Prodotto montagna (Salva nos ab ore leonis) di Carlo Bonardi (BS)
Riprendo il cammino da “Il diritto va in montagna” (La Rivista del CAI settembre-ottobre 2010), esponendo su quanto nell’attuale è per me determinante: la mercatizzazione, o – amabilmente – valorizzazione della montagna, il “prodotto”.
Infatti, il diritto è strumento al servizio di fini, dunque li segue; ma a muovere è stato il mercato, ed è per regolarlo che adesso le norme usano quei termini ed istituti (e contigui: impresa, competitività, ecc.).
Già in passato la montagna è stata sfruttata (ciò forse sfugge, perché non l’abbiamo vissuto, ma si capisce osservando sentieri o manufatti antichi, o leggendo); ora però parrebbe esservi stato un mutamento di paradigma, che emerge dai fatti materiali.
Nuove realizzazioni (anche futuribili: servendo “crescita”, vada a 4.000 mt il Piccolo Cervino, mediante torre di negozi e ristoranti); acquisizione di rocce prima ignorate (o, meglio, “recuperando” quelle già buone); ammenicoli (mappe 3D per sentieri, promosse tramite scuole); quads, slitte a cani/cavalli/motore, biciclette, su sentieri; ferrate, ponti tibetani, carrucole, salti con fune, gli attrezzi li affittano; “eventi” collettivi (ciaspolate, concerti, vista di cascate a comando); gare; musei; balli; canti; luminarie; eno-gastronomie da rifugio (“gusto” e “sapori” traboccano dai giornali, slurp!); mercati-ni (teneri…); giochi di bimbi; l’improbabile (destagionalizzeranno il sole d’Agosto). Di giorno e di notte.
Più del diritto, hanno servito la scienza (psicologia + comunicazione/marketing, metrica, statistica, istruzioni, faccia di bronzo) e la tecnica, coi correlati: martellamenti in neolingua aziendal/sloganistica/un-po’-English (seguono esempi), su idee pensate, fatte incubare e piazzate, finché durano, evolvono o si estinguono; pubblicità (ricorrono “magico” e “mozzafiato”); immagine (fitness, sex, smile, winner. Sulle Dolomiti Patrimonio dell’Umanità, approdano brand, fashion, glamour e luxury); libri, abilità/competenze/conoscenze/saperi (al plurale)/specializzazioni e cultura (in TV e-ducano di Tamarri, da noi di Stakeholders, Mission e Vision); crociate securitarie (no alcool no speed no free. L’air bag sì, per ora è da neve, spunta dopo ogni disgrazia. Occhio! alle soluzioni salva-vita, le segue informale il “compro, se no forse vado in prigione”); esperimenti (maiali austro/italici da seppellir sotto neve); formazioni, formatori, formatori di formatori, valutazioni, crediti, certificazioni, patentini, elenchi, poteri, controlli, sanzioni (penali-civili-amministrative-deontologiche; qualcuno ne vuole per sé); anche sussidiarietà/beneficienza (per certi casi, Pinotti la chiama “Fai per me”).
Tutto, e ciascuno, con qualifiche e gradi, self made o da somministrare, from cradle to grave (qui occorre la traduzione: dalla culla alla tomba), al minimo “Alti” ed “Eccellenti” nonché d’Accademia (o d’Academy, che è di più) o Università.
Cioè, nuove riserve, nuovi mestieri, nuovi maestri (il Risk manager ha declamato ogni immaginabile prima dei guai, quindi è infallibile, “L’avevo detto!”. Vende, ma anche lui ci fa crescere un rischio, che un giudice lo legga o l’ascolti; magari poi lo acchiappa a sua volta).
La diffusività connota oggetti e soggetti, e colonizza.
Nel generale, siamo in globale ed anche glocale, ovvero si applica ad ogni sfruttabile (dicono: fruibile): hotel sopra/sott’acqua; sci nel deserto; “esperienza” tra Masai (da portare in ufficio); coaching da specchio (“Io sono il migliore!”); Hagakure d’impresa; M-e-r-i-t-o-c-r-a-z-i-a! (qualcuno non regge, dunque s’ammazza); spiagge per cani; acque minerali di lusso; D.o.c. a pizza e formaggi (anche a quello che spussa, è il suo buono!),
Lavora su presente e futuro, non gli sfugge il passato (identità frullate).
Ai ricconi, viaggi spaziali; ai ricchi, elicottero; ai normali, agriturismo o turismo d’orrore (organizzano torpedoni).
Torniamo con l’economico ai monti (lì, ai senza palanche è concessa la scarpinata, ma – auspicano altri – almeno con maglietta griffata).
I valorizzatori, impiegati (o impegnati) allo scopo denari, mirano a fruttificarne di più, come per legge, di mercato e delle ciliege (una tira l’altra). E se la cosa non va, la lasciano in posto (se soldi ne han presi, li tengono).
L’innovazione è feticcio (quantomeno da Zeus, ogni generazione affossa la precedente, o ci prova); spesso non costa neppure fatica (ma è meglio se c’è Il Finanziamento di Pantalone): è “prodotto”, la storia lasciataci, o l’altruismo spontaneistico di molti? E’ “Made” (in Italy), il panorama?
Di certo, è eliminato il ritegno, le mani su quanto aveva un diverso valore: l’essere stato lasciato in natura o il non essere stato economicamente adocchiato.
Il mutamento mentale è il danno maggiore, un po’ insinuante ed un po’ dichiarato, cercato o subìto.
Una volta, chi andava o mandava in montagna, ne aveva altra idea, pur essa imparata, forse anche sacrale: rispettosa di siti, solitudini, condivisioni moderate, non intesa a costruire malamente, o a disfare.
Ora serve il circo Barnum, in ottica di profitto o gestione d’interessi (legislativa, amministrativa, da volontariato aggressivo): prima che il mercato si saturi, occorre allargarlo, mandando in montagna più gente, meno selezionatasi.
Così, siamo al soggetto utile: il buon turista (col buon, abbiamo anche bambino, studente, cittadino, combattente, lavoratore, consumatore, ecc.) è pagante (i preferibili passeggiano per luoghi alla moda, pernottano in albergo e fanno statistica), dai comportamenti eterodiretti, etici–responsabili (se non t’adegui, ti studiano qual sovversivo del Mercato, sperano di recuperarti), ben vestito, attrezzato, etichettato, mezzo accorto/prudente, pellegrino, assistito, stabulato. Un po’ pretenzioso (nonostante tutto, ogni tanto maltrattato).
Ed all’omologo oggetto: itinerari spianati, rasati e puliti, con ticket, rifugi a più stelle (povero Giusto Gervasutti! L’Internet nel suo nuovo bivacco). Anche le pratiche devono essere buone, e standard. Alba e tramonto li offre la ditta, rifiuti sotto al tappeto.
Una metafora, da Autori (Maris) che hanno guardato al più generale processo:
“L’immaginazione del mercato è senza limiti. Come il cuculo, nidifica su tutto ciò che è gratuito. Esclude gli occupanti precedenti, imprime il proprio marchio sui beni non venali, impone loro loghi, marchi, pedaggi, e poi li rivende”.
Chiave dell’accaduto: in un’economia meno manifatturiera (lì è già occupato, per entrare occorre avere ed impiegare potenza) e sempre più di servizi e di immateriale (per Lisbona 2000, entro il 2010 avremmo dovuto essere niente di meno che “la più competitiva e dinamica economia della conoscenza”), a catturare – anche ove c’è crisi – sono il frammentato e l’apparente: pochi li governano, tanti s’arrabattano. Creati bisogni, sembra sia il bene per tutti, è il Nostro Carnevale quotidiano (Eco).
Stanno a cuore, persone e montagne?
Problema sociale, politico, e filosofico; grande, poiché intanto le filosofie non fermano i disastri.
Da stanare del tutto: è sotto agli occhi, ma ai più sfuggono i fili, mentre una minoranza lo sa e ne approfitta.
Valorizzazione – oggi sulla bocca di tutti – è parola di poco significato (in sé che vuol dire, oltre a dare valore?) o grimaldello linguistico/operativo senza ritegno?
In questo “nuovo”, anche l’innovazione prodotto montagna ha seguito una strategia, la vecchia: demolire l’avversario (o acquistarlo: abbiamo gli insiders) e produrre/smerciare.
Il paradigma non è mutato: è arrivato sui monti.
Ora la ricchezza è dove prima c’era il niente o il di tutti.
Del tradizionale è scritto in una ponderosa ricerca sul turismo montano (citano Leslie Stephen), ma per darne scontata la morte, con sufficienza da conquistatori. Sanno però quale è il vivo nemico: tranquillità, solitudine, frugalità, passione, gusto, avventura, ricerca, sfida, pericolo, determinazione, cioè l’individuo da sé responsabile, libero, singolo o in gruppi.
C’è del buono, nel “nuovo”? Non faccio l’elenco, ci pensano i promotori. Però bisogna fare attenzione, a quel che si perde ed a quel che si prende.
Ecco Pirandello (Uno, nessuno, centomila), col dialogo solitario di Moscarda e montagna:
“Avete mai veduto costruire una casa? Io, tante … . “Ma guarda un po’ l’uomo, che è capace di fare! Mutila la montagna; ne cava pietre; le squadra; le dispone le une sulle altre e, che è che non è, quello che era un pezzo di montagna è diventato una casa.”
“Io” dice la montagna “sono la montagna e non mi muovo.”
Non ti muovi, cara? E guarda là quei carri tirati da buoi. Sono carichi di te, di pietre tue. Ti portano in carretta, cara mia! Credi di startene costì? E già mezza sei due miglia lontano, nella pianura. Dove? Ma in quelle case là, non ti vedi? una gialla, una rossa, una bianca; a due, a tre, a quattro piani.
E i tuoi faggi, i tuoi noci, i tuoi abeti?
Eccoli qua, a casa mia. Vedi come li abbiamo lavorati bene? Chi li riconoscerebbe più in queste sedie, in questi armadi; in questi scaffali?
Tu montagna, sei tanto più grande dell’uomo; anche tu faggio, e tu noce e tu abete; ma l’uomo è una bestiolina piccola, sì, che ha però in sé qualcosa che voi non avete”.
Ora abbiamo anche il moto contrario: la città va e viene portata in montagna, col mercato, il diritto e gli abusi.
La perdita è non averla più come tale. Poi, saranno scelte di fondo: salvare i valori di soggetti ed oggetto? Reclutarli e far finta? Continuare a valorizzare con altro?
Chi ragiona in denaro, non conta che i praticanti l’alpinismo la città non la vogliono; o conta che siano questi ad andarsene, come i vecchi cow boys, quelli che, arrivando binari di ferrovia, scappavano all’Ovest, fin che ce n’era.
Rispetto per vita e montagna dobbiamo riprenderli, anche dicendo di no, a noi e agli altri.
Altrimenti, finiremo in fondo alla bocca del leone.
Carlo Bonardi, Brescia 31 agosto 2011
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Tutto vero. Non c’é una sola denuncia che, andando in montagna, non sia esperienza vissuta.
O, meglio, non c’é reato (o peccato: a scelta) che chi va in montagna non abbia commesso.
Vado a sciare e prendo la seggiovia: contribuisco alla coda; finanzio (anche se solo in piccola parte) la costruzione di una seggiovia piú grande; sfrutto e deturpo l’ambiente…
E allora? Che fare? La risposta puó essere solo quella che é importante prendere consapevolezza?
Ma, dopo che ho preso consapevolezza, posso davvero fare qualcosa per rimediare/bloccare/invertire la rotta?
Mha’…….nel senso di basito!… L’articolista individua bene il cosa ed il suo elenco potrebbe allungarsi e di molto, ma come sempre si guarda il dito senza guardare alla direzione in questo caso nella sua denuncia senza porsi delle domande su chi sono i responsabili. Lamentarsi che la montagna sia trattata alla stregua di un prodotto oggi è anacronistico è l’astio e il malcontento di chi “non vuol sentir l’odore di questo motore che ci porta avanti, quasi tutti quanti, maschi , femmine e “alpinisti” su un tappeto di contanti nel cielo blu”. Ma chi ha aperto il vaso il di Pandora? Quando ha potuto farlo e come ha potuto? Tutto credo tutto è cominciato quando il totem dei numeri è stato eretto sulle vette, solo allora il marketing ha risalito le valli e le montagne portando il verbo nuovo: finanza, rendite e profitti hanno colonizzato e omologato identità. Il modo urbano di concepire l’economia si è imposto come verbo nuovo e ha sovrapposto i suoi valori a Sacro ed al selvaggio preesistente, diventando religione e credenza dogmatica. Ciò che vediamo oggi è cominciato tempo fà dalla Fiat al Sestriere, alla spedizioni commerciali all’Everest, è solo un processo evolutivo ed è solo il frutto di questo sincretismo. Tutti siamo artisti e giocolieri in questo circo Barnum e tutti domatori di antiche o altre r-esistenze, equilibristi del possibile e del poi con lo spit o la presa artificiale, con i nuovi sci e la seconda casa a Courmayer. Anni fa Samivel in una tavola satirica rappresentava una stazione sciistica montana dove il turista arrivato in cima allo skilift era già in coda sulla pista di discesa per riprendere l’impianto. Di che stupirsi quindi, tutto era già stato detto e previsto. Chi arriva in vetta oggi è già in coda per entrare al centro commerciale, rivestito a nuovo e pronto a riprendere da qui le corde fisse per il campo 3, la funivia per l’area bianca o il suv per l’area verde, con il cronometro in una mano e lo smartphone nell’altra. Certo la consapevolezza non è poca cosa ma a che serve ora lamentarsi della scomparsa del Sacro? Non a sentirsi assolti, dato che tutti siamo coinvolti. Una denuncia val bene una messa… ma di requiem ora !
Tone
L’elenco sbalorditivo e pirotecnico di fatti, situazioni e mode che Carlo Bonardi sciorina è frutto di una lucida visione, con la quale egli ha visto e vede i grandi pericoli che la montagna sta correndo. E con lei pure noi siamo in pericolo.
Talvolta si fa un po’ fatica a seguirlo, tanto sono vivaci i salti di logica della sua prosa. Poi, rileggendo la frase, il senso appare chiaro e vivido, amalgamato in un’unica Weltanschaaung che di certo permea il suo sentimento.
L’uso esagerato del corsivo è una necessità, far apparire la contraddizione intrinseca di quella parola con la visione diversa e sottesa con il lettore.
Non c’è sostantivo o aggettivo, non c’è parola inglese che sfugga alla sua attenta indagine, perché la preoccupazione dell’autore è che non si colga la minacciosa attitudine del linguaggio aziendale a insidiare il ben consolidato sentimento che fa da base alle nostre passioni, che si vorrebbero quindi asservite, psicologicamente e concretamente, a un mercato che tutto omogenea.
L’elenco è talmente circostanziato e puntiglioso che quasi vien da pensare che Bonardi sia un tradizionalista estremo, un Catone sempre in armi nella sua guerra personale con i cambiamenti.
Occhio, per esempio, a questa contrapposizione:
“Una volta, chi andava o mandava in montagna, ne aveva altra idea, pur essa imparata, forse anche sacrale: rispettosa di siti, solitudini, condivisioni moderate, non intesa a costruire malamente, o a disfare.
Ora serve il circo Barnum, in ottica di profitto o gestione d’interessi (legislativa, amministrativa, da volontariato aggressivo): prima che il mercato si saturi, occorre allargarlo, mandando in montagna più gente, meno selezionatasi.
Non vi sembra che vi sia l’accento su una doverosa selezione? E quale? Quella della fatica, naturalmente. Quella del convincimento lento, della maturazione, del desiderio che un individuo cova a lungo prima di osare di mettere piede in montagna. Io credo che questo processo di capire qual è esattamente il nostro desiderio sia necessario e non possa essere sostituito dal distratto sguardo du un pieghevole pubblicitario che diventa capriccio.
Il fustigare la parola di Bonardi ha lo scopo di far riflettere più che di rifiutare tout court. Se “la città va e viene portata in montagna, col mercato, il diritto e gli abusi… rispetto per vita e montagna dobbiamo riprenderli, anche dicendo di no, a noi e agli altri… altrimenti, finiremo in fondo alla bocca del leone”.
Lui ci sollecita a essere vigili, a non dire sì a qualunque tentazione di mercato, proprio per salvaguardare la nostra capacità di vero desiderio e quindi, in definitiva, di felicità.