Lasciateli giocare è il titolo di un bellissimo articolo pubblicato su Internazionale n° 1031, 20-26 dicembre 2013, a firma di Peter Gray, uno psicologo evoluzionista e ricercatore del Boston college.
Partendo dall’osservazione che oggi i bambini hanno sempre meno tempo per giocare tra di loro, più che altro perché sia la vita a scuola che quella del tempo libero in realtà sono sempre più organizzate dagli adulti, Grey arriva a concludere che solo giocando i bambini possano raggiungere quelle capacità “sociali” che gli serviranno da grandi. Grey insiste sull’ascolto degli altri, sulla creatività, sulla gestione delle emozioni e sull’affrontare i pericoli.
All’inizio del secolo il lavoro minorile era diminuito, quindi i bambini avevano più tempo libero. Howard Chudacoff definisce la prima metà del novecento “l’epoca d’oro” dei giochi infantili. Poco a poco però, a partire dagli anni sessanta, gli adulti li hanno privati di quella libertà aumentando il tempo dedicato allo studio ma, soprattutto, riducendo il tempo in cui possono giocare da soli, anche quando non sono a scuola e non devono fare i compiti. Gli sport organizzati dagli adulti hanno cominciato a sostituire quelli improvvisati e le attività extrascolastiche hanno preso il posto degli hobby. finoltre, le paure degli adulti hanno spinto sempre più genitori a proibire ai figli di uscire da soli a giocare con gli altri ragazzi.
Il gioco istintivo sugli alberi
Contemporaneamente, sempre in riferimento agli USA, sono aumentati a dismisura ansia e depressione infantili. E, nello stesso arco di tempo, la percentuale di suicidi tra i giovani tra i 15 e i 24 anni è più che raddoppiata, e quella tra i ragazzi con meno di quindici anni è quadruplicata.
Le minori opportunità di gioco sono state accompagnate da una diminuzione dell’empatia e da un aumento del narcisismo. Per empatia s’intende la capacità e la tendenza a vedere le cose dal punto di vista di un’altra persona e a capire quello che prova; per narcisismo un’eccessiva concezione di sé accompagnata dal disinteresse per gli altri e dall’incapacità di stabilire rapporti emotivi.
I bambini non possono acquisire queste competenze sociali e questi valori a scuola, perché l’ambiente scolastico è autoritario e non democratico.
Poi Gray osserva: Tutti i piccoli dei mammiferi giocano. Perché sprecano energie e corrono dei rischi per giocare, quando potrebbero starsene tranquilli e al sicuro nella loro tana?
Il filosofo e naturalista tedesco Karl Groos. In un libro intitolato Die Spiele der Tiere (I giochi degli animali, 1896), Groos sosteneva che il gioco è nato per selezione naturale come mezzo per permettere agli animali di esercitare le abilità necessarie a sopravvivere e riprodursi.
In effetti è vero che gli animali giovani giocano più di quelli adulti (hanno più da imparare). Lo stesso Groos pubblicò un secondo libro, Die Spiele der Menschen (I giochi degli uomini, 1899), in cui estendeva le sue intuizioni agli esseri umani e osservava che, avendo molto più da imparare, sono la specie che gioca di più.
Secondo Groos, negli esseri umani la selezione naturale ha favorito una forte tendenza dei bambini a osservare le attività degli adulti e a inserirle nei loro giochi.
A questo punto Gray inserisce il concetto di cacciatore-raccoglitore.
Prima dello sviluppo dell’agricoltura, circa diecimila anni fa, eravamo tutti cacciatori-raccoglitori. I popoli che ancora oggi si basano su questa qualità non hanno niente che somigli alla nostra scuola. Gli adulti pensano che i bambini imparino osservando, esplorando e giocando, e quindi gli concedono un tempo illimitato per farlo.
Il gioco dei bimbi indios, Mato Grosso
“I maschi giocavano a inseguirsi e a cacciare, e sia i maschi sia le femmine giocavano a cercare e raccogliere radici commestibili. Si arrampicavano sugli alberi, cucinavano, costruivano capanne e altri oggetti importanti per la loro cultura, come le canoe scavate nei tronchi.
Giocavano a discutere tra loro, a volte imitando i grandi o provando a ragionare meglio di quanto avessero fatto gli adulti la sera prima intorno al fuoco. Ballavano e cantavano le canzoni tradizionali, ma ne inventavano anche di nuove. Fabbricavano e suonavano strumenti musicali simili a quelli degli adulti del loro gruppo. Perino i bambini piccoli giocavano con oggetti pericolosi come i coltelli e il fuoco, e gli adulti glielo permettevano perché “altrimenti come avrebbero fatto a imparare a usarli?”.
Il gioco regolamentato dagli adulti
In un’altra ricerca Gray ha studiato il modo in cui imparano i bambini in una scuola alternativa, la Sudbury valley school, Massachusetts. Gli studenti, che vanno dai quattro ai diciannove anni, sono liberi di fare ciò che vogliono per tutto il giorno a condizione che rispettino tutte le regole dell’istituto. Agli occhi della maggior parte delle persone sembra una follia. Come fanno gli alunni a imparare? Eppure la scuola esiste da 45 anni e l’hanno frequentata centinaia di studenti che nel mondo reale se la cavano benissimo, non perché la scuola gli abbia insegnato qualcosa, ma perché gli ha permesso d’imparare quello che volevano.
“Mentre giocano, gli studenti di questa scuola imparano a leggere, a far di conto e a usare i computer con lo stesso festoso entusiasmo con cui i bambini cacciatori-raccoglitori imparano a cacciare e a raccogliere”.
Non pensano di apprendere: pensano solo che stanno giocando o “facendo delle cose”, ma nel frattempo imparano.
I bambini imparano ad assumersi la responsabilità di se stessi e della comunità, capiscono che la vita è divertente, perfino (o forse soprattutto) quando ti impone di fare qualcosa di difficile. Insomma, la scuola cerca di sfruttare al massimo le capacità dei bambini di autoeducarsi. Ci sono tutte le opportunità di giocare con gli strumenti della cultura e di entrare in contatto con una varietà di adulti attenti e preparati, che li aiutano e non li giudicano. E permettono ai bambini di mescolarsi con gli adolescenti (giocando con persone di età diverse s’impara di più che giocando con persone della stessa età).
Gray non si aspetta di convincere tutti che da un momento all’altro dovremmo abolire le scuole così come sono ora e sostituirle con centri dov’è possibile esplorare e giocare liberamente. Ma spera di convincere parecchie persone che giocare fuori dalla scuola è importante.
Per ciò che riguarda la creatività, Gray c’informa sui cosiddetti Torrance tests of creative thinking (TTCT), riportati da campioni normativi di studenti statunitensi dall’asilo all’ultima classe delle superiori (17-18 anni) negli ultimi decenni. Secondo Kyung-hee Kim, una psicologa dell’educazione del College of William and Mary in Virginia, i dati indicano che “i ragazzi esternano meno le loro emozioni, sono meno energici, meno loquaci e in grado di esprimersi oralmente, meno spiritosi, meno fantasiosi, meno anticonformisti, meno vivaci e appassionati, meno intuitivi, meno capaci di collegare tra loro cose apparentemente non pertinenti, di sintetizzare e di vedere le cose da un’angolatura diversa”. Secondo questa ricerca, c’è stato un calo di tutti gli aspetti della creatività, ma soprattutto di un parametro chiamato “elaborazione creativa” che valuta la capacità di prendere una particolare idea e di svilupparla in modo nuovo e interessante.
Tra il 1984 e il 2008 il punteggio medio sull’elaborazione riportato nei TTCT, a tutti i livelli di età, è sceso in modo drastico: cioè nel 2008 oltre l’85 per cento dei ragazzi ha riportato un punteggio più basso della media del 1984.
Albert Einstein, che a quanto sembra odiava la scuola, chiamava le sue scoperte nel campo della fisica teorica e della matematica “giochi combinatori”. Probabilmente incentivare la creatività premiando le persone o stimolando la competitività ottiene l’effetto opposto: è difficile essere creativi quando si è preoccupati del giudizio altrui. A scuola le attività dei bambini sono continuamente giudicate: per questo è il posto meno adatto per esercitare la creatività.
Oggi i bambini sono così occupati a fare i compiti o sono così impegnati in altre attività decise dagli adulti che di rado hanno il tempo o l’opportunità di scoprire e d’immergersi completamente in attività che li divertono sul serio e gli insegnano a stare in gruppo.
Gioco spontaneo nell’Oetztal (Tirolo)
Il gioco di gruppo implica una serie di contrattazioni e compromessi. Se Gina è una prepotente che vuole stabilire le regole e ordinare agli altri cosa devono fare, i compagni la lasceranno sola e andranno a giocare da un’altra parte. Questo sarà un incentivo a fare più attenzione agli altri la prossima volta. Ma anche i compagni che se ne sono andati hanno imparato qualcosa: se vogliono giocare con Gina, perché ha alcune qualità che apprezzano, in futuro dovranno essere più chiari nell’esprimere i loro desideri così lei non cercherà di stabilire le regole e guastare il divertimento a tutti.
La regola aurea del gioco di gruppo non è “non fare agli altri quello che non vorresti facessero a te”, ma “fai agli altri quello che vorrebbero che tu facessi a loro”. Per questo bisogna mettersi nei panni altrui e vedere le cose dal loro punto di vista. Nei giochi di gruppo i bambini lo fanno sempre. Nel gioco l’uguaglianza non significa uniformità, ma rispetto delle differenze e attribuzione della stessa importanza ai bisogni e ai desideri di tutti.
Gli antropologi sostengono che, nei gruppi di cacciatori- raccoglitori, la prevaricazione e la prepotenza quasi non esistono. In effetti le loro società vengono spesso definite egualitarie: i gruppi non hanno né capi né una struttura gerarchica, condividono tutto, collaborano tra loro per sopravvivere e prendono le decisioni che riguardano la comunità dopo lunghe discussioni per raggiungere un accordo.
“Il gioco insegna le abilità sociali senza cui la vita sarebbe insopportabile. Ma insegna anche a controllare emozioni negative forti, come la paura e la rabbia. Gli etologi che studiano i giochi degli animali sostengono che uno dei loro scopi principali è aiutare i piccoli a gestire emotivamente (oltre che fisicamente) le situazioni di emergenza.
Quando giocano, i giovani mammiferi di molte specie si mettono più volte e di proposito in situazioni moderatamente pericolose.
A seconda della specie, balzano in aria in modo goffo per rendere difficile l’atterraggio, corrono lungo il bordo dei precipizi, saltano da un ramo all’altro a un’altezza tale che, se cadessero, si farebbero male o giocano alla lotta in modo da mettersi a turno in una posizione di svantaggio alla quale devono sottrarsi”.
E qui arriviamo al tema educativo sicurezza-rischio.
“Anche i bambini, quando sono liberi, fanno la stessa cosa, facendo innervosire le mamme. Si drogano di paura fino a raggiungere la dose più alta che riescono a tollerare e imparano a gestirla. Questo tipo di giochi dev’essere spontaneo e non incoraggiato da una figura che ha l’autorità. È crudele costringere i bambini a provare paure alle quali non sono preparati, come fanno gli insegnanti di educazione fisica quando chiedono a tutti gli alunni di una classe di arrampicarsi su una pertica o di saltare il cavallo. Così possono provocare panico, imbarazzo e vergogna, sentimenti che riducono la tolleranza alla paura.
Giocando i bambini sperimentano anche la rabbia, che può nascere da una spinta accidentale o voluta, da una presa in giro o dal non aver avuto la meglio in una discussione.
Ma chi vuole continuare a giocare sa che deve controllare la rabbia e usarla in modo costruttivo. Gli scatti d’ira possono funzionare con i genitori, ma non con i compagni.
È dimostrato che anche i giovani di altre specie imparano a controllare la rabbia e l’aggressività con i giochi di gruppo.
Quando giocano, i bambini decidono e risolvono i problemi da soli: negli ambienti controllati dagli adulti sono deboli e vulnerabili; nel gioco sono forti e potenti. Il mondo dei giochi è la palestra per imparare a diventare adulti. Per un bambino giocare significa provare a essere controllato e responsabile.
Togliendo il gioco, priviamo i bambini della possibilità di esercitarsi a essere adulti e creiamo persone che per tutta la vita si sentiranno vittime e dipendenti, con la sensazione di un’autorità che gli dice cosa fare e risolve i problemi al posto loro”.
Non è un modo sano di vivere.
postato il 26 aprile 2014
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Caro Alessandro,
non ci conosciamo (a parte il nome in comune…) ma apprezzo molto la tua segnalazione e commento all’articolo della rivista Internazionale “LASCIATELI GIOCARE”!
Immagino (forse spero…) che tu abbia trovato l’articolo-ricerca dalla mia citazione all’interno dell’articolo che hai voluto postare sul tuo blog lo scorso 8 aprile, sul tema della “educazione al rischio”, riportando gentilmente quanto apparso a mia firma il 25 marzo su L’Adige di Trento.
Si tratta effettivamente di temi di assoluto interesse che sotterraneamente si trovano nei mass media e che solo a volte emergono e si possono così apprezzare (spesso a seguito di notizie di cronaca nera…, vedi l’esempio dell’indagine del PM Guariniello di Torino sull’incidente in montagna, credo accaduto in Val d’Aosta, anch’esso presente nel tuo interessante blog).
Volevo segnalare con l’occasione che Guariniello, appunto, sarà a Bolzano il prossimo 29 maggio per un seminario /conferenza sul tema della sicurezza sui luoghi di lavoro (vedi http://www.qsaservizi.com/site/news/2014/Maggio/1-Guariniello): l’argomento è ovviamente diverso ma affine, per certi aspetti e comunque merita forse sentire il PM per come intenda affrontare queste questioni trasversali.
In ogni caso l’educazione, oggi, come ha ben spiegato l’articolo e la ricerca “Lasciateli giocare!” deve essere maggiormente considerato da chi ha competenze e responsabilità educative a ogni livello: anche il mondo della montagna e dell’avventura (come nel mio caso quello dello scoutismo) può dare il proprio piccolo ma utile contributo.
Grazie Alessandro per il tuo!