: la morte di entrambi ha evitato l’apertura del procedimento ma – posto che era plausibilmente ravvisabile una colpa della guida nell’aver scelto una finestra di sereno troppo breve sapendo di aver maltempo in arrivo già dalla sera – chi avrebbe poi potuto sindacare e decidere le scelte successive che hanno indotto i due a fermarsi al riparo di un sasso dove sono morti assiderati?
L’uomo (o l’alpinista) della strada risponderebbe al giudice e al CTU “vai, prova e poi dicci cosa avresti fatto tu”. E probabilmente non avrebbe, sotto il profilo pratico, etico e morale, neanche tutti torti.
Resta il fatto che il processo è una approssimazione che deve pervenire alla applicazione di un precetto sanzionatorio o alla emissione di una sentenza di condanna sulla base di una ricostruzione storico-fattuale in base a elementi acquisiti a posteriori e che, pertanto, deve basarsi su una serie di meccanismi istruttori che, per loro natura, non danno risultati esatti (tant’è che si sono spese infinite parole sulla verità processuale e la verità storica), che in molti casi sono ben lungi dal coincidere . I risultati sono ancor più imprevedibili e aleatori se si parla di accadimenti alpini, perché per quanto il perito nominato dal giudice sia saggio e conscio delle dinamiche delle diverse discipline, non potrà che trasferire una componente di ipoteticità e soggettività nella propria relazione per fattori che appaiono intuitivi a chiunque abbia frequentato la montagna in maniera meno che occasionale e che attengono alla scarsa riproducibilità di luoghi ambienti e situazioni in concreto accadute e ancor più variamente percepite.
Uno dei primi casi che arrivarono in Tribunale nei primissimi anni ‘80, per un incidente di questo tipo, accadde sul Pilone Centrale del Frêney dove due forti e giovani alpinisti si trovarono coinvolti in un incidente, in tempi ante telefonini; quello rimasto illeso lasciò il compagno a una sosta e scese a cercare soccorso che, purtroppo, arrivò tardi. I genitori dell’alpinista ferito e poi deceduto chiesero al giudice di valutare se la condotta del sopravvissuto era esente da responsabilità penale; il provvedimento dell’autorità giudiziaria fu nel senso di escludere ogni tipo di illeceità, alla luce del contesto, della assenza di nesso causale (se l’agente avesse posto in essere la condotta richiesta, l’evento sarebbe stato evitato?) e della situazione peculiare di grande complessità ambientale e tecnica. Ovvero il soggetto ferito sarebbe comunque probabilmente deceduto anche se il compagno fosse restato con lui e l’attesa dei soccorsi avrebbe pregiudicato anche le sue possibilità di salvezza né era esigibile, in quel contesto, una condotta diversa.
Sotto il profilo delle responsabilità, il caso del gruppo di liberi battitori – siano essi alpinisti, sciatori o climber – rappresenta l’ipotesi giuridicamente meno complessa, seppur suscettibile di infinite sfumature valutazione: il concetto di esigibilità dovrà essere valutato alla luce della esperienza dei soggetti coinvolti, della situazione concreta, del concorrere di situazioni di emergenza, della presenza di un leader di fatto della cordata (possiamo anche essere una cordata di libera formazione ma se – per mera ipotesi – il mio socio è Chris Sharma piuttosto che Ueli Steck – la valutazione del Giudice non potrà non tener conto di tutto ciò e di quello che era esigibile e medio per me e per loro). Il ragionamento vale, mutatis mutandis, anche per le altre discipline alpine.
Pensiamo alla grande tragedia del Frêney del 1961 che, per l’eccezionalità degli eventi (e, forse, anche per quell’aura di etica alpina cui si faceva riferimento nella prima parte) non condusse ad alcun procedimento, ma che può essere esemplificativa della fluidità delle valutazioni in questo campo: Walter Bonatti era all’epoca guida e valentissimo alpinista, Roberto Gallieni era abitualmente cliente di Bonatti seppur con un curriculum di grande valore e Andrea Oggioni era un fortissimo non professionista. Se un giudice volesse perdersi a comprendere chi doveva garantire chi e quali erano le condotte esigibili avrebbe da riflettere per tre vite…
La posizione tipica dell’affidamento – Guida, Maestro, Istruttore
La materia è sterminata e la trattazione sarà necessariamente sintetica e assai schematica. I puristi del diritto sono pregati di non scandalizzarsi.
I meccanismi di valutazione generali del nesso di causalità e di valutazione delle condotte – nel loro apporto alla verificazione del fatto – sono identici al caso che precede.
Cambiano tuttavia – totalmente – i parametri di valutazione del Giudice relativamente alla caratteristiche della esigibilità che devo ritenere esigibile dal professionista o dal titolato.
In tali casi “le fattispecie penali più frequentemente ascritte alla guida alpina, all’istruttore-accompagnatore CAI. e al capo gita (vale a dire omicidio colposo e lesioni colpose) si strutturano secondo il modello del reato omissivo improprio: l’addebito di responsabilità si sostanzia, infatti, nel non aver impedito un evento che si aveva l’obbligo giuridico di scongiurare. Ciò deriva dal fatto che nell’accompagnamento in montagna si rinviene un peculiare rapporto di “affidamento” tra accompagnato ed accompagnatore, che ingenera in quest’ultimo una posizione di garanzia rilevante ai sensi e per gli effetti dell’art. 40 c. 2 c.p. In realtà, sul punto, occorre distinguere tra accompagnamento professionale, esercitato notoriamente dalla guida alpina, e accompagnamento non professionale (associazionistico o volontario) che si manifesta in molteplici forme (accompagnatori/istruttori CAI qualificati, capogita, accompagnatore occasionale). Il principio di affidamento è, infatti, molto più marcato nel caso in cui l’accompagnamento venga svolto da una guida alpina o da un istruttore CAI ed è, per contro, sostanzialmente escluso se si tratta di un accompagnatore per amicizia o cortesia; diversamente, nel caso del capo gita, la quota di responsabilità che l’escursionista potrà dirottare sull’accompagnatore, pur sussistendo, sarà di gran lunga inferiore, poiché egli non ha a che fare con un garante professionista” (S. Rossi. op.cit.).
Che significa tutto ciò? Che nella valutazione della condotta del professionista il Giudice dovrà informarsi non già alla condotta esigibile dall’alpinista medio nello specifico contesto in cui è accaduto il fatto, ma alla miglior scienza ed esperienza del settore, secondo i principi della responsabilità professionale (principalmente elaborati dalla giurisprudenza con riferimento alla responsabilità medica).
In caso di evento dannoso (alla cordata, così come cagionato a terzi) si dovrà ritenere che al professionista o al titolato incombessero oneri specifici e precisi di prevedere dinamiche e condotte volte alla salvaguardia propria e dell’accompagnato, con una rapporto tipico di direzione in capo all’uno e di subordinazione in capo all’altro per quanto attiene alle scelte e alle iniziative, senza che – per questo – non residui in capo al cliente/allievo un obbligo di diligenza generica media.
In sostanza significa che per andare esenti da colpa la guida o l’istruttore dovranno dimostrare che hanno fatto tutto il possibile alla luce della situazione concreta, secondo lo stato della propria formazione professionale o tecnica, delle condizioni ambientali, dell’applicazione delle migliori scelte tecniche ed esperienziali con riferimento a quella casistica (ho scelto il Prusik o il Marchand, ho preferito scendere di conserva piuttosto che assicurato, ho fatto mettere il casco/ l’imbrago/ i ramponi al cliente/allievo, gli ho fato o meno metterei i coltelli oltre alle pelli di foca) per comprendere se in quella determinata situazione era da parte della guida evitabile e prevedibile quell’infortunio. In tal senso va osservato che le rare pronunce dei giudici sono assai rigide: con riferimento a un caso in cui la guida aveva condotto dei clienti a una gita di scialpinismo e costoro erano periti sotto una valanga la corte ha ritenuto assai rigidamente che era compito della guida prevedere il pericolo (per la natura del terreno ripido, scistoso e senza alberi e per le condizioni della neve): “La guida alpina ha l’obbligo di vigilanza sugli allievi, gli insegnanti sono tenuti a vigilare sull’incolumità degli allievi nel periodo in cui si esercitano sotto la loro guida (Cass. pen. sez.IV, 19 febbraio 1991; Trib. Torino, 28 maggio 1994)”.
Altra ipotesi più recente riguarda la guida condannata per omicidio colposo di un ragazzo morto lungo un torrente durante un’escursione organizzata, in cui il giudice ha ritenuto che la guida non avesse sufficientemente informato e vigilato sui propri accompagnati sì da prevenire eventuali comportamenti anche imprudenti o imperiti degli stessi (Cassazione, Sez. IV, sentenza 24 marzo 2003, n. 13323).
In tali ipotesi gioca un ruolo fondamentale l’affidamento e la competenza tecnica attestata dalla qualifica del soggetto agente: altro caso arrivato nelle aule di giustizia riguarda l’ipotesi di un istruttore che, lungo un tiro in forte diagonale, aveva passato solo due rinvii, facendo salire i due allievi contemporaneamente a pochi metri di distanza l’uno dall’altro (uno dei quali senza casco), i quali sono volati a metà tiro riportando l’uno la morte e l’altro gravi lesioni.
Se per le guide alpine quanto sin qui rappresentato ritengo costituisca pane quotidiano di riflessione, forse coloro che svolgono ruolo da istruttore non sempre hanno ben chiare le responsabilità che assumono e i guai grossissimi che rischiano quando si avventurano per montagne e falesie nelle allegre brigate dei corsi. Per la mia personale esperienza (da istruttore di alpinismo e tecnico di elisoccorso durata molti anni e oggi felicemente conclusa) non posso che far proprio il motto di un caro amico guida e fortissimo alpinista “in fondo in rapporto alle porcherie che si vedono fare per monti si verificano davvero pochissimi incidenti” (e potremmo aggiungere – per maggior fortuna – ancor meno processi…).
Ometto di affrontare tutte le problematiche, che pure sono state sviscerate dalla giurisprudenza, sull’esercizio di attività pericolosa, sulla responsabilità contrattuale nel rapporto negoziale fra guida/cliente e istruttore/scuola/allievo e quelle relative alla responsabilità penale per esercizio abusivo della professione contestata a due istruttori che accompagnavano allievi perché ci porterebbero troppo lontano e complicherebbero vieppiù l’esposizione.
Resta ancora da sottolineare che l’affidamento è presunto ove la prestazione titolata si svolga in maniera istituzionale (ossia si tratti di rapporto guida/cliente o istruttore/allievo che originano da contratto), mentre non sussiste necessariamente invece ove la gita o la salita si svolga tra persone che annoverano anche esperti non titolati: anche se c’è l’amico bravo che decide dove passare o guida il gruppo, costui non assume automaticamente una posizione di garanzia nei confronti degli accompagnati. In un caso, arrivato alle aule di giustizia, un gruppo di scialpinisti è rimasto travolto da una valanga e il giudice è chiamato a verificare sia la responsabilità penale per omicidio colposo di colui che ha staccato con la propria condotta imprudente (attraversamento del pendio) la valanga sia la concorrente responsabilità omissiva dell’esperto e anziano del gruppo che si ipotizzava – in virtù di tali caratteristiche – avesse assunto un obbligo di protezione e garanzia nei confronti degli altri e, per tale ragione, ne era stato chiesto dalla procura il rinvio a giudizio.
Si è già accennato che un accadimento può anche derivare da una serie di concause e, quindi, possono anche essere diversi i soggetti responsabili e le cui distinte condotte concorrono alla causazione dell’evento (nel caso di specie, secondo la ricostruzione della procura, aveva contribuito alla morte dei travolti dalla massa nevosa sia la condotta di colui che ne aveva materialmente causato il distacco sia quella omissiva di colui che non aveva previsto – in virtù delle sue conoscenze ed esperienza – la possibilità che si verificasse tale distacco passando in quel luogo). In tale ipotesi il giudice, mentre ha ritenuto sussistente la responsabilità dello scialpinista che ha concretamente staccato la valanga, ha ritenuto che non sussistesse posizione di garanzia del componente esperto poiché “per l’assunzione di una posizione di garanzia, non basta essere il più esperto di un gruppo di escursionisti. È necessario che il soggetto abbia assunto, anche tacitamente, l’incarico di guidare il gruppo, mettendo a disposizione le sue conoscenze e le sue capacità, e che i componenti del gruppo, trovandosi in una situazione di inesperienza e di incapacità rispetto all’attività intrapresa, abbiano deciso di svolgere quell’attività proprio per la presenza di una persona capace al loro fianco, cui si sono affidati, conferendogli poteri di guida, cura e direzione” (Giudice Udienza Preliminare Tribunale di Sondrio, 10 marzo 2005): nel caso di specie si era concretamente accertato che ciò non fosse accaduto.
Vi sono ancora ipotesi in cui invece l’affidamento e la protezione del soggetto sono assoluti e vi è una presunzione totale di responsabilità del soggetto affidatario, come nell’accompagnamento di minori. Più volte i giudici hanno motivato le loro condanne facendo riferimento alla norma che prevede in capo al genitore, o all’insegnante per il periodo in cui il minore gli è affidato, la totale responsabilità per i danni cagionati dal minore stesso salvo che si provi di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno (art. 2048 cod.civ.: Il padre e la madre, o il tutore sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi. La stessa disposizione si applica all’affiliante. I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto).
Nell’ambito della montagna tale disposizione è stata applicata spesso dai giudici alla disciplina dello sci, ove in capo al maestro che accompagna ragazzini quel non aver potuto impedire l’evento è stato inteso come un preciso dovere di controllare tutto ciò che non si può pretendere che un minore arrivi a verificare da sé, per quanto sia bravo ed esperto nella disciplina (Trib. Trento, Sez. distaccata Tione, 15 giugno 2001, n. 52: Laddove l’allievo è un soggetto minore occorre ricordare che vi sono ulteriori importanti regole di condotta che devono essere rispettate dal maestro: egli in particolare deve controllare personalmente i sistemi di sicurezza, la corretta taratura degli attacchi, la lunghezza degli sci e quella dei bastoncini; deve, poi, fornire una corretta informazione al genitore sul tipo di lezione che intende svolgere e sulle difficoltà del tracciato, anche in relazione alle condizioni atmosferiche della giornata).
Non sarà difficile trasferire i parametri espressi dal giudice trentino per lo sci al mondo dell’arrampicata e verificare quale e quanta attenzione richieda l’accompagnamento di minori ad arrampicare, sia che si rivesta la qualifica di guida, di istruttore o di semplice appassionato e quale configurazione stringente assumano i meccanismi della colpa in tali ipotesi. Meccanismi che attengono alla responsabilità penale e civile sia per i danni che il minore può subire (è ancora fresca una tragedia di cui si è discusso anche in questo blog e che non analizzeremo per rispetto di tutte le parti coinvolte e della vicenda giudiziaria ancora in corso) sia per quelli che – durante lo svolgimento della attività – il minore può cagionare a terzi (si pensi al ragazzino che ferisce altri perché si cala male da una sosta e urta l’arrampicatore sul tiro vicino, piuttosto che il minore che indossa male l’imbragatura o che – spiccozzando su per una cascata – provochi danno ad un altro iceclimber per uso improprio degli attrezzi: in tali casi l’accompagnatore potrà liberarsi dalla responsabilità per colpa solo dimostrando che quegli eventi travalicano non solo dalla sua possibilità di intervento concreto al momento del fatto ma anche dalla sua capacità di previsione).
Conclusione
Quanto sin qui esposto rappresenta solo una carrellata, veloce, superficiale e incompleta, delle mille sfaccettature che possiamo trovarci ad affrontare in montagna quando pretendiamo di definire il concetto di colpa e di delineare i confini nei quali inscriverla.
Tuttavia conoscere un poco le possibili evoluzioni patologiche delle situazioni, lungi dall’allontanarci dalla pratica delle attività, deve essere di stimolo a svolgerle con maggior accortezza e consapevolezza.
E il confronto su temi così delicati, che spesso giungono all’esame di soggetti che poco o nulla conoscono il mondo della montagna, può aiutare a creare una maggior consapevolezza e un più attento uso della giustizia sia in chi è chiamato ad applicare la legge che in coloro che – in tali compiti – forniscono ausilio come periti e consulenti.
Restano da esaminare ancora molti aspetti, a esempio l’emergente problema del deterioramento delle attrezzature delle falesie e le responsabilità connesse, la figura del chiodatore professionista e l’infinito e complesso mondo delle responsabilità nell’ambito del soccorso, che potranno eventualmente essere oggetto di futura trattazione.
NdR: sul medesimo argomento si può consultare anche il saggio dell’avv. Daniela Messina.
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Salve, scrivo qui in cerca di consiglio: vorremmo creare una associazione che organizza gite in montagna. Tutto gratis ovviamente, siamo un pò di amici che vanno in montagna (no alpinismo), e visto che il giro si sta allargando volevamo tutelarci con una assicurazione. Se facessimo questo passo formale saremmo obbligati a dotarci di accompagnatori titolati, pena il non venire coperti in caso di incidenti e addirittura citati in giudizio dalla compagnia assicurariva? Grazie mille
Mi hanno fatto notare alcuni attenti lettori che, nell’esaminare il concetto di procedibilità, ho utilizzato un esempio astratto per far comprendere quando lo stato si attiva in proprio a fronte di un reato e quando è invece necessario l’impulso della persona offesa.
Il passaggio è questo “Vi sono valori che il nostro ordinamento considera di rilevanza pubblica e che tutela anche contro e oltre la disponibilità del soggetto interessato. Così è per la vita e l’integrità personale, che sono considerati beni essenziali per il sussistere di un complesso sociale organizzato (quale dovrebbe essere uno Stato…) e che quindi sono protetti dalla norma penale, che punisce chiunque leda quei beni. Quindi arrecare una ferita o uccidere qualcuno è considerato reato, a prescindere dal consenso del soggetto che li subisce, e comporta che chi li ha cagionati venga sottoposto a processo per stabilire se gli siano rimproverabili e – in caso affermativo – irrogargli una sanzione pubblica (ovvero una pena detentiva o una pena pecuniaria: quello è, in concreto, la condanna penale). Ecco perché è punito l’omicidio del consenziente ed ecco perché nei casi più gravi lo stato procede d’ufficio (cioè la Procura della Repubblica si attiva autonomamente e senza necessità di alcuna richiesta dell’interessato, quando riceve la notizia di un fatto che comporta la morte o lesioni gravi, per valutare se vi sia un responsabile e mandarlo a processo). Nei casi più lievi (ovvero reati ritenuti di minor disvalore sociale, ad esempio le lesioni lievi) la decisione se attivare la sanzione pubblica è lasciata al soggetto leso, che potrà decidere se vuole dare impulso al procedimento penale, sporgendo querela nei confronti del responsabile, oppure se intende solo vedersi risarcito in sede civile.”
Ho utilizzato l’esempio delle lesioni poiché è paradigmatico sulla procedibilità, dando tuttavia per scontato che il lettore avesse chiaro che tale perseguibilità si applica alle lesioni dolose, mentre quelle colpose – quale che sia entità del danno arrecato – sono sempre procedibili a querela di parte (salvo casi specifici quali l’inosservanza di norme sulla sicurezza del lavoro, che non ci interessano e che potrebbero forse – trovare applicazione solo nell’ipotesi di operazione di soccorso ove sia rimproverabile al tecnico quale omissione specifica).
In pratica: se do un cazzotto a qualcuno lo stato valuterà quanto è durata la sua malattia e ove abbia superato determinati limiti procederà d’ufficio, se invece gli ho amputato un braccio per una errata manovra con gli sci dovrà sempre essere il soggetto leso a chiedere che alla procura della repubblica – mediante querela – che si proceda nei mie confronti (anche se è plausibile che a fronte di lesioni importanti la procura apra comunque un fascicolo salvo poi archiviare in assenza di querela e una volta accertato il difetto dell’elemento soggettivo volontario). .
Rendere commestibili anche al non tecnico faccende complesse di diritto può essere comodo e piacevole ma non è sempre semplice, specie parlando di categorie astratte e generali.
Se qualcuno è rimasto spiazzato me ne scuso, spero che quanto esposto abbia fatto chiarezza.
“mi domando quale sia stata la molla che ad un certo punto ha fatto scattare la necessità di cercare sempre e comunque un responsabile,”
forse perchè oggi viviamo sempre di più in una società preconfezionata che ci vuole vedere inquadrati in schemi ben definiti. Che ci vuole controllare e imporre sempre e comunque quello che dobbiamo fare e come lo dobbiamo fare e non quello che possiamo e/o vogliamo fare.
La libertà dell’individuo è sempre più minata da questa società che sta portanto all’esasperazione questa presunta sicurezza, con controlli sugli individui sempre più pressanti e responsabilità sempre più maggiori, tanto che prima di muovere un dito ci vorrebbe l’avvocato.
Il tutto come se tutti noi dovessimo essere degli immortali.
Ringrazio Massimo Ginesi per i due articoli pubblicati che fornisono un importante contributo al fine di meglio comprendere il problema.
Ciò su cui mi piacerebbe a questo punto sviluppare una riflessione sono gli aspetti antropologici della questione. Dico questo perché il diritto rientra a pieno titolo in una simile riflessione. Le leggi, i regolamenti e la giurisprudenza hanno un peso sulle sentenze ma anche gli usi ed i costumi hanno una loro rilevanza, di minore impatto, indiretta, ma comunque rilevante. Le valutazioni di un perito risentono inevitabilmente del suo modo d’intendere la progressione in montagna e, pertanto, pur ritenendo che costui abbia tutte le competenze necessarie e la giusta sensibilità e serenità d’animo e di giudizio, leggendo certi commenti che appaiono sovente su questo blog non mi sento poi del tutto tranquillo.
Arrivo al nocciolo della questione. Ci sarà stato un momento storico in cui si è passati dalla morte di un alpinista/escursionista per fatalità (es. forse banale ed improprio, il sasso fatto cadere da un altro alpinista/escursionista) alla morte per colpa. Cioè, per dirla in parole più semplici, ci sarà stato un momento in cui la fatalità si è tramutata in colpa.
Perché fino a un certo momento storico si è parlato di fatalità, forse anche troppo, e da un certo momento in poi si è cominciato a parlare, e forse fin troppo, di colpa? Un determinato incidente occorso negli anni 50-60 veniva probabilmente considerato fatalità, lo stesso incidente occorso oggi verrebbe probabilmente considerato colpa, ed ancorché non lo fosse ci si impelagherebbe comunque in un serial giuridico che porterebbe ad una sentenza, favorevole o sfavorevole a seconda della parte da cui la si guardi, ma che comunque darebbe origini a percorsi lunghi, forse tortuosi e dispendiosi.
Pertanto, lungi dal considerare inappropriata tout court la ricerca della verità e, in ultima analisi, della colpevolezza o meno, mi domando quale sia stata la molla che ad un certo punto ha fatto scattare la necessità di cercare sempre e comunque un responsabile, per arrivare magari alla fine del percorso senza averlo trovato, ma dopo aver cercato in tutte le maniere di dimostrare a volte anche l’impossibile, con tutto quanto ne consegue.
Tralasciando le situazioni in cui sono coinvolti le guide e gli istruttori dove, ahimé, lo spazio per queste riflessioni trova meno spazio per ragioni ben comprensibili, bisognerebbe riflettere sulle seguenti parole di Ginesi “Il dolore e il denaro sono, purtroppo, due fra i peggiori consiglieri dell’animo umano e spesso spingono a cercare nella giustizia umana una ragione e una consolazione per eventi difficili da accettare”.
Il punto della questione è che decenni fa questi eventi si accettavano, oggi non più. Non so quanto senso possa avere intavolare una discussione su tutto ciò però non si sa mai, da cosa nasce cosa e forse potrebbe non essere poi così male perché il diritto viene per forza di cose influenzato dalla società civile, sia direttamente, le leggi che vengono emanate da chi votiamo (le quali, anche solo per ottenere dei voti, risentono del modo di pensare della società), sia indirettamente, attraverso l’espressione della società stessa che fa sentire in vari modi la propria voce.
Che dire se non GRAZIE per averci aperto la porta di questo mondo con un linguaggio ed esempi comprensibili anche ai non addetti ai lavori. Un articolo da leggere con cura e far leggere a chi intende avvicinarsi al mondo del volontariato istituzionalizzato poiché mi sembra che sia finita l’epoca della solidarietà.
Penso che molti abbiano fatto il mio stesso ragionamento: ho imparato a frequentare la montagna in modo consapevole grazie al CAI ed ho ritenuto giusto trasferire le conoscenza acquisite ad altri che si avvicinano e vogliono frequentarla a sua volta in modo rispettoso e con cognizione, quindi mi ha sempre animato uno spirito molto romantico e leggiadro, ai giorni d’oggi mi sembra che ciò non sia più possibile.