Scuola di scialpinismo della Ligure – 2 (2-2)
di Gianni Pàstine
(pubblicato sulla Rivista della Sezione Ligure del CAI, dicembre 1992)
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Scuola nazionale
Il momento era comunque delicato. Il salto di qualità esigeva il suo prezzo; un prezzo da pagare in termini di efficienza tecnica e di effettiva esperienza scialpinistica. Me ne accorsi quando, a fine corso 1969, organizzai una gita al Monte Bianco, ingaggiando le guide Garda e Giometto. La cosa fece gola a troppi, fra cui chi non era obiettivamente capace. Non ebbi il coraggio di operare la dovuta dolorosa selezione e le avvisaglie delle difficoltà sorsero già prepotenti nella salita ai Grands Mulets, nonostante la presenza delle guide, il tempo, brutto fino a metà mattina si incaricò di fare giustizia; ma il rientro fu laborioso assai più del dovuto. Quindici giorni dopo, partecipai a una riunione di direttori di scuole alla capanna Gnifetti. Era stato invitato anche Gobbi che, in piena riunione, mi investì con una tremenda lavata di testa per via di quella gita. La cosa non mi fece ovviamente piacere; ma Gobbi aveva tutte le ragioni.
La splendida giornata, l’ottima neve, l’ottima prova puntigliosamente fornita, in tanto rispettabile compagnia, il giorno successivo alla Punta Parrot, valsero a rinfrancarmi.
Avevo avviato il corso successivo. Era entrato a far parte dell’organico anche Renzo Conte, simpatica figura di amico, dotato di ottima tecnica. Aveva un unico difetto: la puntualità era piuttosto un’opinione; ma la serenità del suo carattere supera tutto. Meravigliato e interdetto, ricevetti una lettera da Toni Gobbi: mi invitava, gratuitamente, ad un corso di tecnica sciistica in scialpinismo che avrebbe tenuto nel marzo successivo. Accettai e l’8 marzo 1970 mi presentai a S. Cristina di Val Gardena.
Per una settimana, fui passato al setaccio da lui e dal suo ottimo collaboratore Mario Senoner. I primi tre giorni furono duri da superare. Vitto e alloggio a parte, potevano assomigliare ad un servizio prestato in un battaglione di punizione, lustrando, a derapage, sotto imperiosi comandi, tutte le piste della Val Gardena. Poi, l’atmosfera cambiò di colpo. Ci lanciammo in diverse e non facili discese fuori pista terminando con la Val Mesdì, allora intonsa. Gobbi diventò l’amico più entusiasta.
Anche la mia tecnica era sensibilmente cambiata. Se ne sarebbero accorti, all’uscita successiva istruttori ed allievi della nostra scuola. Ci lasciammo nel pomeriggio del sabato fine corso. Gobbi cercò di insistere perché partecipassi con lui alla Haute Route dei Monti Pallidi. Ma il dovere mi chiamava. Salutandolo, non sapevo che non lo avrei più rivisto. Viaggiai per buona parte della notte e, la domenica mattina successiva ero in ospedale, pronto per coprire il turno festivo. Per inciso, allora, lavoravo qualcosa come sessanta ore alla settimana. Mi son sempre chiesto come ho fatto a continuare a frequentare la montagna dirigendo anche una scuola di scialpinismo.
Repentina giunse la notizia della sua morte al Sasso Piatto. Con lui erano altre tre persone fra cui la veterana Cicci Turati: un “lenzuolo” di neve, una gradinata rocciosa di venti metri. Non era stata fatalità. Anche lui aveva sbagliato. Ma era tanto onesto che, se la cosa fosse stata possibile, avrebbe zittito tutti, alla sua maniera, denunciando il proprio errore.
Nannelli ebbe l’onore di commemorarlo, a Courmayeur, durante i funerali. Quella domenica ero con la scuola sulla Bertrand. Giunto in vetta, schierai i presenti fronte al Monte Bianco e diedi l’attenti. La commozione era nell’aria e nessuno trovò la cosa retorica.
Al successivo corso INSA, oltremodo selettivo tanto da suscitare non poche, giustificate polemiche, Renzo Conte ottenne il titolo. Potevamo così fregiarci del titolo di scuola nazionale di scialpinismo, dopo la SUCAI di Torino e contemporaneamente alla milanese Righini.
Finiti i corsi, salii finalmente al Bianco con mia moglie, Turi Minotti, Licciardello e Cevasco. Per me e Turi era la prima volta dopo diversi tentativi. Cevasco vi era già salito prima della guerra! Non mi dimenticai di Toni Gobbi. Grazie per troppe cose: anche per quella lavata di testa…
La scuola si diede un’efficiente struttura organica e, a partire dal 1969, il corso divenne biennale. Al primo anno erano ammessi i principianti nello scialpinismo dopo una verifica della tecnica sciistica su pista. Per incrementare la stessa, auspici soprattutto Alberto Fascioli e Turi Minotti, si organizzò una scuola di sci a Frabosa con i maestri locali. Erano i tempi in cui, a Frabosa, nevicava e i fuori pista del Moro erano un incanto. Il primo anno curava la parte sciistica dello scialpinismo. Il secondo anno iniziava in autunno. Nelle palestre di arrampicamento genovesi curavamo la tecnica alpinistica necessaria, ivi compreso, è bene ricordarlo, la tanto utile esercitazione di arrampicata su roccia con i ramponi ai piedi così frequente in scialpinismo, così ostica e poco naturale. L’attività scialpinistica del secondo corso era di rango più elevato e terminava con uscite in alta montagna (Rosa, Alpi Centrali, Alta Valgrisenche). In tre riprese organizzammo anche un terzo corso per aiuto-istruttori, con buoni risultati. Il terzo dei tre fu diretto da Turi Minotti, uomo dalla teoria abbastanza grezza, ma dalla pratica sicura di chi è connaturato con la montagna. Concludemmo sull’Aiguille du Plan ove tirai fuori uno fra i miei migliori exploit.
Nel 1970, terza in Italia, la scuola consegue il titolo di “Scuola Nazionale”. Dino Romano e Benedetto Ferrando conseguirono, nel 1972, il titolo INSA in un impegnativo corso tenuto nel massiccio del Cevedale e diretto da quel formidabile duo che erano i comaschi fratelli Gilardoni. Pietro, il più anziano, perì poco dopo, travolto da una scarica di seracchi sotto la Sentinella Rossa, sul versante Brenva del Bianco. Luciano è sempre all’avanguardia tuttora. Nel 1974, al Benevolo, conseguivo anch’io, per il rotto della cuffia, il sospirato titolo…
Ma l’insegnamento è sterile senza la pratica individuale. In quegli anni, spesso con gli allievi più preparati, percorremmo molti fra i più celebri itinerari scialpinistici alpini: oltre al già citato Bianco, la Haute Route classica, in più riprese, l’Aiguille d’Argentières, la Barre des Écrins, la Nordend, la Dufour, il Castore dallo Zwillingletscher, i quattromila della Britannia, il Bieschorn, il Palù e la Haute Route delle Dolomiti, forse la più impegnativa di tutti.
Ricordo una curiosa scenetta sui Passo delle Farangole, da discendere, per almeno cento metri, senza sci e legati in cordata. Mentre scherzavo sulla cosa in francese, come ogni tanto mi capita, parafrasando il linguaggio della guida Vallot, Benedetto Ferrando ebbe un repentino scatto di nervi, presto superato, che, a lungo, ricordammo nel suo lato comico.
Ma, anche in estate, non ci facevamo pregare. Ricordo la bella stagione 1974. Sotto la forte e sicura guida di Benedetto Ferrando, ci portammo a casa Nord del Monviso, Nord della Monciair, Nord-ovest del Gran Paradiso e Sperone della Brenva al Bianco. In quest’ultima occasione era con noi anche Lorenzo Bonacini con l’amico Tedeschi. A dimostrazione del fatto che i rapporti con la vicina scuola di alpinismo fossero più concordi, l’autorevole compagnia di Lino Calcagno, nel pieno di un lungo periodo di prestigiose ascensioni condotte in massima parte da capocordata. Non facevano da comparsa mia moglie Margherita Solari e la Emma Bisio, quest’ultima sia pure con qualche tipico vociare in più. Benedetto ed io concludemmo con la via Campia all’Argentera. Quando, nel primissimo pomeriggio, varcammo la soglia del Remondino, il cordialissmo Piacenza tirò fuori una bottiglia delle migliori in nostro onore. Eravamo così illustri?
Ma non c’è rosa senza spine. L’avvio della stagione 1970/71 fu contrassegnato da un fatto sconcertante. Le repentine, apparentemente immotivate, irrevocabili dimissioni di Gino Felolo. Era sorto, è vero, uno screzio durante una gita collettiva ai Torrioni Saragat dove lui si era tirato indietro troppo presto, dove io ero invece andato troppo avanti facendo anche notte, sia pure senza conseguenze; ma uno screzio come tanti, che il buon senso di tutti avrebbe dovuto comporre. Invece niente. Non potevo dimenticare che aveva fatto molto, che era un impareggiabile organizzatore, che mi era stato vicino, in modo determinante, nel più difficile iniziale momento. Ora attraversava un periodo delicato e, come spesso succede, finiva per scaricare all’esterno le proprie difficoltà e anche le proprie frustrazioni. Era un momento in cui, mentre tutti andavano avanti, andava indietro. Succede. In cuor suo, avrebbe preteso anche ora di fungere da minimo comune denominatore di una attività che invece doveva elevarsi di tono. Tutte umane verità, soprattutto verità spiacevoli perché possono toccare a tutti. Trascorsero anni di incomprensioni, contrasti, ostilità neppure troppo velata. Cose favorite da un carattere introverso in un cervello fertile in organizzazioni. Scovò quasi subito quella che doveva essere una controattività. Il tempo si incaricò di ricomporre almeno in parte lo strappo. Soprattutto chi lo seguì lo fece senza alcun fine che non fosse l’andare in montagna.
Bisogna però riconoscergli un incontestabile merito. Seppe resuscitare quel morto che era l’attività gite sociali, e formare uomini idonei allo scopo che rimasero a lungo tali. L’istituto regge tutt’ora. Ha forse bisogno di una revisione e, guarda caso, trasferitosi lui, in seguito, alla vicina ULE, della quale è oggi presidente, sono di nuovo io ad avervi parziale voce in capitolo.
Un altro screzio lo causò una serie di incomprensioni nientemeno che con Ferrando. Qui eravamo all’opposto, in presenza di un estroverso, incapace di nascondere anche severe esternazioni. Con il consenso di tutti, importante sottolinearlo perché il caso è ben diverso, Benedetto andò a Sampierdarena dove però si accorse presto del fatto per cui troppe cose non facessero per lui. Migrò allora a La Spezia. Qui trovò l’entusiasmo dei neofiti. A turno, alcuni di noi furono chiamati a tenere lezioni e tutto si ricompose, né poteva essere diverso.
Ultimo, in ordine di tempo, il cambio della guardia al vertice della scuola. Era tempo. Ma avvenne con qualche, sia pure marginale, indelicatezza di troppo. Successe (Mannelli e, come ovvio, la sua presenza ricompose prestissimo quanto fosse da ricomporre.
L’atto conclusivo di tale periodo “storico”, può essere considerato quello legato ai due, finora, unici corsi liguri per istruttori di scialpinismo (ISA), il primo, tenuto principalmente alla Capanna Gnifetti, fu diretto dalla guida alpina Vittorio Bigio, il secondo, tenuto al rifugio Genova, all’INSA Carlo Aurelj, di Savona.
Fu simpatica la collaborazione regionale che, soprattutto a Savona e Sanremo, vantava elementi di prestigio. Anche se, alla prima riunione preliminare, un savonese si premurò subito di ricordarci che Andrea Doria aveva interrato il loro porto… Ebbero la loro “consacrazione” diversi nostri allievi veterani: Antonio Badano, Marino Bernardinelli, Pio Codebò, Alberto Dallari, Franco Porcile, Pino Caffaz, Walter Amisano, Gianfranco Fasciolo, Mario Bontempi, Lino Olivieri, Roberto Peraldo, Andrea Messina.
Spero di non aver dimenticato nessuno. Nella scuola ne erano passati ormai tanti, ivi compreso un elemento femminile che svolse attività non proprio di secondo piano.
Fino ad allora non ci era successo nulla o quasi. La montagna aveva continuato a mietere le sue vittime, ma altrove.
Solo in un caso ce l’eravamo vista brutta, in una fredda mattinata autunnale, al Pennone, l’allievo Piero Biggio, nel disincastrare una corda, aveva smosso un sasso che lo aveva colpito al petto facendolo cadere all’indietro.
Andò a sbattere proprio dove il casco non protegge. Diagnosticheranno frattura fra Rocca Petrosa e Mastoide. Interminabile parve la discesa, parte a piedi, parte in auto, a Voltri e la successiva corsa in ambulanza a San Martino. Alla sera Piero riprendeva conoscenza. Ogni tanto ci incontriamo sui treni del Levante, per coincidenti motivi di lavoro. Anche sua madre mi serbò sincero affetto fino al giorno della sua recente scomparsa. Ma era andata bene.
Eravamo saliti al Breithorn con il secondo corso in una freddissima mattinata di aprile. Ci stavamo apprestando alla discesa poco sotto la cresta est. La disgrazia si consumò improvvisa, quasi senza che ce ne accorgessimo. Badano si era arrestato, presentendo qualcosa di sospetto; ma Franca Caprioglio e Mario Lercari, che lo seguivano, lo superarono attratti evidentemente da un piccolo avvallamento più pianeggiante: il sottile ponte di un crepaccio che cedette sotto il loro peso, il coraggio di Franco Porcile, la forza e la determinazione sicura di Turi Minotti valsero più di ogni complicata manovra anche perché, al momento di tirare, eravamo in parecchi. Ma tornarono alla luce due salme. Trenta metri di caduta libera erano stati troppi. Vi fu chi, generosamente e con perizia, tentò un’ormai impossibile rianimazione.
Ormai serviva solo il medico legale che giunse sollecito da Zermatt con gli elicotteri di soccorso chiamati dai nostri, scesi al Plateau. A Zermatt, la polizia Cantonale fu di un’efficienza e di una gentilezza ammirevoli. C’era una delicata questione di confini di Stato da superare, che fu superata con antiburocratico buon senso. Prima del tramonto, il magistrato inquirente dì Visp archiviava il caso. Non servono altri commenti. Quando a Nannelli e ai parenti toccò il pietoso compito del rientro delle salme, anche i più sconosciuti abitanti di Zermatt ebbero premure per loro, ritenuti ospiti a tutti gli effetti. Ben diverso il battage di certa stampa, soprattutto di un foglio valdostano che titolava: “Li portano a morire” riportando gratuite affermazioni di una guida di Valtournenche. La disgrazia, come la stragrande maggioranza delle sciagure alpine, non avvenne affatto per pura fatalità; tuttavia, quando le guide di Ayas poco tempo dopo persero tre clienti sotto una valanga, nella discesa da Cime Bianche a Saint Jacques, nessuno fiatò. Non volli infierire su quelli che erano anche amici; tuttavia non mancai di evidenziare la cosa nella sede più opportuna.
Accusammo il colpo. Volò anche qualche frase concitata. Umano e logico. Da allora vediamo tutti la progressione su ghiacciaio con un occhio più sospetto. Ci confortò però la solidarietà dei famigliari dei Caduti. Franca Caprioglio era reduce da un brutto incidente stradale e da una lunga degenza ortopedica. Mario Lercari era un romantico. La sera prima al rifugio Teodulo ascoltava assorto i nostri canti di montagna.
Fu solidale con noi tutto l’ambiente alpinistico locale e la commissione centrale scuole di scialpinismo del CAI. Una solidarietà che non mancammo di apprezzare.
Nuovi orizzonti
Fu decisa nel frattempo una frequente rotazione nella direzione della scuola. Turi Minotti successe a Nannelli mentre si affermavano nuovi INSA: Fasciolo, Badano e, successivamente Codebò. il livello di qualità richiesto era cresciuto, sia nella parte alpinistica, ove il limite di difficoltà si avvicinava al V, sia nella parte sciistica che non poteva non risentire della espansione dello sci estremo. Ad esempio, nel corso in cui fu promosso Badano, gli esaminandi effettuarono la discesa in sci dalla vetta del Gran Zebrù. Se da un punto di vista sciistico la cosa può essere considerata al passo con i tempi, per quanto riguarda la parte alpinistica, siamo sostanzialmente fermi, specie per quel che riguarda la roccia; e l’attuale scarpa in plastica da scialpinismo non favorisce certo la progressione su terreno roccioso, quando è già problematico camminare su terreno che non sia innevato.
Ma gli organi centrali seguono una loro filosofia unificatrice abbastanza inattuale in tempi di specializzazioni centrifughe. Certo, un tempo si faceva di tutto, a più basso livello, e quasi con lo stesso paio di scarpe. Oggi si vorrebbe superare le spinte centrifughe a livello più elevato e specializzato.
Tuttavia l’eclettico, che non sia un professionista, può fare un po’ di tutto, ma non eccellere in tutto; più spesso non eccelle affatto.
L’attività dei corsi risentì per un po’ della recente sciagura. Nel 1980 mentre il primo corso terminava all’Arbola e al Sissone, il secondo terminava alla Tersiva e al Tambò. In compenso l’insegnamento acquisì sempre maggiore rigore tecnico. Si affermavano Marco ed Enrico Chierici, Antony Howes, Riccardo Mora, Paolo Gardino.
Quest’ultimo, che svolgeva un’attività alpinistica di livello elevato, sia pure con guida, frequentava anche un corso di sci estremo con Patrick Vallençant. Assidua l’attività di ex- allievi come i coniugi Traverso, la Magda Deferrari, Nico e Rosanna Oddone. Con Nico salirò in vetta al Gross Fiescherhorn, nell’Oberland. La solidità paesana di Nico mi fu di grande aiuto perché il ritorno alla Mönchsjochhütte fu per me sotto il segno del mal di montagna. Purtroppo, il destino, sotto forma di inesorabile male, era in agguato contro tale solido e generoso amico.
Mia moglie non aveva mai fatto parte della scuola; ma ne aveva sempre seguito praticamente l’attività. Per lei, la quota elevata non costituiva problema. Dopo prime esperienze fallite all’Huascaran e nei Tirich, non per colpa sua, salì al Trisul 7120 m nell’82 e al Muztagata 7546 m nell’84 stabilendo per alcuni anni un record femminile nazionale di altezza. In entrambi i casi, si trattava di scialpinistiche a oltre settemila metri. Fallì l’ottomila, il Shisha Pangma, ma, anche qui, non per colpa sua. Ad onta della statura non certo scandinava, è tutt’ora la donna più alta della città. Gianfranco Fasciolo entrava a far parte della scuola centrale di scialpinismo.
Il 1982 era l’anno della traversata scialpinistica delle Alpi. La nostra scuola era presente nelle frazioni Liguri, Marittime e Cozie. Vi partecipavano Fasciolo e Porcile per le Liguri, Bernardinelli, Bonacini, Gardino e Vian per le Marittime, Nannelli, Badano, Olivieri, Romano e Bisio per le Cozie.
Purtroppo la sciagura alpina si ripresentava verso il termine di un corso regionale ISA Ligure Piemontese. Il nostro Riccardo Mora, durante la discesa del Canalone delle Capre, in val di Lanzo, precipitava ed annegava in un torrente: una sorta troppo beffarda e crudele. Riccardo si era imposto come grande appassionato, ma anche come uomo solito a non lasciare nulla al caso. Era anche un apprezzato consigliere della nostra sezione.
Proprio della nostra Sezione ressi la presidenza dal 1979 al 1983 gestendo la celebrazione del suo centenario di fondazione. Nannelli fu anche qui fra i miei più apprezzati collaboratori. Le sue doti di equilibrio, la sua preparazione culturale, la sua versatilità nei rapporti umani risolse molte anche non facili vicende. Né va dimenticato che, in seguito al terremoto dell’lrpinia, assieme a Bisio, in quanto professionalmente più idonei, e ad altri consoci volontari, recò tangibile e qualificato soccorso ai sinistrati.
Il cambio della guardia avveniva anche al vertice della scuola di alpinismo. Pescia lasciava sostituito dal più giovane Sergio Casaleggio. Ultimamente e per un anno ero rientrato in tale scuola, suggellando rapporti tornati assolutamente cordiali. Il mio era stato un po’ il patetico ultimo rientro in squadra dell’anziano prima della chiusura. Non potrò dimenticare la sincera cordialità di giovani istruttori che, in gran parte, non conoscevo e il conclusivo titolo di istruttore ad honorem. Confesso che le pittoresche sfuriate dell’amico ci sarebbero mancate. La vita lo avrebbe colpito poi piuttosto duramente, non fu solo la montagna che gli strappò dei giovani amici che considerava come figli. Ma l’uomo saprà sopportare con serenità e dignità.
Gli orizzonti della scuola si ampliavano. L’inizio estate 1983 vedeva una spedizione della scuola di scialpinismo in Groenlandia, presso i fiordi di Angmassalik e Kungmiut. Capospedizione era Giangi Fasciolo, cui veniva affibbiato il nomignolo di capo polare (pare che così lo avesse chiamato una hostess in un aeroporto). Vi parteciparono Antony Howes, Marco ed Enrico Chierici, Emma e Gianni Bisio, Paolo Gardino, Bruno Vian, Magda Deferrari, Carlo Malerba, Mino Girelli, Rosanna Pisoni, Gemma Calcagno, oltre ai geologi Remo Terranova, Camillo Cortemiglia, Bruno Messiga e Gian Battista Piccardo. Vi collaborava appunto l’Università di Genova.
L’attività, favorita da buone condizioni meteorologiche e dalla assenza della oscurità notturna, fu nutrita; contò alcune prime ascensioni anche prettamente alpinistiche.
I nostri si ripeterono in Hoggar nell’autunno del 1984. La nota più caratteristica fu rappresentata da un momentaneo imprigionamento, pare per un cambio in nero. Fasciolo, medico, trovò la chiave di uscita assistendo la famiglia del capo della gendarmeria locale. Seguiranno le solite traversie aeroportuali di quei luoghi, culminate nel bivacco sui cartoni all’aeroporto di Algeri. Sono esperienze che affronterò poco dopo, non piacevolmente, avendo anch’io a che fare con islamici. Per chi cerca l’avventura il… diversivo è d’obbligo.
Ci lasciava Pippo Abbiati, nostro presidente onorario. Non potevamo dimenticare ciò che aveva rappresentato proprio nello scialpinismo.
Romano, Dallari, Bernardinelli si susseguirono alla direzione della scuola sempre più “professionale”. L’indirizzo, l’ossatura erano però sempre gli stessi, ormai collaudati. Agli istruttori nazionali si aggiungevano Marco ed Enrico Chierici.
Eravamo al venticinquesimo. Zitto zitto, Marino Bernardinelli, come è suo costume, con i più giovani ma emergenti Portelli e Rosati, saliva, in invernale, la Forcella dell’Argenterà per il canale ovest e discendeva per il Lourousa. Il tutto senza sci dato lo scarso innevamento che però era abbondante sulla parete est dell’Argenterà. Così, il normalmente innocuo tratto, fra la Cima Nord e il Colletto Coolidge, fu, di gran lunga, il pezzo di maggiore impegno. Fasciolo e Zilli effettuvano la severa traversata scialpinistica delle montagne della Corsica, da Haut Asco a Bastelica.
Era il mio turno di lasciare sia pure fra due canti del cigno: il Nevado Alpamayo con Roberto Peraldo e mia moglie, ma grazie agli amici della scuola di alpinismo Sergio Casaleggio, Daniele Demeneghi, Nando Dotti, Ubaldo Lemucchi, Camillo Aquilino, Ivano Pellegrino; i seimila boliviani Huayna Potosi e lllimani dove raggiungerò l’altezza massima. Prima di diventare, senza troppo rammarico, un ex in attività di retroguardia.
La scuola di scialpinismo, durante un congresso INSA, magistralmente organizzato a Palazzo Tursi, con la apprezzata determinante collaborazione dei Comune di Genova, volle premiarmi. Purtroppo, quel premio, unitamente ad altre non troppo indifferenti cosette, è finito in mano ad ignoti lestofanti, penetrati nella mia abitazione, grazie ai ponteggi e approfittando di sole tre ore di assenza…
Era obiettivamente tempo. Più volte ero rimasto indietro o non me l’ero sentita di scendere, sci ai piedi, da certi pendii dove scendevano anche allievi che non assomigliavano più affatto a quelli che, nell’ormai lontano 1964, mi avevano fatto far notte sul Monte Carmo da Propata. Il secondo corso 1989 prevedeva Barre des Écrins, Punta Lamet e Mont Maudit. C’è da giurare che gli sci sarebbero stati portati più in alto possibile. Pazienza! Importante non avere troppi acciacchi e poter in qualche modo continuare.
Non era così per l’amico e maestro Nannelli, maestro di vita soprattutto. Una inesorabile quanto quasi misteriosa malattia gli aggrediva lentamente ed inarrestabilmente il sistema nervoso. Fino all’ultimo cosciente, volle seguire la nostra attività anche quando gli riuscì difficile esprimersi. Se ne andò con la dignità di sempre, assistito fino all’ultimo dall’affetto di quella famiglia nella quale si riconosceva la sua “mano” e oggi i figli di Marcella e Giovanni sono istruttori nella scuola.
Si chiudeva un’epoca, ma la vita ha sempre i suoi pieni diritti. Anche, ad esempio, nel caso dell’amico Benedetto, giunto finalmente ad accasarsi. La sua segreteria telefonica non avrebbe più risposto che era “momentaneamente assente” (per andare in montagna s’intende). Evidentemente per recuperare il tempo perduto, si era caricato, sulle capaci spalle, in brevissimo tempo, una famiglia intera. E la cosa ha tutta l’aria di renderlo felice.
Oggi
L’attualità è quella di un fenomeno ben consolidato. Una struttura la cui vita è decisamente professionale, il cui ricambio avviene, di regola, secondo le leggi della fisiologia. L’attività è sempre articolata su due corsi, uno per principianti e uno di completamento. Non ordinariamente, ma frequentemente, viene organizzato un corso per aiuto-istruttori, il numero di allievi ha denunciato, recentemente, una lieve flessione. Non estranee al fenomeno iniziative a prezzi concorrenziali. È una cosa risaputa che, almeno in un primo tempo, l’utente guardi alla convenienza economica, accorgendosi solo più tardi delle caratteristiche relative alla qualità della prestazione richiesta. È una mentalità che proviene troppo ovviamente dall’assistenzialismo pubblico cui l’italiano medio è avvezzo da tempo; con le conseguenze che conosciamo. Invece la qualità ha un’importanza determinante e anche un prezzo che non può essere politico. Né è più tempo di ripararsi dietro lo scudo dell’amicizia. Quando le cose vanno male troppi cosiddetti amici si defilano; mentre quel che è fatto bene serve anche a cementare l’amicizia, quella vera.
Il CAI, abbastanza succube di una demagogia di vertice o di base, appare riluttante a mettere le cose a posto. È un po’ come la storia della quota unica nazionale, proporzionale al costo effettivo del socio, proposta dall’INSA Pier Lorenzo Alvigini, già presidente della sezione di Torino, che sarebbe la base del riordino ma che provocherebbe un rischio di conflitto interno. Così c’è ancora chi accoglie senza distinzioni, chi promuove sul campo chi faticherebbe ad essere un decente allievo.
Nella nostra scuola, l’attività alpinistica del singolo è sinonimo di esperienza da trasmettere e viene promossa anche per gruppi di istruttori mentre gli aggiornamenti collettivi sulle varie tecniche sono frequenti. Sono proseguite le uscite extra alpine: una traversata della penisola di Lingen, in Norvegia, sotto la direzione di Romano; la partecipazione di Fasciolo ad una spedizione nazionale che attraversa la Groenlandia da costa a costa.
La novità recente è costituita dal gruppo ex-allievi, curato da istruttori usciti, almeno parzialmente, dalla attività didattica. Viene favorito così un tipo di continuità scialpinistica dopo i corsi per meglio maturare esperienza.
Trent’anni sono tanti e sono pochi, perché l’organismo, se ha già maturato esperienza, dimostra anche di essere nel pieno delle proprie energie.
30
Gallese!!! La vita semplice vien vissuta benissimo da soli ed è molto bella.
Bella conclusione della prima parte. Complimenti a Pastine per lo scritto.
Confermo i miei commenti dell’altro giorno sui liguri in montagna: tenaci!
PS per Paolo Gallese: io non ti prendo per nulla in giro e anzi esprimo molta ammirazione per le tue scelte
La foto della traversata del Castore non mi pare sia presa sul Castore…
Ehm… A rileggermi sembra il lamento del libro Cuore. 🙂
Siete liberi di prendermi anche in giro, come si farebbe in una bella scuola 😉
È stata una scelta necessaria. Mi vergognavo a dire di non avere i soldi per partecipare a questo e a quello. Inventato delle scuse, che alla fine ti fanno ritrovare solo. Da solo potevo bivaccare dove volevo, mangiare pane e frittata, organizzare le mie modeste ascensioni portando il materiale in quota in più viaggi in trenino e pullman. I miei tempi erano costretti ma dilatati. Ho vissuto piccole esperienze straordinarie. Ma lontano dagli altri che avrebbero sorriso del mio “sbattimento”, del mio inventarmi quando non avevo abbastanza mezzi. Questo mi ha rafforzato, reso resistente e a mio agio in condizioni terribili. È stato ed è meraviglioso. Ma continuo ad essere non facoltoso (la famiglia ha la precedenza assoluta sulle mie finanze).
E, oggi che tutto é ancora piú costoso, continua la mia solitudine nelle terre alte.
Paolo, è bello stare in compagnia: ridere e scherzare, salire e scendere con amici e futuri amici.
Ma, almeno di tanto in tanto, è bello andare per i monti in solitudine. Si può provare una sensazione di libertà totale, come nei nostri sogni migliori. Per chi sia in grado di apprezzarla, è una delle gioie della vita.
Ho vissuto poco l’ambiente delle scuole. Tante cose erano troppo costose per me e avevo altre spese cui badare. Il poco per me lo investiti sempre in attrezzatura, così divenni un solitario, imparando più lentamente. Molte cose non le ho mai imparate.
Leggendo questo bel racconto di vita, mi sorge una malinconia. Di quanto si nasconda dietro le persone che a volte incontri, in alto.
E di quanto, pur nella gioia delle mie solitudini in quota, io abbia perso.