Scuola di scialpinismo della Ligure – 1 (1-2)
di Gianni Pàstine
(pubblicato sulla Rivista della Sezione Ligure del CAI, dicembre 1992)
Premessa
L’attuale direzione della scuola di scialpinismo e la presidenza della Sezione Ligure dei CAI mi hanno affidato il compito, non indifferente, di rievocare, in occasione del trentennio di inizio della attività della scuola, quella che è stata la sua storia. La scelta è, evidentemente, caduta su di me per via di mie inclinazioni ad argomenti del genere, fatto che non sta a me giudicare sul piano del suo effettivo specifico valore. Indubbiamente, sono anche, purtroppo ormai, fra chi ha vissuto più a lungo le vicende da trattare e, oltretutto, fra chi le ha vissute in posizione di protagonista. In una parola, non potevo rifiutarmi. Prenderò l’argomento alla lontana.
A Genova, in Liguria, lo scialpinismo non lo abbiamo inventato noi. Abbiamo contribuito a modernizzarlo, a renderlo adatto ai tempi, a farne una disciplina da trasmettere con una didattica, al fine di renderlo praticabile, con la maggiore sicurezza possibile, questo, incontestabilmente; ma non è giusto ignorare quello che altri, molto prima di noi, in tempi molto più difficili, con mezzi oggi irrisori, hanno fatto ed hanno permesso a noi di fare. Cercherò di non dimenticare nessuno; ma vi dico già che le eventuali dimenticanze saranno del tutto involontarie. C’è poi un altro aspetto. Cercherò di essere sincero ed obiettivo. Non ho mai amato scrivere per conto di qualche ministero della propaganda o della cultura popolare; non ho mai amato rivisitare la storia al servizio di una ideologia, sfruttando ogni avvenimento ai fini della stessa; ho sempre dato al nozionismo il suo giusto posto perché è assurdo parlare di persone ed avvenimenti senza collocarli convenientemente nel loro esatto tempo: sarebbero solo chiacchiere vuote.
Toccherò, per amore di verità, alcuni tasti che, a suo tempo, suscitarono polemiche anche roventi. Cercherò di farlo con la maggiore obiettività possibile.
Concludendo questa premessa, parlerò di chi non è più, di chi ci è stato maestro, di chi ha lungamente collaborato con noi, di chi ci è stato amico, ci ha scelto come maestri e anche nonostante ciò, non è più con noi. A Loro la miglior dedica di questa modesta e imperfetta fatica.
Pionieri e precursori
Lo sci arrivò a Genova agli albori del secolo. Lorenzo Bozano, Emilio Questa, Bartolomeo Figari, Arrigo Barabino ed Egidio Isolabella ve lo introdussero, fondando uno Sci Club, sul modello di quelli fondati a Milano e Torino, avente per scopo la diffusione dello sci come mezzo per frequentare la montagna in inverno. Una vecchia foto li ritrae in oggi abbastanza goffi esercizi, nell’immediato entroterra appenninico, con un bastone solo. Nel rifugio Questa, una foto ricorda il pioniere mentre percorre, sci a spalla, una mulattiera ghiacciata. Preme subito una considerazione: lo sci era allora soltanto un mezzo. Solo nella primavera del 1917, Arnold Lunn e Joseph Knubel, nella storica prima sciistica del Dom des Mischabels, ne modernizzeranno una prima volta la tecnica ponendo le premesse di quello che sarà lo slalom. Furono quindi abbastanza anacronistiche le polemiche insorte parecchi decenni dopo, con il proliferare degli impianti di risalita e delle competizioni alpine, mosse dal richiamo a principi statutari vecchi ormai di mezzo secolo. E lo statuto fu superato dagli stessi estensori solo pochi anni dopo, in quel del Sassello, con una competizione che oggi potremmo definire di gran fondo. Una competizione che, riveduta e corretta, avrebbe resistito cinquant’anni: la coppa Figari.
La prima guerra mondiale bloccò, assai più che non la seconda, ogni attività che non fosse connessa con lo sforzo bellico delia nazione. Tuttavia essa si svolse, per tre lunghi inverni, su terreno in gran parte montuoso e a quote anche elevate. Si combatté nella neve dalle più alte vette del gruppo Ortles- Cevedale, sull’Adamello, sul Monte Baldo, nelle Piccole Dolomiti Vicentine, nelle Dolomiti Feltrine e Agordine, sulla Marmolada, in tutto l’arco delle Dolomiti Orientali, delle Alpi Carniche, fino alle propaggini più occidentali delle Giulie. Nell’ultimo inverno, il fronte fece perno poi sul massiccio prealpino del Grappa, innevato esso pure. Fu una dura esperienza per entrambi i contendenti, non soltanto dal punto di vista prettamente militare ma anche da quello ambientale. Nell’inverno 1916/17, fra i più nevosi della storia recente, le valanghe fecero più vittime, negli opposti schieramenti, delle operazioni belliche.
Un settore del fronte si prestava maggiormente all’uso dello sci: quello dell’Adamello. Qui, specialmente l’esercito italiano fece largo uso di reparti sciatori che, in quel drammatico frangente, scoprirono per la prima volta lo scialpinismo di alta montagna.
Fra questi un ufficiale genovese: il capitano degli alpini Jacques Guiglia. Nel dopoguerra fu fra i rianimatori dell’attività sciatoria dando ad essa una decisa impronta scialpinistica nel senso moderno del termine. Nel suo solco Sabbadini, Marchini, Ciglia. Era gente che se lo poteva permettere, ma che aveva anche determinazione. Non bisogna dimenticare poi l’ottimo grado di efficienza raggiunto allora dalle Ferrovie dello Stato, un’efficienza superata di ben poco in mezzi e tempi di percorrenza oggi, rimpianta sul piano del rispetto degli orari e qualcos’altro. Prendevano, nel tardo pomeriggio del sabato, il treno per Bardonecchia o Limone, effettuavano la gita nella domenica, rientravano nella notte fra la domenica e il lunedì. L’assenteismo sul posto di lavoro era allora vocabolo sconosciuto. Furono percorse anche delle vere e proprie prime. Guiglia pubblicò una guida invernale delle Alpi Liguri, interessante tutt’oggi; Attilio Sabbadini redasse le prime carte delle valanghe nelle Alpi sud-occidentali in collaborazione con l’Istituto Geografico Militare. Era suo abituale compagno di gita anche il torinese generale Micheletti. Ciglia era invece un impareggiabile fotografo, quando bisognava caricarsi di un materiale prezioso ma monumentale.
Ma l’attività individuale era riservata a pochi. Il vero motore dell’affermazione degli sport invernali fu incontestabilmente il fascismo. Il regime agì indubbiamente con finalità nazionalistiche e militari; tuttavia il fatto non può essere ignorato né, sul piano sportivo, condannato. Sezione Ligure del Club Alpino e Sci Club ne fecero tosto le spese. Di lì a poco, con l’ostracismo decretato a tutta la terminologia straniera, anche la parola Club scomparve dal vocabolario. Per conservare la sigla CAI, troppo tradizionale, fu coniato il termine di Centro Alpinistico Italiano.
Fra i soci nazionali, lo stesso Benito Mussolini che così commentava: “sono fiero di appartenere al Centro Alpinistico Italiano, scuola di italianità e di ardimento!” Per inciso, anche il Genoa Cricket and Football Club doveva mutare il proprio nome in quello di Genova 1893. Ma il motivo di fondo era la demolizione delle ultime isole di fronda al regime, più consistenti negli ambienti culturalmente più elevati e quindi più portati alla libertà individuale. Il CAI era uno fra questi. Per conquistarlo, il fascismo agì sugli studenti e gli operai. Gruppi Universitari Fascisti (GUF) e Opera Nazionale Dopolavoro (OND) si sostituirono, forti dell’appoggio statale, a SUCAI (sezione universitaria del CAI) e UOEI (unione operaia escursionistica) che erano associazioni volontarie con mezzi limitati. Ma, per meglio affermarsi, per meglio disattivare le ultime roccaforti nazional-liberali, con venatura massonica, presenti nelle sezioni di Torino, Milano e Ligure-Genova, il regime introdusse nel CAI stesso tre importanti società escursionistiche a base popolare: l’UGET, la SEM e l’ULE. In effetti il consenso arrivava principalmente dal basso, isolati con carcere, confino ed esilio i principali esponenti socialcomunisti, il regime era andato alla conquista delle masse con una legislazione sociale che la vecchia Italia liberale non aveva neppure abbozzato e con una serie di provvidenze che elevarono innegabilmente il tenore di vita popolare.
Ciò anche per tenere a bada una classe imprenditoriale pronta a godere la stabilità sociale e le misure protezionistiche, ma anche pronta alla fronda, nell’ottica più egoistica dei propri interessi privati. Una fronda che sarà fra le cause non ultime del clamoroso disastro cui la nazione italiana andrà incontro nel corso della seconda guerra mondiale. Una piccola isola di antifascismo resisterà, negli “anni ruggenti”, nella piccola associazione alpinistica cattolica Giovane Montagna, quella del torinese Pier Giorgio Frassati, recentemente assunto agli onori degli altari. Ma, a Genova, essa aveva un potente scudo in una grande figura di religioso: il cardinale arcivescovo Dalmazio Minoretti, uomo rigido, severo, ma anche aperto; un precursore delia svolta conciliare giovannea.
Tornando al nostro specifico argomento, mentre i GUF sviluppavano una consistente attività agonistica, il Dopolavoro dava vita ai treni della neve che scaricavano domenicalmente a Limone e Bardonecchia centinaia di sciatori genovesi. L’ora dell’agonismo venne anche per il Dopolavoro e, naturalmente, per le Forze Armate ove la Scuola Militare Alpina si affermò presto come una fra le più preparate del mondo.
L’impronta agonistica trasformava così l’attività invernale del nostro CAI. La coppa Figari si disputava a più riprese sul percorso Monte Antola – Casa del Romano e ritorno. Ettore Speich e Anton Buscaglione ne furono i dominatori mentre andava di moda, parallelamente, una specialità nordica: il salto. Giacomo Ghigliotti, scovò proprio sulla anticima nord-orientale dell’Antola un trampolino naturale. Ma per andare all’Antola bisognava partire al sabato sera e salire a pernottare al rifugio Bensa, allora di proprietà di un gruppo di soci, o dal Musante.
In alternativa, la corriera della ditta Laviosa che partiva da Piazza della Vittoria alle quattro del mattino per Torriglia. Anche le gite sociali assumevano impronta agonistica. Memorabile una passata alla storia con “quella dell’Isola di Rovegno”. I nostri, giunti alla Casa del Romano, proseguirono per il Monte Costalta, Fontanarossa e Isola di Rovegno. Ma le boschine e le fasce della parte inferiore del percorso operarono una spietata selezione. Speich giunse prima con grande distacco. Gli ultimi a notte fonda. Naturalmente la corriera Piacenza-Genova era già passata e bisognava attendere quella del primo mattino. Giulli Firpo la ricordava sempre come una sorta di tragicommedia.
L’attività agonistica, di gran fondo, dei nostri soci usciva con prestigio dall’ambito locale. Buscaglione conquistava infatti un noto trofeo: lo sci d’oro. Ma ora l’attività agonistica si estendeva al terreno alpino. Erano i tempi del “Mezzalama” e del “Parravicini”. Fu così che, mentre Genova spostava sulle Alpi la Coppa Figari, trasformandola in gara a pattuglie di tre elementi, Imperia e Savona organizzavano rispettivamente i trofei Kleudgen e Foches per ricordare i nomi di soci caduti in montagna. Mentre la Figari aveva percorso variabile anno per anno, gli altri due avevano percorso fisso. Il Kleudgen partiva da Mendatica ed arrivava a Monesi per Frontè, rifugio Sanremo e Saccarello; il Foches partiva da Viozene e raggiungeva Frabosa Soprana per Bocchin d’Aseo, Sella Brignola, Sella Seirasso, Balma, Prel e Malanotte. Pippo Abbiati e Carlo Bozano, nipote del pioniere, erano particolarmente versati in tal genere di competizione. Erano anche furbi. Nessuno batteva la pista e bisognava scegliere l’ora di partenza in quella gara che, tradizionalmente si disputava il giorno di San Giuseppe, come la Milano-Sanremo.
Il bel tempo indusse tutte le pattuglie savonesi a chiedere le prime ore. Abbiati, fra la commiserazione generale, chiese l’ultima. Aveva telefonato a Frabosa, aveva saputo di una nevicata recente e non lo aveva detto a nessuno. Dopo il Bocchino, i savonesi ebbero una sgradita sorpresa e dovettero unire le forze per aprirsi la strada. Abbiati e Bozano, sempre cento metri dietro. Al Malanotte, Abbiati allungò il passo, superò gli avversari dicendo con sottile ironia: “battiamo un po’ di pista anche noi!” Mi raccontò l’episodio Giovanni Battista Ferraro, per lunghi anni bandiera dell’alpinismo e dello scialpinismo savonese, uomo che, negli ultimi tempi della sua vita, volle ritirarsi, solo, in una baita dell’alta Val d’Inferno, fra i monti che più aveva percorso ed amato. Di lui si racconta anche un episodio curioso. All’ora mangereccia, era solito tirar fuori dal sacco due uova sode e rompersele, con gesto studiatamente teatrale, contro il suo tradizionale cranio lucido. Un giorno, due amici burloni, ne manomisero in segreto il sacco sostituendo le due uova sode con due uova fresche…
Nello sci agonistico ligure si era affermata sorprendentemente, per chi legge oggi, la zona di Campoligure e Masone che aveva a Mongrosso il suo terreno tradizionale. C’era anche un trampolino di salto e i nostri andarono a conquistarsi lusinghiere affermazioni nei campionati nazionali dopolavoristici.
La seconda guerra mondiale gettava la sua ombra sinistra anche sulla neve. Sulle prime si cercò di continuare. Nel febbraio del 1941, a Cortina, furono disputati i campionati mondiali, limitati, per forza di cose, a Italia, Germania, loro alleati, Svezia, Svizzera e Spagna. I nomi dell’austriaco Josef Jennewein, dei nostri Vittorio Chierroni, Celina Seghi e Aristide Compagnoni, del finlandese Juho Samuli Jussi Kurrikkala furono quelli che maggiormente si segnalarono. Ma la guerra infuriava già sanguinosa sulle montagne albanesi e “la meglio zoventù andava sottoterra”.
Si continuò ancora, quasi per forza d’inerzia, anche se più numerosi erano quelli che partivano per il fronte.
Con sorpresa, con stupore che malcelava il risentimento, chi partiva lasciava a casa, coperto da scuole di alta montagna o servizi in patria, i nomi più famosi, ché, a morire andavano soprattutto gli umili. Anche nel famoso battaglione Monte Cervino, la cui gloria fu adombrata dalla vicenda del comportamento in prigionia da parte del suo comandante interinale; una vicenda che peraltro va obiettivamente analizzata considerando tutte le sue reali e possibili componenti. Caddero quasi tutti i nostri bravi ragazzi della Valle Stura, con alla loro testa il tenente colonnello Giancarlo Mignone, che era per loro comandante e padre ad un tempo, alla memoria del quale il comune di Masone ha dedicato una strada. Quando Piombo, detto l’Arabo, e Ponte, detto il Miccio, cercheranno di riannodare le file a guerra finita non sarà più come prima. Anche la natura sarà avara con la neve, il benessere aprirà altri orizzonti e, di quei lontani giorni, resterà solo un pallido ricordo. Nell’ultimo inverno abbondantemente nevoso, sono tornato a Mongrosso e al Pavaglione. Era con me “Nico”, un “locale”, che aveva fatto in tempo a vivere quella stagione.
La gelida tramontana riempiva il silenzio nell’abbondante neve farinosa; ma le nostre tracce erano le sole.
La guerra raggiunse l’Italia; salì sulle montagne e fra la neve in una fra le sue più insidiose e spietate varietà mentre città, paesi, vie di comunicazione erano preda frequente dell’offesa aerea. Eppure, fra i vari tentativi di continuare a vivere, a sopravvivere c’era chi, sporadicamente, aveva usato gli sci, e non come mezzo.
La ripresa del dopoguerra fu faticosa. Era Pippo Abbiati a riprendere le leve in mano. Trovò presto una spalla formidabile in un operaio veneto, che, nel tempo libero, amava la barca a vela; ma che, quando conobbe la montagna, non se ne staccò più: Giovanni Guderzo. Dietro a lui Antonio Cevasco, reduce da una lunga ed avventurosa naja alpina. Gli altri facevano per lo più da comparsa perché i ritmi e la tenuta dei tre non erano facilmente sopportabili. Il trasferimento avveniva sempre in treno e gli orari dovevano essere religiosamente rispettati.
La gita diventava così una continua competizione a cronometro dove Guderzo eccelleva particolarmente. Lo soprannominavano il frenetico (o l’elettrico). Non si risparmiavano. Una volta partirono dal rifugio Zanotti e raggiunsero S. Bernolfo. Fin qui, niente di strano. Il bello venne il giorno dopo: S. Anna di Vinadio, Colle della Lombarda, vallone di Castiglione, Laghi di Terra Rubbia, Testa della Costassa… erano fuori via! Nella nebbia sopraggiunta risalirono il ripido vallone di Scluos fino alla Testa delle Portette dove la nebbia si diradò permettendo loro di fare il punto della situazione. Parziale ritorno, Passo Sud delle Portette, rifugio Questa. Questo ancora inospitale per i guasti bellici. Era ormai buio. Lago di Valscura (mai nome più appropriato), Valasco, Terme e Sant’Anna di Valdieri (22 ore complessive!).
Poi anche Cevasco prese ritmi più blandi mentre subentravano Enrico Podestà, Riri Pettinati, Lino Cavanna e Pellegro Villa: gente già temprata da un escursionismo senza risparmio, che colse però anche i nostri nel loro iniziale declino.
Non si limitavano solo alle Marittime. Abbiati e Guderzo salirono al M. Bianco in sci. Tutti frequentarono a più riprese il Rosa, il Bernina, l’Oberland e soprattutto il Delfinato, sempre severo banco di prova. Parteciparono anche ad un Rally nei Pirenei.
Un forte gruppo si trovava anche presso la sottosezione di Sampierdarena e faceva capo a Claudio Goretti e Sergio Rinaldi. Goretti era un infaticabile. Uomo straordinariamente sobrio, si sobbarcava, con estrema naturalezza, tutti i compiti più ingrati. Sergio si riservava per le difficoltà tecniche maggiori che dominava da par suo, favorito da un fisico veramente atletico. Un po’ meno bene se la passavano tanti più occasionali compagni che metteva insieme per riempire il pullman con cui partire. Si racconta del suo duro apostrofare uno fra essi, stremato da disagi e fatica: “Ghe son passou mi! Perché no ti ghe passi?!” Si era quindi slegato, lanciandogli la corda, per recuperarlo al ritorno…
Feci con loro una splendida scialpinistica. Partimmo all’imbrunire da Pontebernardo per il rifugio Talarico ove arrivammo a notte inoltrata e a nebbia diradata, quando qualcuno temeva già di dover bivaccare nella truna. Dodi accese un fuoco che paragonò a quello di Nerone quando bruciò Roma e ne usci un canto perfettamente armonizzato. Cantavamo tutti nel Coro “Les Montagnards” diretto da Dino Cabula. Lo ricordo ancora con infinita nostalgia perché oggi, né in rifugio né altrove, si canta più. Non si conosce più né canzoni né armonia. Per chi ricorda il coro risuonare sommesso e armonico nel cuore delle grandi montagne, questa carenza rappresenta veramente un vuoto. Il giorno seguente andammo al rifugio Zanotti e a Pietraporzio per i Passi della Lausa e del Piz. Ero arrivato allo scialpinismo nel 1952. Ma il quasi contemporaneo apprendistato fondistico mi aveva portato all’agonismo. Avevo vent’anni. Un trofeo Foches con Zapparoli, una meno fortunata Figari, sempre nello stesso anno, con Zapparoli e Giancarlo Cicci Bussetti, da Bersezio ad Acceglio e, nel 1955, la Figari del Tabor. Con Cevasco e Arvigo formavamo una pattuglia veramente affiatata. Usavamo attrezzature da scialpinismo, certo però, differente da quella attuale da fondo escursionistico quasi solo per l’attacco che consentiva il blocco del tallone in discesa. I nostri più quotati avversari avevano sci da fondo. Erano Gian Carlo Boggian, Pierino Poggi e Demetrio Torcello, savonesi i due ultimi, Luciano Malfettanti, Bruno Musso e Andrea Abbiati, forse i più omogenei e tecnici. Completavano, da valide comparse, Cicci Bussetti, la Rosemary Pertusio e Gian Paolo Nannelli, Gritti, Pratolongo e Vallebona. Questi ultimi tre erano dei simpatici tranquilli frequentatori della montagna. Erano più anziani; avevano fatto la guerra negli alpini e, ogni tanto, esibivano il grado: tenente Pratolongo, sergente maggiore Gritti, caporal maggiore Vallebona. Quest’ultimo, il più originale dei tre, aveva, per la verità, fatto anche parte della milizia; in una occasione si era presentato con la divisa invernale da campagna di quel corpo, fasci esclusi… Pratolongo ci avrebbe lasciato troppo presto, all’indomani di una di quelle feste di sole e bella neve trasformata che il nostro Appennino si sapeva regalare (a chi lo sapeva amare).
Nella notte caddero venti centimetri di neve e la nostra prima ora di partenza diveniva sfavorevole. Cevasco borbottava, ma io avevo già il mio piano. Ci diede la partenza Tonino Saviotti, sciatore già più anziano, ma che sapeva stupirci con un telemark eseguito alla perfezione. Anche in questo campo non si scoprono oggi novità!
Partimmo decisi e regolari. Dopo la miniera, invece di seguire il comodo fondo del vallone, in direzione del colle di Valmenier, presi a destra su una ripida mezza costa. Sulla neve dura sottostante le nostre lamine tenevano, gli sci, in legno, dei fondisti no e li distanziammo. Più che mai deciso, tracciai lungo una cornice niente affatto facile e arrivai al colle con una serie di ripide giravolte. Arvigo mi incitava, Cevasco bofonchiava in dialetto. Purtroppo, dal colle alla Cima del Tabor non v’erano difficoltà neppure a cercarle ed i nostri avversari serrarono sotto. Breve controllo da Sandro Girtanner, sprovvisto di tutto e rifornito da nessuno, come al solito, via le pelli e giù in discesa. Qui, riaccumulammo un considerevole vantaggio. I nostri avversari passavano infatti da un rovinoso capitombolo all’altro. Ma, giunti al piano sotto la miniera, commettemmo l’unico fatale errore.
Non sbloccammo l’attacco per gli ultimi chilometri pianeggianti. Così, al rifugio Terzo Alpini, Boggian, Poggi e Torcello ci precedettero per una manciata di secondi. Cevasco era furente e ce l’aveva con gli sfruttapista. Io me la prendevo con più filosofia. Intanto la nostra prova era stata maiuscola ed avevamo distanziato di ben dieci minuti Malfettanti, Musso e Abbiati che partivano da favoriti.
Ci rese tutti allegri, a pranzo, Poggi. Con la sua tipica cadenza savonese, si rivolse a me: “E brao Pàstine! Ti n’e portou in te di posti, dove l’ea roba da massaose!” Per la verità, aveva ragione Cevasco. Se non vi fossimo stati noi davanti, nessuno sapeva dove era il Tabor.
Nel frattempo avevo toccato i miei primi quattromila sciistici: Breithorn, Polluce, Stralhorn, Roccia Nera dove, con Enrico Cavalieri, infaticabile cacciatore di prime, effettuammo la seconda invernale nel freddissimo 30 dicembre 1957.
Frequentai poi i rally. Significativi quelli della Mautino e dell’Adamello, entrambi del 1962, annata che mi vide a lungo in difficoltà per una vaccinazione antivaiolosa che aveva provocato una abnorme reazione. Alla Mautino, con Silvano Grisoni, avevamo un sincronismo così perfetto nella discesa in cordata che, nonostante non brillassimo come discesisti, ci piazzammo nella parte alta della classifica, superando pattuglie ben più celebri. All’Adamello eravamo in tre (con Stefano Marno Revello). Giocammo di astuzia e la nostra regolarità fu premiata. Arrivammo secondi dietro ai bresciani, padroni di casa. Fummo trionfalmente festeggiati, in quel di Ponte di Legno, a suon di “belin!” Silvano, miope già allora, inciampò nella coppa vinta colma di vino versandomelo nella nuovissima Volkswagen da battaglia.
Troppa gente ha tuonato contro le gare in nome della purezza di stile. Perché nella normale attività alpinistica è assente la competizione?! Quando c’è gente che va in gita senza sapere l’esatto numero dei compagni, che riparte da fondovalle, sia pure con la corriera, quando non sono ancora rientrati tutti; quando c’è chi afferma candidamente che avrebbe abbandonato il proprio compagno per raggiungere la meta, allora viva l’agonismo, quello vero, con numeri, giudici e classifiche. Perché il tempo si prende sull’ultimo della pattuglia e, ai controlli, bisogna passare uniti, pena la squalifica. Ho il sospetto che, se il metodo agonistico fosse generalizzato, cartellini gialli e rossi, giornate di squalifica non si conterebbero, almeno in un primo tempo. Poi, tutti quelli che fanno sempre tardi, che perdono sempre tempo, che debbono sempre dipendere da qualcuno, sarebbero inesorabilmente giustiziati dal cronometro. In ogni caso, ho di quelle competizioni un ricordo esaltante anche se corsi più per partecipare che per vincere, se provai anche l’amarezza dell’ultimo fuori tempo massimo; ma non mi ritirai se non in una occasione: quando il mio compagno era in seria difficoltà. Nelle gare individuali, mai.
Avevamo iniziato i corsi di alpinismo. Volevamo offrire ai consoci qualcosa di più pratico, durevole e concreto che non la gita sociale, le cui contraddizioni erano evidenti già allora. Era la volta dello sci alpinismo.
Primi passi
La tradizione non mancava. I presupposti neppure. Non mancava neppure l’esempio. Si sapeva di Toni Gobbi, delle sue settimane di scialpinismo di alta montagna e della scuola che vi praticava.
Si sapeva dello straordinario successo arriso ai primi corsi di scialpinismo della SUCAI di Torino cui ci aggregammo, in una uscita, per studiarne l’organizzazione. Preso il coraggio a due mani, partimmo nel gennaio 1964. Ecco l’organico istruttori: direttore: Gianni Pàstine, vice Direttore: Enrico Damasio. Istruttori: Roberto Barabino, Giorgio Brianzi, Antonio Cevasco, Luigi Felolo, Silvano Grisoni, Augusto Martini, Federico Molini, Renato Montaldo, Carlo Morozzo, Stefano Revello, Carlo Sabbadini, Giorgio Vassallo.
Avevo pescato fra i nomi più rappresentativi di chi praticasse allora attivamente lo scialpinismo. Erano anche gli anni del declino di Abbiati e Guderzo e la loro era una eredità molto impegnativa. Quasi tutti, avevamo il doppio impegno fra corso di scialpinismo e corso di alpinismo. Alcuni rivelarono subito spiccate inclinazioni didattiche, altri decisamente no. Erano troppo individualisti e mal si adattavano a dedicarsi pazientemente all’allievo. E di pazienza ce ne voleva molta.
Infatti gli allievi iscritti furono ben ventinove; ma fu soprattutto per colpa di un equivoco o di una radicata erronea mentalità.
Equivoco perché più di uno ritenne che noi si insegnasse a sciare a chi già masticasse almeno del buon escursionismo. Radicata erronea mentalità perché allora, una forte corrente di sciatori alpinisti avversava come un’eresia non solo impianti e piste, ma anche, conseguentemente, una corretta tecnica sciistica.
Invano, per anni, Gobbi avvertì a chiare lettere che, per praticare lo scialpinismo, specie in alta montagna, fosse assai più utile una buona tecnica sciistica, acquisita naturalmente in pista, che non la pura preparazione fisica del forte camminatore, che, poi, al momento di scendere, denunci vistose carenze tecniche.
Il nostro stesso organico istruttori, salvo eccezioni, non andava esente da quella menzionata errata mentalità. Iniziammo così le esperienze anche a nostre spese e fummo costretti ad una drastica selezione.
Partimmo con programmi modesti. In una giornata meteorologicamente perfetta, su ottima neve uniformemente trasformata, andammo da Propata al Monte Carmo, e ritorno. La strada, in sterrato, si fermava allora a Propata. Ebbene, gli ultimi rientrarono quando le tenebre erano già scese da almeno un’ora.
L’uscita successiva, Val Casotto – Cima Baussetti, vide la vetta raggiunta solo da un istruttore con due allievi.
Fu giocoforza ritornare all’Appennino, allora ottimamente innevato, Roccabruna e Monte Gifarco, da Fontanigorda, e Monte Maggiorasca da Roncolongo, con il “Tetto” dell’Appennino ancora incontaminato, si rivelarono utilissimi per una didattica più tranquilla e completa.
Tornammo alle Marittime più preparati; ma il maltempo non ci lasciò andare oltre il rifugio Foches. Alcuni allievi parteciparono poi, in quanto più meritevoli, ad una gita al Monte Matto. Damasio, Bonacini e Gianni Calcagno parteciparono a un rally nelle Alpi Centrali, con lusinghiero piazzamento.
Ecco i nominativi degli allievi che terminarono con profitto quel primo esperimento: Franco Barbicinti, che ci trasmise l’entusiasmo di chi riesce ad andare in montagna nonostante una grave mutilazione alle estremità inferiori; Gianni Bisio, futuro istruttore e uomo dei rifugi; Lorenzo Bonacini, futuro istruttore, attuale organizzatore degli “ex allievi”; Augusto Bovero; Carlo Brenco; Gianni Calcagno, proprio lui, diligente, disciplinato, umile, entusiasta; Paola Canovi; Roberto Fonda; Fulvia Lazzarini; Ignazio Semino; Mariuccia Silvestrini, scomparsa purtroppo alcuni anni fa per incurabile male; Giovanni Solari; Mario Zerega.
Della maggior parte di loro si sono perse le tracce; ma mi fa piacere ricordarli perché furono i primi e lo furono bene, soprattutto per cordialità e serietà. L’anno successivo, il corso, inquadrato nell’attività della scuola di alpinismo, ricalcò le orme del precedente.
L’organico istruttori aveva subito un primo sfoltimento con la defezione quasi spontanea di chi, pur valido sciatore alpinista, aveva scarsa propensione per la didattica. L’iscrizione degli allievi ripeté gli equivoci degli anni precedenti con l’inevitabile selezione. Ci spingemmo però maggiormente verso Marittime e Cozie meridionali. Fra gli allievi, Dino Romano, futuro INSA e direttore della scuola; Alberto Fascioli, futuro presidente della sezione; Alessandro Gogna, dalla tecnica sciistica invero carente; e il trio Carnevale – Franco Staccione – Topazio, ancor oggi nota cordata di anziani “da combattimento”.
Ma la crisi incombeva, ed era soprattutto, per una prima volta, crisi di identità. Allora la scuola era unica per l’alpinismo e lo scialpinismo, con direttore unico e due direttori dei corsi. Passato io alla direzione della Scuola nel 1966, succedendo a Cavalieri trasferitosi a Roma, il corso fu affidato a Brianzi. Nonostante la seria e diligente opera del direttore, solo tre allievi su undici iscritti conclusero: Marco Balestrero, Cesare Parodi e Franco Staccione, per la storia. Non tragga in inganno il fatto che, per la prima volta, si concludesse in alta montagna, con il Breithorn. Vale la pena di riportare cosa scrissi nella relazione finale: “il corso ha denunciato ancora una volta scarsa condizione fisica e scadente tecnica sciistica in buona parte degli allievi per cui la selezione è stata necessariamente severa. Altro male non indifferente, forse più importante e più grave del primo, è stata una lacuna nel corpo insegnante e per frequenza e per impegno didattico. Infine, la scarsissima popolarità dello scialpinismo fra sciatori e alpinisti genovesi. Indubbiamente, stiamo scontando ora il fatto che, da circa quindici anni, nonostante la presenza nella nostra città e nella nostra sezione di sciatori alpinisti di fama nazionale e internazionale, non sia mai stato intrapreso nulla di serio in tal senso“.
Tutte assolate verità; ma la ricerca del consenso non era e non sarà mai il mio forte. Non tardai a scontrarmi, e con chi contava; non certo con la base che mi affibbiava un carisma di cui dubitavo fortemente. Persi la direzione della scuola di alpinismo nel breve volgere di un anno. Sbagliavo a trasferire nel CAI frustrazioni più che evidenti e giustificate, che già costellavano la mia carriera ospedaliera; ma non avevo neppure tutti i torti perché certi metodi, adottati per oltre un decennio, nei miei confronti, dalla “nomenklatura” sezionale, ebbero la tipica impronta “baronale”. Così, quando dopo una lunga, voluta anticamera, arriverò alla presidenza sezionale, farò il mio dovere; ma senza quell’entusiasmo di chi può dar sfogo a un proprio credo non sfiorato dal dubbio. Un dubbio che altri avevano alimentato.
Vittorio Pescia era subentrato alla direzione della Scuola, forte del titolo di Istruttore Nazionale di Alpinismo, recentemente conseguito. Il suo era stato un successo notevole. Con la proverbiale caparbietà si era brillantemente imposto fra grossi nomi e superato anche i negativi pregiudizi, verso i dilettanti, di qualche istruttore professionista. Ora però mi invitava “a dividere gli stracci”, realizzando la Scuola di alpinismo da una parte, Scuola di scialpinismo dall’altra. Chi fa l’istruttore in una, non lo fa nell’altra. Nel 1968 era obiettivamente giusto; tuttavia mi ritrovai in una situazione da anno zero.
Ripresi la direzione della scuola di scialpinismo a onore del vero, le doti organizzative di Felolo mi furono di notevole aiuto. Con pochi ma buoni allievi, (Paolo Carmagnani, Angelo Olivieri, Marisa Prati e Pietro Sorbi) imbastimmo un programma di tutto rispetto che terminò, nell’ordine, alla Cima delle Lose, al Malinvern, direttamente da Terme di Valdieri, e alla Punta Gnifetti.
Eravamo maturi per il salto di qualità tecnico. Ce lo permisero due uomini di Gobbi, assidui frequentatori delie sue “settimane”: Elio Ghiglione e Gianpaolo Nannelli, soprattutto quest’ultimo, uomo che, con il suo non comune ascendente anche morale, segnerà per lungo tempo l’attività della scuola fino a darle una tipica impronta.
Ancor oggi, le cose fatte alla Nannelli vanno di moda. Con loro il maturo ma tecnicamente valido Franco Leboffe ed i vigorosi Benedetto Ferrando e Dino Romano. Assumevamo un volto presentabile. L’insegnamento divenne organico. Ognuno di noi fu stimolato a migliorarsi. Gli allievi giunsero più numerosi e consapevoli. Voglio ricordare Franco Audino, Gianni Carravieri, Carlo Cilesi, Tito Di Fede, Marco Falcherò, Marco Giovagnoni, Marina Lequio, Luca Olivari, Alberto Passano, Roberto Peraldo, Vincenzo Schiappacasse. Monte Tenibres, Rocca Rossa e Montagnetta di Rabuons, Punta Sommeiller, Punta Bousson e Gran Paradiso furono le mete finali.
Era tempo di scuole nazionali e corsi per istruttori nazionali di scialpinismo. Partecipai a diverse riunioni a livello nazionale. Bisognava creare tutto da zero. L’ambiente professionistico, Gobbi in testa, non ci era favorevole: eterna contraddizione del mondo alpinistico italiano! Non partivamo bene. Ma Torino, Milano e Varese premevano. Bisogna anche dire però che, obiettivamente, non eravamo in cattive mani. La SUCAI di Torino, con Franco Manzoli e Renzo Stradella, veniva già da una lunga esperienza; Milano, con la Righini, era forte dell’apporto di sperimentati accademici come Fritz Gansser ed Emilio Romanini. A Varese dominava la prestigiosa figura di Mario Bisaccia, magnifico alpinista, tecnicamente e moralmente parlando, che una improvvisa e nascosta malattia ci porterà via repentinamente all’indomani del rientro da una spedizione nel Caucaso. Si arrivò al compromesso con l’ingaggio, in qualità di istruttori-esaminatori, di tre professionisti, nella persona del torinese Benassi e degli ossolani Dino Del Custode e Remo Sartore.
Prestarono peraltro il fianco al dubbio i titoli INSA assegnati di ufficio, prima di iniziare i corsi. Fra tali titolati, in un primo tempo, c’era anche il mio nome. Poi, il mio, e quello di alcuni altri, fu cancellato. Avremmo frequentato il corso; tanto l’avremmo superato. Invece, per me non fu così. E fu giusto. Non possedevo la tecnica sciistica idonea. Frutto di quei pregiudizi antipistaioli di cui parlavo, che ora presentavano il conto.
Oggi, anche in nome della difesa dell’ambiente, si torna a tuonare contro impianti e piste; ma vorrei ripetere con Rébuffat: “si vous ètes alpinistes, ne dedeignez pas le ski de piste!“. Rimasi con l’amaro in bocca, soprattutto per l’equivoco iniziale che caratterizzò l’avvio di quel corso. Era tardo autunno. C’era tempo per recuperare anche il morale. Nannelli era invece “passato” ed era il primo fra noi a fregiarsi del titolo: giusto.
Durante lo svolgimento del corso, eravamo rimasti temporaneamente bloccati a Punta Indren da una copiosa nevicata che intasò tosto gli scarichi del gas del locale bar ove bivaccavamo. Fu lui ad aprire una finestra mentre, non solo, avvertivo i primi segni di un avvelenamento.
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sono andato in montagna con uno dei primi tre istruttori, remo sartore. Momenti indimenticabili.Grazie Gianni, splendido ricordo!!
Marco Balestrero (e non Balestreri – sic -) corso scialpinismo 1966
Genova, città di mare, è la culla di un notevole ambiente alpinistico. Da sempre.
Mi capita di incontrare i liguri sulle creste dei 4000 battute da forti venti gelidi e li riconosci proprio perché “non fanno una piega”, abituati da sempre alle condizioni severe in cui normalmente operano a ridosso della mare. Sembra un paradosso, ma è la realtà.
Ancor più eclatante è il fatto che “marinai” come i liguri si dedichino allo scialpinismo.
Invece per torinesi come me, lo sci è un’appendice congenita: nasciamo con gli sci ai piedi, specie quelli da gita. Non c’è quasi merito per la passione che ci divora lungo tutta l’esistenza.
Viceversa staccarsi dal mare per cavalcare vette e creste, specie (ma non solo) con gli sci, è invece una “scelta” esistenziale cui rendo un omaggio sconfinato.
A proposito di “passione”…
Monumentale, ironico, storico, stoico, coinvolgente! Grazie Gianni, ti abbraccio. Marcello