La recentissima disgrazia del Monte Chaberton (nella quale sono morti Adriano Trombetta, Antonio Lovato e Margherita Beria d’Argentina), ultima in una serie impressionante di incidenti, ha provocato una lunga lista di commenti più o meno sgomenti. Tutti a sottolineare la grande domanda che ci facciamo sempre di fronte alla morte imprevista. Domanda e risposte ci persuadono dell’assoluta necessità di tentare di fare chiarezza, consapevoli che, per ottenere lo scopo, sono richiesti nientemeno che il ridimensionamento della nostra cultura della sicurezza e la messa in discussione dei fondamenti dell’informazione prevalente, in definitiva il ribaltamento della nostra attuale educazione culturale (AG).
Antonio Lovato, Margherita Beria d’Argentina e Adriano Trombetta
Sicurezza e Natura
di Lorenzo Merlo
(scritto nel 2010, rivisto il 17 febbraio 2017)
Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza (Friedrich Nietzsche – Così parlò Zarathustra)
La cultura che c’è
Disponiamo oggi di una cultura, di principi e di logiche fondate su criteri commerciali, del profitto, su quelli materialistici e su quelli analitico scientifici, quindi su quelli tecnologici e naturalmente su quelli dell’apparire. Da queste basi, lontane dall’essenza di noi stessi, traiamo le verità per le circostanze della vita. Una di queste riguarda la sicurezza. Ci dicono che per produrre sicurezza sia necessario conoscere, sapere ed avere. Conoscere territorio e tecniche; sapere regole e manovre; avere strumenti ed equipaggiamento. Un insieme apparentemente legittimo ed irrinunciabile, di forte magnetismo. Che diviene infatti forte premessa per farsi rapire dalla convinzione che senza tutte le tecniche e tutte le attrezzature si alzino i rischi d’incolumità; che altra modalità per abbassarli non vi sia. O più minutamente che qualcuno dica che indossare l’ARTVA permette anche di farsi travolgere, tanto ti trovano; che basta qualche artva per tutto il gruppo.
«Andranno a cercare la loro identità non più nella loro interiorità, ma, per effetto della dissolvenza dell’Io nelle regole che li normalizzano. Il loro sguardo non sarà più rivolto a sé, ma fuori di sé, non più sul mondo, ma sulle parole che lo descrivono (Umberto Galimberti – Paesaggi dell’anima – Mondadori»
In questa cultura, siamo indotti ad accreditare di verità ciò che ci corrisponde alla perfezione, senza riconoscere che quell’attributo non appartiene alla sicurezza, che è una nostra inconsapevole investitura. Siamo indotti fin dalla scuola, poi dai media, dalle leggi, a ridurre la vita entro gli assunti della geometria piana, prostrati adoratori di una realtà che stia entro i precetti della matematica.
«… ma l’esattezza non mette in questione la verità, ma semplicemente la coerenza tra premesse e conseguenze, una coerenza che comunque è richiesta dopo l’adozione di un metodo e all’interno del metodo».[1]
«Nelle scienza non solo il tema viene posto dal metodo, ma viene immesso nel metodo e vi resta sottoposto».[2]
La cultura soffocata
Ma allora il Camoscio e il Tuareg come producono sicurezza? Come la producevano i nostri vecchi montanari e come fanno i nomadi Kuchi dell’Afghanistan? Non hanno fatto il corso di orientamento, né hanno la bussola. Il camoscio non sa fino a che inclinazione può attraversare una colata ghiacciata e un tuareg non ascolta le previsioni delle tempeste di sabbia prima della transahariana. Cioè, non hanno e non sanno. La loro sicurezza è legata alla relazione con l’ambiente. La nostra predilige la relazione io-pensiero piuttosto che quella corpo-mondo.
«… il nemico più ostile è sempre stato dentro di noi, non fuori (Alessandro Gogna – La parete – Zanichelli)»
Per noi, la confezione del sapere conta di più della vita che l’ha generato. Abbisogna di tornare alla terra per sentire la fonte archetipica e scoprire un se stesso ripulito dalle idee e dalla conoscenza con la quale ci eravamo fin lì identificati.
«Le idee che abbiamo e che non sappiamo di avere ci possiedono».[3]
Allora, come loro, non pregiudicheremmo ciò che permanentemente sentiamo e coniughiamo da ciò che sappiamo, dall’esperienza che abbiamo. Cioè da quella parte noi, da quell’io che nella mitologia si chiama eros, fuoco creativo, potenza incorrotta, fonte di forza e bellezza.
«Chi perde il contatto con l’Eros che è l’amore, il piacere, l’unione, la libertà, la verità, la libertà di dire la verità, perde la capacità di sentire l’altro e di dare un significato emozionale alle relazioni con le persone e con tutto ciò con cui viene a contatto. Perde il senso, cioè la funzione di tutto ciò che fa».[4]
Noi, che siamo indotti a concepire la natura alla stregua di un campo sportivo ove applicare la nostra passione;
noi, che crediamo di essere superiori e separati dalla natura;
che siamo indotti ad identificare la nostra autostima con il successo della nostra prestazione;
che ci siamo convinti a credere che per avvicinarci a certe attività dobbiamo fare il corso per…;
che concepiamo il corso alla stregua di una iniziazione compiuta invece di un semplice avvio dell’iniziazione;
che consideriamo la sicurezza un contenitore da riempire con tutto ciò che possiamo trovare fuori da noi stessi;
noi, che lo riempiamo acquistando goretex, pala, artva e sonda e tanto altro, raccogliendo bollettini meteo, imparando tecniche, siamo spesso dimentichi della cultura della montagna e della natura, che prima della materia necessita dello spirito.
«Sappiamo infatti che la scienza non ha rapporti con la verità, perché ciò che essa produce sono solo proposizioni esatte, cioè “ottenute da” (ex actu) le premesse che sono state anticipate, per cui, accostare l’inconscio “scientificamente” non significa trovare la verità dell’inconscio, ma semplicemente quel risultato che il metodo ha prodotto».[5]
Diversamente avviene attraverso il modo della relazione. Una modalità che non interrompe l’ascolto di noi stessi, degli altri, del contesto, che non prevarica le informazioni raccolte in quel modo da egoismi, narcisismi, prepotenze, arroganze, millantamenti, velleità. Con il modo della relazione molte informazioni utili alla sicurezza non scompaiono più sotto il peso di ciò sappiamo per studio ed esperienza, si radunano, come nell’amore.
«Educati a questo scenario dalla parola scienza, che non ha risparmiato neanche le “cose d’amore”, abbiamo detto addio al cielo e alla terra, addio all’armonia (Umberto Galimberti – Paesaggi dell’anima – Mondadori)»
«Per questa ragione lo psicoterapeuta dirige la sua attenzione non al “cosa”, bensì al “come” dell’azione, in esso è compresa tutta l’essenza della persona che agisce».[6]
Percepire una disarmonia in noi, nel gruppo, non avrebbe come reazione il tentativo di reprimerla, semmai il contrario, in quanto una condizione alterata non permette la creatività disponibile in uno stato d’armonia. Il solo che ci dà accesso al tutto che sta accadendo, fino alla chiaroveggenza. Un termine che non deve gelare. La madre è fortemente chiaroveggente nei confronti di quanto accadrà al figlio. Lo è perché ne è in relazione, non solo perché ne conosce le caratteristiche tecniche.
«Ci porta molto lontano dalla fonte dei simboli ogni ampliamento e rafforzamento della coscienza razionale, il cui prevalere ne impedisce la comprensione. Questa è la situazione odierna e non si può invertire il giro della ruota e tornare a credere in ciò “di cui si sa che non è”. Eppure è necessario rendersi conto del vero senso dei simboli, non solo per conservare alla nostra civiltà tesori incomparabili, ma aprirsi una nuova via ad antiche verità che, per la stranezza del loro simbolismo, sono perdute per la nostra ragione».[7]
Con una cultura della relazione, meno cosiddetti turisti si muoveranno in ambiente aperto come fossero su un campo da tennis. Più individui potranno riconoscere distintamente la propria natura, i propri limiti. Più alpinisti saranno in grado di rispettare la propria motivazione, alla faccia di una tacca in più sulla piccozza.
«Non ero in forma, anzi ero un po’ spaventato perché non ero salito bene. Non ero sicuro. Guardai in alto, c’era ancora un muretto e poi la grande placca più facile. Mi avvicinai al muretto, tentai con precauzione di salire ma non mi fidavo delle suole ed ebbi paura. Non era il momento di salire, non era il luogo. Ma non era neppure il momento di esserne dispiaciuti».[8]
L’alpinismo è il prodotto di cultura che coinvolge la natura umana, la sua ricerca, la sua paura, la sua necessità di bellezza. Non è solo di svago, non è solo tecnica come accade per lo sport.
«… ciò che importa è lo spirito con cui si va a fare la cosa. Con umiltà avrei voluto tornare, senza progetti e senza mete, ma con l’intenzione di imparare, di capire perché noi siamo rimasti così indietro (Alessandro Gogna – La parete – Zanichelli)»
Test
Prendiamo un gruppo eterogeneo di persone, professionisti inclusi; chiediamo loro di parlare di sicurezza.
L’ipotesi che – dalle considerazioni più semplici a quelle più argomentate – la maggioranza del gruppo esprima idee e posizioni relative alla dimensione del sapere e dell’avere, alle tecniche e all’esperienza, alle manovre e alla competenza è la più accreditabile. Quel gruppo è emblematico di come la nostra cultura tecnicistica e materialistica, quindi noi tutti, concepiamo la sicurezza. Concezione che facilmente dimostrerà quanto non siamo in grado di tener conto di come ci sentiamo, quindi di come ci approcciamo. Né potrà tener conto delle motivazioni, né della precarietà/solidità del nostro equilibrio, infine della concreta disponibilità a modulare scelte e comportamenti all’uopo della sicurezza, fino alla rinuncia.
È una cultura concentrata sull’analisi e la misurazione quantitativa della realtà, che ha tralasciato di coltivare anche la scienza che deriva dalla sua sintesi, in grado di cogliere il suo spirito, noi inclusi. Che non ha coltivato l’ascolto, ma non per questo rinuncia all’incontrastata predilezione per il giudizio. Che si sente perciò in grado di chiamarsi fuori da ciò che crede di vedere là fuori nella realtà da lui separata. Ovvero che non si avvede che quanto sta considerando non è altro di ciò che ha filtrato, radunato e riformulato secondo personali esigenze e stati d’animo.
«La scienza è pur sempre un’ideazione che l’umanità ha prodotto nel corso della sua storia, sarebbe perciò assurdo se l’uomo decidesse di lasciarsi definitivamente giudicare da una sola delle sue ideazioni».[9]
«La quiescienza della volontà è parzialmente dovuta al suo essere una forza che inibisce, più di quanto positivamente agisca. Il desiderio afferra, trascina, sprona all’azione. La volontà – se rettamente usata – si limita a scartare tutti gli ostacoli, a chiarire il campo e a lasciare libero uno spazio nel quale la mente può osservare e creare (Adelaide Gardner – Meditazione – Astrolabio)»
Così, notevoli potenzialità umane – quando considerate – sono trattate alla stregua di inopportune o – alla meglio – relegate in sfere a parte, della religione, della teoria; alla peggio, del mistico, dello psicotico, del ciarlatano e via scendendo.
Ma spirito e ascolto permettono di accedere a una condizione inaccessibile in altro modo. Entrambe dimensioni umane tralasciate o, bene che vada, coltivate individualmente da alcuni, nonostante tutti al momento opportuno, inconsapevolmente ne sfruttiamo le potenzialità. Così fa il borseggiatore per scegliere la tecnica e il momento del suo misfatto, così fa la zia Pina quando scola la pasta per la millesima volta senza correre il rischio di finire al reparto grandi ustionati, così fa il ragazzino che per ottenere piange con qualcuno ma non con qualcun altro.
Entro le nostre autentiche motivazioni e disponibilità, genereremo comportamenti in armonia e in coniugazione con l’ambiente e le persone. Cioè senza il permanere di sentimenti negativi, né perdita del controllo, con la crescente libertà dall’identificazione con il giudizio che ne diamo. È questo un fulcro del modo della relazione. In altre parole, muovendosi a propria misura, non a quella della norma, né a quella del più esperto.
Entro quelle motivazioni, siamo nell’invidiabile condizione per liberare il nostro gradiente di creatività, di responsabilità, di crescita e di saggezza. Tutte utili per ridurre l’imprevisto, per gestirlo al meglio sfruttando l’esperienza, la conoscenza e la tecnica, a quel punto non più timoni ma strumenti delle nostre scelte. Inclusa quella della rinuncia. A quel punto però, senza frustrazione e rimpianto. Sofferenze tipiche di una psicologia che ci lega ad un noi inopportunamente idealizzato, lontano dalla nostra vera natura, destinato a riconoscersi solo nel successo e nel riconoscimento di questo da parte dell’altro. Psicologia minante, perfetto habitat per muoversi oltre la propria misura, dimensione, condizione e motivazione.
«… le generazioni successive sono andate via via estraniando da quegli eventi naturali di cui l’uomo rifiuta i messaggi, fino al punto di perdere la sensibilità a coglierne la presenza. Si tratta di un rifiuto umano nei confronti dell’esperienza diretta.
[…]
L’uomo tecnologico è sempre più sollevato dall’onere di verificare di persona e da quello di pensare in proprio. Con ciò l’esistenza diviene apparentemente molto più “facile”… (Enrico Grassani – L’altra faccia della tecnica. Lineamenti di una deriva sociale prodotta e subìta dall’uomo – Mimesis)»
«Sul modello tecnico che ricalca l’esigenza del “tutto calcolabile”, le cose tendono sempre più a perdere la loro segreta e specifica valenza per consegnarsi alla mesta equivalenza della regola, che in modo univoco e prestabilito codifica il significato di tutto».[10]
La cultura che vorrei
E’ il modo della relazione che, nonostante il semaforo verde, ci induce a guardarci in giro. Rinunciare a metterci in relazione con l’ambiente alza il rischio d’imprevisto. Affidarci al verde del semaforo, rinunciare all’osservazione apre all’eventualità di incontrare qualcuno che – nonostante il suo rosso – in quel momento transita insieme a noi.
Il modo della relazione implica l’assunzione di responsabilità assoluta. Non ci soddisferà più quella attribuita da leggi e circostanze, in quanto sapremo che delegare il comando, la salute, la sicurezza è comodo ma non ci solleva dall’onere di quell’attribuzione, non ci esonera dallo sviluppo degli eventi. Ciò vale anche se ci siamo affidati alla tecnologia, all’esperto, al campione, perché abdicare a mantenere la relazione con l’ambiente resta una nostra sovranità.
Come Messner cita il “killer tecnologia” (Corriere della Sera 28.12.09), così possiamo arrivare a citare la nostra cultura, i nostri esperti e le nostre istituzioni che, non a caso, cercano nei modi (doppio guardrail), nelle parole (“Non soccorriamo chi provoca incidenti”) e nella logica (regolamentarismo, magari anche punitivo) di annientare il rischio, come se la sicurezza fosse raggiungibile. In quel caso, un ulteriore passo di allontanamento dal cuore del problema verrà compiuto.
La miglior propaganda per la sicurezza, il miglior modo per ridurre il rischio è concepirlo come ineludibile. Frequentare la natura in sicurezza è un ossimoro, nonostante sia stato – speriamo – lo slogan delle Guide alpine italiane per molti anni.
«Vivo nelle regole sacre
Al cielo lo sguardo ho volto
Vivo nelle regole sacre
Molti sono i miei cavalli (Canzone pellerossa, da Gogna Alessandro – La parete – Zanichelli)»
Non è dunque il decalogo ad essere utile. Esso è buono solo per l’intellettuale e per chi a sua volta sarebbe in grado di crearlo. Esso non è buono perché l’esperienza non è trasmissibile. Affinché qualcuno lo rispetti è necessaria una cultura che coltivi il senso di responsabilità nei confronti di tutto.
Utile sarebbe se le scuole di giornalismo e le redazioni dedicassero spazio a docenze di Messner, Gogna, Chouinard e altri, affinché la montagna da campo sportivo torni ad essere la montagna.
«Non più “incedere elegante e veloce”, non più narcisismi idioti».[11]
Affinché anche l’ultimo redattore non abbia più l’inerzia a scrivere “montagna assassina” o associare lo sport a qualche attività dell’alpinismo, sennò, perché mai Messner avrebbe intitolato un suo libro “Sopravvissuto” e non “Vincitore”?
«… il linguaggio non è unicamente il veicolo della cultura, ma ne costituisce il principio vitale».[12]
Al momento il libro più venduto è Il manuale di questo e di quello, siamo in attesa e in azione per vedere la rimonta di Polvere profonda, Dolores La Chapelle.
Note
[1] Galimberti, Umberto – Paesaggi dell’anima – Mondadori
[2] Galimberti, Umberto – Paesaggi dell’anima – Mondadori
[3] Calloni Williams, Selene – James Hillman. Il cammino del “fare anima” e dell’ecologia profonda – Mediterranee
[4] Mereu, Gabriella – La malattia: la trappola dell’Eros
[5] Galimberti, Umberto – Gli equivoci dell’anima – Feltrinelli
[6] Jung, Carl Gustav – Psicologia e alchimia – Bollati Boringhieri
[7] Jung, Carl Gustav – Tipi psicologici – Boringhieri
[8] Gogna, Alessandro – La parete – Zanichelli
[9] Husserl, Edmund – La crisi delle scienze europee – Il Saggiatore
[10] Grassani, Enrico – L’altra faccia della tecnica. Lineamenti di una deriva sociale prodotta e subìta dall’uomo – Mimesis
[11] Gogna, Alessandro – Un alpinismo di ricerca – dall’Oglio
[12] Bachelard, Gaston – Il diritto di sognare – Dedalo
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(che è più appassionato di qualsiasi appassionato del mondo! anche quando non lo sembra),
Ma io non ne farei di qualifiche: chi è più , chi è meno.
Come per ogni post si nota la grande muraglia che divide le opinioni dei professionisti da quelle dei normali appassionati. Ognuno ha le sue ragioni e entrambe sono da capire, ma la montagna negli occhi e nei cuori di un appassionato e di un professionista (che è più appassionato di qualsiasi appassionato del mondo! anche quando non lo sembra), resterà SEMPRE una cosa diversa.
In ormai oltre 30 anni di passione e professione (sono un alpinista che fa la guida per campare convinto che sia un modo maledettamente giusto) ho capito che il ridurre questo divario è la mia missione, ma lo avverto ogni tanto, come una folgorazione intermittente e perpetua.
E quando lo avverto lo dico.
“Sono loro che ti fanno le domande e tu rispondi, non puoi esprimere i tuoi sentimenti e rischi addirittura che quello che dici venga travisato e ti garantisco che pesi tutte le parole cercando di rimanere sull’oggettivo.”
Ai giornalisti, visto che spesso e volentieri travisano, si può anche non rispondere.
Mica sono la gestapo. Mica sei sotto tortura.
Vittorio sono d’accordo con te, per me la sicurezza è difficile da avere, al massimo ci si può “sentire” più o meno sicuri.
Ma il fatto che su quella cascata ormai maledetta fossero in 5, dei quali tre erano tutt’altro che principianti e due erano istruttori nazionali, il top nel cai di preparazione e conoscenza, e nessuno di tutti loro sia stato in grado di fare una valutazione corretta delle condizioni, mi sembra dia molto da pensare sia come esempio agli inesperti, usato dai media con voluttà, sia al sistema globale dell’alpinismo di massa. Direi che una discussione come questa che leggo da giorni non sia da censurare anche se talvolta diventa un po’ polemica.
Vittorio,
Quella di Giglio è una intervista (non un post dove uno può esprimere i propri sentimenti a freddo) presa al telefono il giorno della disgrazia quando Matteo era in montagna a lavorare e nulla sapeva di chi era morto.
Non sapendo bene la dinamica dell’incidente Matteo ha detto quello che qualunque professionista serio avrebbe potuto dire esponendo linee guida generiche per la gestione del rischio in cascata (per evitare il rischio che l’arrampicata su ghiaccio venga paragonata ad una normale attività sportiva) e sottolineando, a dispetto di quello che dicevano i giornalisti in quei giorni, che Bonne Année non è una cascata facile ne tantomeno sicura (paradossalmente ridando a quella cascata “svilita” nel grado e nella pericolosità il suo valore effettivo).
Quindi, capisco il dolore per quei ragazzi, mi si stringe il cuore e mi viene rabbia come mi dispiace tantissimo per Adriano e Co.., ma per favore finiscila di buttare inutilmente fango su altre persone.
Qualche giorno fa c’è stato un incidente su una altra cascata.
(tutto relativo) e una giornalista mi ha chiamato in quanto Guida e in quanto la scalai anni fa.
Sono loro che ti fanno le domande e tu rispondi, non puoi esprimere i tuoi sentimenti e rischi addirittura che quello che dici venga travisato e ti garantisco che pesi tutte le parole cercando di rimanere sull’oggettivo.
Poi ripeto se uno scrive un post… è una cosa più diretta e ha la possibilità di esprimere meglio sia le idee tecniche che i sentimenti.
Cari Stefano e Marcello, lungi da me il fare della polemica. Avete ragione sul fatto che entrambi cercano di analizzare il fatto perché si verifichi il meno possibile in futuro, ma è innegabile che uno lo fa in modo velatamente supponente e giudicante, della serie “succede solo a sprovveduti che non hanno ascoltato la mia verità”, l’altro invece in modo empatico e solidale (“questi rischi li corriamo anche noi tutti i giorni, gli stessi rischi, e continuiamo a correrli perché pieni di entusiasmo e passione”), consapevole che nessuno è al riparo dai rischi, non perché siamo tutti incapaci, ma perché ciascuno di noi va in montagna esattamente per il contrario, correre dei rischi facendo il meglio per gestirli e minimizzarli; quando questo non riesce e arriva la tragedia, sentiamo di essere tutti nella stessa barca. Una bella differenza fra i due!
Dice Giglio: “… c’è un sacco di gente che fa questo tipo di attività, è diventata la trasposizione invernale dell’arrampicata sportiva su roccia. … Bonne Année non è una cascata per principianti ed esige una preparazione tecnica già di un livello superiore” (a chi ti riferisci? Non ai nostri, non erano né climber né principianti, e neanche assatanati della domenica perché era giovedì; e allora perché usi la loro tragedia per esprimere banalità generiche? Queste sì, Marcello, sono sempre uguali noiose e zero costruttive.
Dice Gallo (che evidentemente è stufo, come me, di interventi di avvoltoi): “Quando succede un incidente in montagna iniziano a parlare i cosiddetti esperti. … quando questi sapientoni sono anche dei reali frequentatori delle montagne e conoscono il piacere di una bella salita di ghiaccio e di una sciata in neve fresca, ci rimango male. Sì, perché sappiamo che fare queste cose comporta dei rischi e questi rischi li corriamo anche noi tutti i giorni, gli stessi rischi, e continuiamo a correrli perché pieni di entusiasmo e passione per quello che facciamo. È veramente troppo facile fare i sapientoni del giorno dopo!
Voglio solo dire poche cose: la prima è che ieri ero partito guardando le previsioni e mi sono ritrovato inaspettatamente a spogliarmi per il caldo esagerato assolutamente superiore a quello previsto. …
Quante volte mi è capitato di vedere l’acqua scorrere sotto il ghiaccio, quante volte mi è capitato di piantare la piccozza e veder uscire uno spruzzo d’acqua, quante volte mi è capitato di trovare una crepa orizzontale che taglia la colata ghiacciata, tante…
Quanti amici hanno visto la cascata crollare, alcuni fortunati, altri no”.
Non mi sembra che dire così sia mettere la testa sotto la sabbia per un malinteso senso di rispetto. Anzi, questo è sentire fraternamente la precarietà di una condizione di pericolo che assumiamo “al meglio” e che che non risparmia nessuno, tantomeno chi per esorcizzarlo si erge a depositario di un sapere rivelato.
Concordo appieno col commento di Marcello sia come alpinista che come Guida Alpina.
Più volte davanti ad incidenti occorsi, molti hanno rivendicato il fatto che non si può mettere la testa sotto la sabbia e non dire nulla per un senso di rispetto poco probabile quindi non vedo come lo scritto di Giglio si possa leggere come critica diretta al fatto accaduto. Credo invece che si possa inserire in un’ottica di intento a creare una cultura diversa da quella dell’eroe a tutti i costi che è attualmente in voga e che sia stato scritto in questo momento è dato soltanto dal fatto che in questo momento era accaduta una tragedia ed è ovvio i media siano sensibili e quindi sfruttabili.
Gallo concorre dal canto suo parlando di altri aspetti.
Sono due articoli diversi che trattano gli stesi argomenti da punti di vista diversi.
Tutto qua!
Sinceramente le considerazioni di Giglio non mi sembrano così critiche nei confronti dei poveri alpinisti caduti a Gressoney. Mi sembra, il suo, un discorso in generale che riguarda l’approccio tecnico alle cascate, sul quale non c’è nulla da dire.
Mettere in competizione i pareri di Gallo e Giglio sul piano tecnico-umano mi sembra inutile, pur restando i due commenti entrambi sinceri e validi.
Non si tratta di fare gli esperti a tutti i costi dopo un incidente sicuramente evitabile, anche se i due lo sono sul serio, ma semmai si tratta di analizzare il fatto al fine di avere più elementi affinché non si verifichi più. E mi sembra che sia Giglio che Gallo lo abbiano fatto.
Da guida alpina, in questi casi, il coinvolgimento è sempre umano (mica siamo degli automi pronti solo a presentare la parcella o a difendere il campanile come purtroppo credono in molti) e tecnico insieme, semplicemente perché nella pratica dell’alpinismo questi due elementi sono imprescindibili l’uno dall’altro. Poi ci sarà chi, anche per carattere, esterna maggiormente un aspetto rispetto all’altro, ma per favore piantiamola lì di dire cose a sproposito e sempre uguali, noiose e zero costruttive.
L’intervista di Matteo Giglio è su Repubblica pagine di Torino del 17 febbraio
http://torino.repubblica.it/cronaca/2017/02/16/news/tragedia_di_gressoney_la_guida_alpina_scalata_sul_ghiaccio_ormai_e_sport_di_massa_-158498928/
Da confrontare con il commento di Maurizio Gallo su montagna.tv, ben altra umanità:
http://montagna.tv/cms/104020/sto-male-per-questi-ragazzi/
Caro Vittorio Lega, il commento di Matteo Giglio cui fai riferimento dove è stato pubblicato?
Parafrasando De André, c’è ben poco merito a sopravvivere, e ben poca colpa a morire in montagna. Bell’articolo e bei commenti, devo dire che fra le cose che ho letto in questi giorni, l’unico fuori strada è Matteo Giglio, ancora arroccato a tacciare di incompetenza i toscani della cascata, ai quali va il mio ricordo e il mio affetto. Irrispettoso Giglio, non solo umanamente, ma tecnicamente.
Probabilmente sono stato infelice nello scritto. Mi riferivo alle persone che si sono auto elette a GUIDA ALPINA e che affrontano la montagna senza nessuna preparazione tecnica. Giammai parlerei male delle GUIDE ALPINE.
Da quando la “sicurezza” è diventata “sicura” mi sembra che il numero di morti, che si possano valutare come “evitabili”, sia aumentato in modo notevole fra i professionisti e gli istruttori di vario genere.
La gente che va in montagna è aumentata di tanto, mi domando se anche i professionisti e gli istruttori hanno avuto le stesse percentuali d’aumento.
Se le morti fossero stabili percentualmente rispetto al passato non ci sarebbe molto da preoccuparsi, se fossero scese sarebbe un successo.
Luciano ma che stai a dì..
, “SONO TRISTI E RIDONO POCO!”
Luciano stai parlando di te? se è così, va bene.
Di me certamente no! quindi non SENTENZIARE in generale.
Quanto ai brevettati e non.
Gli incedenti accodono anche ai super brevettati. Gli ultimi fatti accaduti ne sono la dimostrazione.
Anche perchè, pur essendo super brevettati: guide, istruttori, ect. prima di tutto sono uomini.
Un articolo preciso che condivide le vicende funeste accadute negli ultimi giorni. Ho perso tempo QUESTA SETTIMANA, (Perché non ho avuto risposte concrete), nell’informazione sul rischio valanghe. Navigo poco su FB e, quando mi sono collegato, ho trovato notizie e foto che mi hanno fatto riflettere. Questa settimana, la montagna Abruzzese è stata invasa da centinaia di persone per il sole e la tanta neve. Tante le foto pubblicate, molte da far riflettere. Attraversamento di rave, salite e discese di canaloni, vette, passaggi esposti, ecc…Il SERVIZIO METEO VALANGHE, oggi, indica ancora il pericolo MARCATO 3 CON LE AVVERTENZE a non fare traversi e fuori pista. Qualcuno mi ha risposto che era tutto tranquillo… ERGO… i bollettini sono sbagliati? SICURAMENTE NO!
(NON SONO D’ACCORDO CON GIANDO… Le persone che riescono in qualcosa, e a volte quasi in tutto, sono normalmente coloro le quali, oltre ad avere un certo grado di predisposizione, riescono a sviluppare una concentrazione assoluta su ciò che fanno. Queste persone vanno bene a scuola, sul lavoro, nei giochi, nello sport e, se non esagerano nell’eccessivo autocontrollo, anche nei rapporti con gli altri).
Mi sono reso conto che le persone che sfidano la montagna lo fanno perché NON si sono integrati nella società, nella famiglia, nel lavoro, SONO TRISTI E RIDONO POCO! Vincendo la sfida con un qualcosa che incute paura, lo raccontano, vantandosi. Sono persone che hanno una mente inquieta.
Il fatto grave è che ci sono persone che senza avere brevetti, aver superato corsi, si propongono come accompagnatori, su roccia, cascate di ghiaccio, ferrate, pareti, ciaspole.I clienti non ne sono a conoscenza che rischiano… tanto! Dopo aver nuovamente incontrato in questi giorni sulla neve, UNA PSEUDO GUIDA ALPINA, con diverse persone, responsabilmente ho segnalato il suo nome al collegio nazionale delle guide alpine. La mia conclusione è che dopo questo commento, mi riallineo alla decisione presa TEMPO FA, dopo aver preso TRE QUERELE, per aver segnalato dei… CATTIVI INCONTRI E ABITUDINI … IN MONTAGNA… che “NON VEDO – NON PARLO – NON SENTO”.
Nel ’75 a una premiazione di noi giovani, CASSIN ci ha stritolato le mani e ci ha parlato fra il serio e il sorridente.
“Ricordatevi sempre: se volete rischiare di morire, dovete cercare di morire il più possibile per “fatalità”, non dovete morire mai come dei “bigol”.”
Per me questo semplice consiglio detto in modo scherzoso è diventato col passare degli anni una profonda lezione di responsabilità e di cultura alpinistica.
Io penso, semplicemente, che il tutto si accompagni alla vita, che la sicurezza non esista in nessun caso. L’imponderabile esiste da sempre e chi non accetta l’ineluttabilità di questa verità non dovrebbe vivere o pensare alla natura come filosofia di vita. Perché non riesco a catalogare l’alpinismo come uno sport. Conoscevo i ragazzi dello Chaberton, conoscevo la grande vitalità che li muoveva. Per me oggi rimane il silenzio e il grande rispetto per il sogno di libertà che avevano e che ho. Non parlo di sicurezza… poiché non esiste, ma esiste una cultura distorta ben delineata da questo articolo. Si è scelto di vivere e vivere implica le grandi emozioni e i grandi dolori. Si è scelto di giocare il gioco della vita accettandone ogni rischio… anche quello di sentirsi vivi… che il vento vi sia amico… buon viaggio ragazzi…
da facebook, 21 febbraio 2017 alle ore 14:08
Certamente il fare sport estremi come salire una cascata di ghiaccio comporta i rischi evidenti che ogni adulto si assume facendoli, ma mi risulta che il maggior numero degli incidenti in montagna avviene sui sentieri quando si torna felici, rilassati, ma stanchi.
Che la maggior parte degli incidenti non in montagna avviene tra le pareti domestiche e che a livello mondiale la maggior parte degli incidenti avvenga in auto ( decine di migliaia ogni anno e centinaia di migliaia di feriti o invalidi perenni ) solo che i mercanti di auto e di benzina ( le grandi compagnie petrolifere ) sono attivissimi nel non parlarne mai sui mezzi di dis-informazione.
Da facebook, 21 febbraio 2017 alle ore 15:54
Gualtiero, per me hai detto bene come va l’alpinismo oggi.
Si soppesa il rischio con quella che sembra spesso essere molta superficialità, o meglio si demanda ad altri o altro la “gestione” del proprio rischio.
Questo vale sopratutto per le masse, poi quelli proprio bravi non lo fanno.
Io non capisco perché la maggioranza delle persone che vanno in montagna, luoghi pieni di pericoli dove si muore molto facilmente, non “riescano a capire” che dall’inizio dell’esistenza umana la propria sopravvivenza si basa per prima cosa su se stessi, sulla propria capacità di capire……l’intelligenza umana si sta impigrendo?
Bravo Umberto. Non so quanti capiranno ma sei rimasto il “cialtrone” che eri!
Mistica e matematica alla fine sono pannicelli caldi e un po’ illusori.
Si diventa vecchi prevalentemente per caso.
Gestire il rischio non è sentirsi immortale e nemmeno un’equazione con troppe incognite… è un semplice dialogo con se stessi ognuno come gli va.
E tanto per cambiare non è che ci siano dei gran motivi per interessarsi di quello che fanno gli altri.
@ Umberto Pellegrini “Lanzavecchia domenica si è fermato, io no. Siamo entrambe qui. Quindi?”
Quindi, forse, hai avuto culo. O semplicemente non era ancora l’ ora.
2 settimane fa scendendo la monte Pisanino su un facile pendio, a causa dello zoccolo che mi si era formato sotto ad un rampone, sono scivolato.
Ho cercato di fermarmi con la piccozza ma la becca tagliava la neve e non ci sono riuscito.
Ho pensato: ” non mi fermo” .
Casualmente sono infilato in un canalino e nel mezzo al canalino c’era una pianticella tutta ramificata che formava come un bel cespuglione.
Ci sono finito sopra come su un materasso senza farmi nulla !!
Se la pianticella non ci fosse stata mi sarei fatto male. Invece mi è andata bene.
E’ chiaro che ho sbagliato. Lo avevo visto che la neve si attaccava sotto ai ramponi, nonostante l’antizzoccolo, e che bisognava continuamente pulirli per non scivolare. Ma mi sono distratto. Ho abbassato la concentrazione.
Quindi ho avuto culo…? O semplicemente non era la mia ORA…?
sassifraga montana ha pure un blog anonimo, pretenzioso e contenente gravi errori. mitomania? Queste cose fanno anche un po’ ridere, dai…
Articolo omeopatico questo presentato da Lorenzo Merlo, che a me non è piaciuto ed anzi a tratti mi ha imbarazzato.
Curioso anche il grido di allarme, di Gogna: “(…) ultima in una serie impressionante di incidenti (…)” del quale grido non mi è chiaro a cosa sia dovuto l’aggettivo “impressionante” associato a “serie”. Un proclama questo che sembra buono per tutte le annate e le stagioni, dalla roccia al ghiaccio, e perciò sospetto. Soprattutto pronunciato da un alpinista di chiara fama: che questo articolo, pubblicato adesso, si avvalga della stessa logica che permea i media comuni?
Camosci e tuareg mi paiono figure retoriche che suonano come quella musica finto-araldico-atemporale che c’è in ogni film fantasy che si rispetti; e il solito fraintendimento su chi abitava un tempo la montagna, i montanari (che mai si sarebbero avventurati in cima a qualcosa perchè inutile, e che comunque morivano lo stesso in casa vedi i walser, ostinatamente isolati) e chi invece frequenta la montagna non per sopravvivere ma per fare altro, ecco, è cosa di cui faccio volentieri a meno. Lascio lì le affermazioni relative alla geometria piana, che porterebbero lontano, ma che trovo capziose.
Lorenzo Merlo prova ad indicare una via d’intendimento, impalpabile ed eterea, e lo fa in maniera a volte scorretta; “frequentare la natura in sicurezza è un ossimoro” è affermazione scorretta, in quanto sicurezza è proprietà soggettiva di chi frequenta la natura, entità quest’ultima non connotata in alcun modo se non dal pericolo stesso, ed essendo la sicurezza qualità soggettiva, è legata ad una crescita culturale personale, di qualsivoglia tipo. Forse lo scrivente si confonde con l’affermazione “natura sicura”, o “montagna sicura”, questi sì ossimori, e profondamente differenti, in significato e senso, da “frequentazione in sicurezza”. Come scorretto è far passare che sia del pensiero “che c’è” l’affermazione: “indossare l’ARTVA permette anche di farsi travolgere, tanto ti trovano”. Questo non è pensiero della cultura che c’è, è una banale puttanata.
Credo che nessuna persona che frequenti la montagna non sappia che il pericolo sia sempre diverso da zero, e di conseguenza, anche il rischio: non mi pare novità affermare che “il miglior modo per ridurre il rischio è concepirlo come ineludibile”: lo è per definizione, ineludibile, il rischio, ogni volta che ci si sottopone ad un pericolo! Figurati, Lorenzo Merlo, che nella cultura tecnico-scientifica “che c’è” ci si fanno anche i conti, su questa tua affermazione, da qualche ventennio, per frane e valanghe, e per evitare che famiglie intere dormano, come camosci, sui tetti annusando l’aria in attesa di una possibile valanga.
Alla fine dunque non mi pare che questo scritto proponga riflessioni molto differenti dalle posizioni “fondate su criteri commerciali, del profitto, su quelli materialistici e su quelli analitico scientifici, quindi su quelli tecnologici e naturalmente su quelli dell’apparire” (che è un bel mischione, consentimelo!): pare cioè che anche tu proponi qualcosa, con tanto di corsi tenuti dagli alpinisti (quelli restati vivi), e che quello che proponi è cultura soffocata dalla cultura “che c’è”.
In mezzo ci sono milioni di sfumature, probabilmente anche indipendenti, che forse, senza scomodare arditi tratti filosofici, rendono meglio l’idea.
Una, semplice, espressa dal bravo scrittore e rocciatore Paleari. Ed anche la posizione di Fontanini mi è parsa comprensibile. Ma la mia sensibilità è più vicina alla posizione di Lanzavecchia: “Non c’è chi ha ragione. C’è chi fa scelte”.
Fare la scelta, consapevolmente, di rischiare è per me l’unica posizione culturalmente onesta. Si potrà poi esorcizzare il rischio, sentendosi camoscio saltellante e sensitivo, e facendoci permeare dallo spirito della montagna oppure piantando una sonda nel manto nevoso e chiamare con nome differente ogni cristallo di neve. Si potrà fare in mille modi l’esorcismo, e questo costituirà, che piaccia o no, il nostro provvisorio e mai compiuto bagaglio culturale, feticcio che ci accompagnerà ad ogni scelta, spinti dalla passione.
Lanzavecchia domenica si è fermato, io no. Siamo entrambe qui. Quindi?
Chi frequenta la montagna dovrebbe,secondo me, tutte le sere, di ritorno dalla sua passione, rivolgersi al suo dio, se uno ne ha, e ringraziare di essere ancora vivo. Perchè se si mette a fuoco la storia, ci si imbatte subito in episodi tragici in tal senso,dove emerge che quel che forse più occorre avere non è l’affinità omeopatica con il tutto, nè il prontuario tecno-scientifico dell’uomo moderno, bensì una vagonata di culo. Non scorderò mai il bravissimo ed unico Massarotto: camoscio confuso, bollettino meteo non letto, o …?
Ecco, l’ultima cosa che vorrei fare nella vita è dare una risposta a queste domande. Invece mi tengo Massarotto nella mia memoria e nel mio cuore, e punto.
A me non interessa perchè i quattro poveri ghiacciatori di Gressoney sono morti, se sovrastati da un ego tecno-competitivo od altro, o se Trombetta ed i suoi 2 amici (sì, erano cari amici, non clienti) siano stati traditi da overconfidence. E non sono fatalista; a me dispiace molto che siano morti, ma comprendo la loro scelta, perchè è la stessa mia.
Se fossero ancora qui, magari li chiameremmo come docenti ad un corso di giornalismo, “assieme a Messner, Gogna, Chouinard e altri”.
Ma più che di corsi di giornalismo, avremmo tutti quanti bisogno, me compreso, di recuperare un poco di buon senso perduto, e seminarlo a grano. Forse così verrebbe un poco compreso da chi è avulso dalla montagna l’anelito che qualche persona ha in tasca, e sarebbe più lieve e meno penosa l’accettazione di notizie così brutte.
ho iniziato alpinismo e sci alpinismo negli anni ’80, così nel tempo ho frequentato sia gli ultimi della “lotta con l’alpe” sia i primi della “pratica sportiva”. A mio parere erano e sono persone simili in tutto, l’unica differenza che ricordo era la cruda consapevolezza dei primi che ogni sbaglio non avrebbe avuto scappatoia: niente elicotteri, né meteo affidabile, cellulari o tempo reale. Ne saresti dovuto uscire da solo, o quasi. Questa semplice consapevolezza cambiava enormemente pesi e misure in quegli attimi in cui si fanno le scelte.
Spesso si dice: che incosciente!
Ma spesso nella vita si è incoscienti.
Chi va in montagna dovrebbe esserlo molto poco.
Le scuole e le guide dovrebbero ribadirlo “ferocemente”.
Ma questo è meglio non farlo per non perdere consenso.
La società è dominata dalla politica: furbizia, opportunismo e irresponsabilità?
Ah, dimenticavo: bisogna essere sempre focalizzati su se stessi!
Tristezza.
La realtà delle cose è sempre dura da accettare, ma chi ha esperienza di vita sa anche che solo attraverso la sofferenza ed accettando il più doloroso si giunge a ciò che vale veramente, l’alpinismo ne è il simbolo, uno specchio della vita: attraverso le sofferenze ed i rischi si giunge alla gioia di stare in vetta. Bisogna essere disposti anche a riconoscere i propri errori ed imparare da quelli degli altri, altrimenti la storia non ha senso di essere e si riduce a vanità.
Mi preme a sottolineare: imparare , non giudicare il prossimo, trarre una lezione dagli accadimenti rispettando chi ne è stato vittima.
Una disgrazia, un imprevisto può accadere anche al migliore, non è proprio il caso di discutere su questo (chi considera la cosa sotto questo punto di vista non fa che abbassare altri che ne è ben lontano, al proprio livello e non comprende). Quando non si vuole accettare quello che è doloroso, difficile da digerire lo si bolla andando a ricercare qualche motivo collaterale che nulla ha a che fare direttamente con l’argomento, vedi: “non pubblicare lettere anonime”(la cosa mi sarebbe indifferente, peggio per chi si chiude in se stesso incapace di accettare), che equivale dire che il tale è caduto perché andava in ferrata con le scarpe da ginnastica e simili ….
La suddivisione in percentuali di una persona: 40% padre, 20 % marito… lo trovo un modo di considerare la vita del tutto errato di oggigiorno. Un uomo che vale veramente è sempre un padre al 100% e contemporaneamente un marito al 100% e contemporaneamente può essere anche un alpinista al 100%, chi fa le cose a metà è sempre da biasimare; la grande piaga di oggi che si vuole tutto senza farlo bene. Oggi pare che non esistono più veri mariti e le donne sono tutte disgraziate, un grande alpinista può benissimo essere anche un marito e padre al 100% e lo sarà proprio più di tutti gli altri altrimenti non sarebbe un grande davvero. Quanti uomini che conducono una vita tranquilla con pochi rischi sanno essere mariti e padri al 100%? Quanti sposandosi si domandano se vi sono preparati e all’altezza del loro compito?
Ammirevole il commento di Lorenzo Merlo!
Vorrei dire due parole di compianto per Adriano Trombetta, che ho conosciuto in occasione dei corsi guida. Allora era giovanissimo ed era un bravissimo ragazzo, con una grande passione per la montagna, credo sia diventato anche una brava guida. Non era venale, di questo sono sicuro, non faceva la guida per i soldi.
Se non è tornato indietro è perché semplicemente ha sbagliato. Come è successo a tante guide con tanta esperienza e anni di lavoro alle spalle.
E’ difficile che un bagnino di Cesenatico muoia sotto una valanga, così come è difficile che muoia una gazzella. Ogni anno muoiono invece molti camosci, e sono morti sotto le valanghe anche tanti montanari, nati in montagna, e che sicuramente avevano esperienza, istinto e abitudine.
Vorrei anche chiedere a Gogna di non pubblicare più lettere anonime (vedi Sassifraga montana).
Comunque si fa troppa filosofia. Si carica troppe cose e non tutte propriamente sul proprio andare in montagna. Da una parte è giusto, visto che quella cosa lì ci fa star bene e ci allontana dalle “torme delle cure” e ci aiuta a scatenare e poi placare quel po’ di “spirto guerrier ch’entro ci rugge”… dall’altra ci vorrebbe senso della misura, nell’impegno e nell’accettazione del rischio. Senso della misura derivante da una consapevolezza di quanto questo gioco è importante per noi. Semplificando all’estremo uno si colloca ed attribuisce alle varie cose della vita un’importanza, un peso. Marco è il 40% padre di famiglia, visto che le sue figlie hanno ancora bisogno di lui, al 20% marito, che sua moglie gli vuole bene e lo merita (l’impegno, non Marco… che è un cagacazzi), al 20% professionista che ama il suo lavoro, al 10% lettore compulsivo e per il restante 10% alpinista e scavezzacollo. Ognuno la sua ricetta, ognuno la sua misura, ognuno come gli pare ed il mix varia a seconda della tua storia e delle stagioni della vita. L’importante è saperlo e non raccontarsi troppe balle da soli sulla “sicurezza totale” e sul “tutto sotto controllo”.
Una postilla… in Italia abbiamo una mentalità per cui, contrariamente ad esempio che nei paesi anglosassoni, l’analisi di un incidente è quasi impossibile che sia serena… è peggio di una campagna elettorale. L’incidente, che può capitare a tutti, è visto come uno stigma, una condanna senza perdono, l’espiazione di una colpa. Senza empatia e senza consapevolezza che essere uomini vuol dire soprattutto sbagliare continuamente e che le conseguenze di errori piccolissimi possono essere tragiche anche dopo averla sfangata dopo aver fatto cazzate piramidali.
Qualcuno nei commenti a Sicurezza e Natura ha scritto – più o meno – che è difficile realizzare la cultura che vorremmo.
Certo è difficile, fino all’improbabile. Ma la cosa non ha da scoraggiare, e per un preciso motivo.
Una cultura che contempli l’uomo, la natura, il cosmo, il prossimo in termini di relazioni, pari dignità, reciprocità e creatività – non in termini materialistici, meccanicistici, economici, di parte – da improbabile e lontana diviene possibile e contigua attraverso l’azione individuale.
Tende invece a rimanere difficile se ognuno immagina – anche inconsapevolmente – di essere parte di un immaginario partito di minoranza, che non può certo pensare di contrastare quello della cultura di maggioranza.
Quell’immagine di difficoltà e di monoranza, di rapporto di forze, si genera da un nido preciso, quello dello scontro, ovvero da un campo, un tessuto, una mente dualistica, dove a tirare le fila è il burattinaio travestito di coerenza dalla logica aristotelica, dal positivismo, dal cosiddetto così fan tutti. Così frequentemente magneti coercitivi della creatività.
Prendendo coscienza di questa trappola, nella quale ci muoviamo credendoci il più delle volte liberi, possiamo riconoscere che la logica duale – qualunque sia la bontà delle nostre intenzioni – non può che perpetuare la storia. Proprio quella storia che vorremo superare. Anche se da minoranza divenissimo maggioranza.
Infatti, chi preferisse permanere entro la dimensione dello scontro – certamente accompagnato e confortato da tutte le sue buone ragioni – non potrà vedere realizzata compiutamente la propria idea di bellezza, in quanto non potrà ritenersi pari al suo nemico, né dargli la dignità che pretende per sé.
Non è in termini di scontro che va quindi intesa la questione. Non si tratta di debolezza, né di magnanimità, sufficienza o scarsa determinazione.
Chi si sente unito per affinità ad altri invece di assumere la psicologia e la logica di parte o di partito – anche solo immaginario – ha l’alternativa di compiere individualmente il proprio dovere etico senza pretese di proselitismo né di successo.
Quella cultura anelata si avvicinerebbe ad ogni nostra espressione. E quando mancheremo all’impegno avremmo la creatività per sfruttare l’impasse e alzare così la tolleranza verso l’impasse del nostro prossimo.
Articolo ammirevole, purtroppo se rimangono solo parole scritte e discussioni non giovano a molto perché solo con l’esperienza diretta e sperimentando sulla propria pelle si impara veramente ciò che così bene è espresso in questo lungo articolo. Purtroppo i veri maestri mancano al momento giusto, anche tra i professionisti, i giovani non trovano altro che maestri di tecnica per poi sostituirli se diventano bravi, presso le nuove generazioni. Un tempo avevo una profonda ammirazione per le Guide Alpine, (non le conoscevo ancora personalmente), per coloro che rischiano la propria vita per condurre una persona sconosciuta nello straordinario mondo delle grandi altitudini, permettendo di conoscere questo ambiente i suoi pericoli la sua grandiosità bella ma anche terribile anche a chi non ha sufficiente preparazione per affrontarlo da solo. Credevo che dopo aver versato la somma dell’ingaggio ciò fosse archiviato e diventasse del tutto insignificante, che ci fossero poi solo due persone o più, che salgono la montagna e si espongono ai rischi, una competente e con il diritto di esigere ubbidienza, l’altra contenta di seguire chi ha maggiore esperienza, ma entrambi due esseri umani motivati a vivere insieme questa grande esperienza. Un’esperienza nuova ogni volta (anche se la Guida ha già scalato quella montagna tante volte), le condizioni sono sempre diverse, la natura cambia ogni giorno, ogni istante, non può annoiare chi la sa vivere veramente. (Ci sono escursioni che ho fatto un’infinità di volte e pur tuttavia sempre mi affascina la natura che mi circonda). Che senso avrebbe altrimenti per la Guida rischiare la sua vita per sconosciuti? Non vorrei dire una cosa troppo offensiva per coloro che rischiano, ma se è solo per lavoro, se è per il guadagno, allora questo rischio è una sorta di prostituzione.
In Himalaya condannano le spedizioni commerciali, ma poi nelle Alpi non sanno offrire altro che una scalata su e giù sportiva da effettuare nel minor tempo possibile per rischiare meno e terminare il lavoro al più presto.
Oggi non posso più ammirare le guide alpine (ci saranno mi auguro eccezioni), proprio loro sono i primi ad ammazzare ciò che distingue l’alpinismo da ogni sport e disprezzano se si ha un approccio non puramente tecnico e sportivo. Cito dall’articolo:
“Così, notevoli potenzialità umane – quando considerate – sono trattate alla stregua di inopportune o – alla meglio – relegate in sfere a parte, della religione, della teoria; alla peggio, del mistico, dello psicotico, del ciarlatano e via scendendo.”
Proprio questo, e lo strano è poi che dall’altro canto a parole vogliono rivestire l’alpinismo di quel valore del quale lo hanno appena spogliato.
Quello che manca soprattutto oggi è l’educazione interiore e si mira solo a quella esteriore tecnica, e di allenamento fisico e questo non è affatto rilegato all’ambito della montagna, ai figli oggi mancano dei veri padri, i padri quando i figli crescono sono quasi dei coetanei, non sanno più trasmettere una loro vera esperienza di vita, i figli incontrano le stesse problematiche e devono districarsi nella vita a seconda delle situazioni che si presentano senza alcuna istruzione quasi fossero orfani.
In montagna (come ovunque) limitare le tragedie lo si può oggi principalmente con un’educazione dell’individuo che quella tecnica è già fin troppo sviluppata.
Ho sperimentato che é proprio questo che manca spesso alla gente in montagna: l’essere costantemente coscienti del rischio e aver ben presente quello che durante l’evoluzione del cimento potrebbe man mano accadere. Si tende a lasciarsi dominare dall’ azione e la testa non è più del tutto presente, si agisce e non si riflette abbastanza su quel che si fa.
@marco lanzavecchia: bellissimo commento!
” Marco ha fatto una scelta e in ogni caso l’ha fatta a ragion veduta. Si sarà ascoltato e avrà dedotto che era meglio fermarsi. Avrà fatto bene o avrà fatto male? Boh! intanto è qui a raccontarlo e non è poco.”
@Giando
Certo che Marco ha fatto bene! Perchè in quel luogo può sempre ritornare.
Condivido molte riflessioni però è necessario svilupparne altre.
La scoperta delle relazioni di causa-effetto, sulle quali peraltro ci sarebbe da aprire una bella parentesi, hanno richiesto migliaia di anni se partiamo dall’homo sapiens, milioni di anni se partiamo da quelli che gli scienziati considerano i nostri più antichi progenitori. Molte cose che a noi appaiono ovvie certamente non lo erano per l’uomo di Cro-Magnon.
Oggi, sulla base della conoscenza di molte relazioni, crediamo di avere la verità in tasca. A prescindere dal fatto che non tutte le relazioni sono così evidenti si dimentica spesso e volentieri che l’essere umano non è una macchina.
Facciamo un esempio. Se vado in ferrata con le scarpe da ginnastica e scivolo si alzerà un coro di “sprovveduto, te la sei cercata, ecc.”, condito di offese varie. Il problema è che in ferrata magari scivolo anche con le scarpe giuste. Quindi dove sta’ la relazione causa-effetto? Boh! Forse sarebbe il caso di indagare su altre relazioni.
Il problema è che l’essere umano non è solo un insieme di ossa, muscoli, tendini, legamenti, vasi sanguigni, ecc. ma è anche un insieme di sensazioni, emozioni, pensieri, ecc.. Faccio la ferrata con le scarpe della festa ma sono talmente concentrato che non scivolo. Faccio la stessa ferrata con gli scarponcini ad hoc ma siccome sto’ pensando alla relazione con mia moglie che sta’ andando a puttane o ai figli che vanno male a scuola mi deconcentro e cado.
La sicurezza dipende fondamentalmente dal livello di concentrazione. Le persone che riescono in qualcosa, e a volte quasi in tutto, sono normalmente coloro le quali, oltre ad avere un certo grado di predisposizione, riescono a sviluppare una concentrazione assoluta su ciò che fanno. Queste persone vanno bene a scuola, sul lavoro, nei giochi, nello sport e, se non esagerano nell’eccessivo autocontrollo, anche nei rapporti con gli altri.
Chi insegna oggigiorno la concentrazione? Pochi e quei pochi non sono sicuramente soggetti istituzionali. A scuola non insegnano di certo la concentrazione. Negli svariati corsi di formazione relativamente alle attività più disparate, fra cui anche l’arrampicata e l’alpinismo, non insegnano la concentrazione e su di essa non viene nemmeno posta alcuna enfasi. Dappertutto si insegnano tecniche codificate. Bisogna fare così o colà, utilizzare questo o quello. Il problema è che quando ci si trova in situazioni reali e si deve applicare ciò che si è imparato si scopre di non essere all’altezza della situazione perché si è lavorato molto sull’aspetto tecnico e assai poco su quello emotivo, umano, interiore (chiamiamolo come vogliamo).
La giusta tecnica è importante, così come la giusta conoscenza dell’ambiente esterno, così come la giusta conoscenza di ciò che la tecnologia ci mette a disposizione. Ma bisogna anche imparare a senitre, a percepire, a relazionarsi col nostro io interiore. Marco Lanzavecchia dice “Domenica ero in giro. Ho scelto di fermarmi. Altri no”. Marco ha fatto una scelta e in ogni caso l’ha fatta a ragion veduta. Si sarà ascoltato e avrà dedotto che era meglio fermarsi. Avrà fatto bene o avrà fatto male? Boh! intanto è qui a raccontarlo e non è poco.
Bravo Sandro ..finalmente sante parole ..sono contenta di aver iniziato a scalare con una persona come te
Andrea Fontanini, mi piace quel che hai scritto. Diventerai una buona guida, se conserverai queste tue opinioni. La richiesta di rispetto per i morti nasconde purtroppo, talvolta, il rifiuto di mettere in discussione la propria maniera di affrontare la montagna.
Interessante riflessione, che ci ricorda i limiti della conoscenza basata solo sulla “tecnica”,notoriamente invisa a Galimberti e su cui sono d’accordo. Manca a mio avviso,se si vuole discutere a tutto campo del problema, un’analisi delle motivazioni dello sci ripido invernale: forse dovremmo ammettere che la ricerca del rischio ha superato,in motivazioni, la ricerca della difficoltá e in tal caso interrogarsi si quale sia la miglior strategia per ridurre i margini di rischio oggettivo (connesso cioè all’ambiente e non alla persona) sarebbe privo di senso. Devo anche far notare che pure i camosci rimangono spesso travolti dalle valanghe nonostante la loro relazione con l’ambiente sia assolutamente libera da condizionamenti razionali o culturali: appare evidente che le variabili in gioco su un versante montano come la Sud Est dello Chaberton- ma vale per qualsiasiasi altra parete complessa innevata in inverno- sono troppe non solo per una mente raziocinante ma pure per chi si avvicini alle capacitá intuitive ed esperienziali o innate di un camoscio. Cresta afferma che se si vuol avere la certezza di non rimanere mai sotto una valanga bisogna stare su itinerari mai superiori a 30 gradi, nè esposti a versanti con tale pendenza, il che escluderebbe non solo lo sci ripido, ma anche il 90% degli itinerari classici. Sono anche dell’idea che un professionista dovrebbe , oltre che tener conto delle capacitâ di chi si affida alla sua competenza , informare sul fatto che certi itinerari comportano la scelta di accettarne il rischio.
È parte della nostra natura voler spingere il limite un po più in là di quanto sappiamo sia “normale”. L’essere umano si è evoluto grazie a questa caratteristica. Il punto è che nessuno di noi sa dov’è il limite naturale e anche sapendolo ci si troverebbe sempre un passo oltre . Ci vuole rispetto silenzio e riflessione su ciò che succede perché tutto non diventi inutile consapevoli che però gli eventi seguono il loro corso.
Da facebook, 21 febbraio 2017, ore 10.50
Grazie Alessandro di aver riproposto questo articolo. Coinvolta nella tragedia come soccorritore, e purtroppo intervistata sull’accaduto, avrei voluto dire in poche parole ciò che ho letto.
Purtroppo in quei momenti escono solo inutili parole come….”erano adeguatamente attrezzati”.
da Facebook, 21 febbraio 2017, ore 11.48
Complimenti, bella riflessione. Anche se la vedo dura cambiare il modo di “pensare” della sovrastruttura degli sport in ambienti naturali…
Facebook 21 febbraio 2017, ore 9.46
“ordinando l’omertoso silenzio e invitando a non riflettere per non offendere i defunti.”
“OMERTOSO SILENZIO” mi sembra decisamente fuori luogo. Per non dire offensivo!
C’è un tempo per un “Rispettoso Silenzio” dove si soffre . Dove si piange coloro che non ci sono più e di stare vicino ai loro amici e parenti. Un pò di sensibilità e comunanza nel dolore, non guasta.
E un tempo, che verrà, per parlare e discutere su quanto è accaduto.
Sono d’accordo con Marco. Il rischio zero non esiste. Chi lo vende è DISONESTO!
E chi lo pretende è un ingenuo.
Chi parla e non sa di cosa parla, sarebbe bene che se ne stesse zitto invece di sentenziare a vanvera. Fa più bella figura.
Analizzare un incidente è giusto. Ma c’è un momento in cui bisogna stare zitti. E’ il momento della sofferenza , del dolore. Verrà poi il tempo in cui parlare, discutere, analizzare.
Il rischio zero è un’illusione da poverelli. A vivere si rischia di morire. Ognuno decida per se.
Ma meno di tutto si parli di quello che non si sa e delle situazioni in cui non si era.
Domenica ero in giro. Ho scelto di fermarmi. Altri no. Hanno accettato, io credo, un rischio più alto di quello che ho accettato io (comunque diverso da zero).
Non c’è chi ha ragione. C’è chi fa scelte.
Questa settimana all’ovest è stata parecchio sfortunata, molti brutti incidenti. In un prossimo futuro diventerò guida alpina, la montagna sarà il mio ambiente lavorativo, così per la prima volta ho provato a scrivere qualche considerazione qua e là anche su fb. Ho trovato due fazioni arroccate in modo ottuso e cieco su schieramenti opposti. Il primo, quelli che condannano tutto al di fuori della “passeggiata nel parco” (di questo schieramento conoscevo bene l’esistenza). Il secondo è composto in generale da alpinisti che etichettano tutto come “inevitabile tragedia” ordinando l’omertoso silenzio e invitando a non riflettere per non offendere i defunti. Mi ha scandalizzato la quantità di gente anche esperta che la pensa in questo modo. Ogni spunto riflessivo (esempio: falsa sicurezza data da forum e siti che pubblicano report di salite, overconfidence, scarsa conoscenza della materia stessa sulla quale si scala, ecc.) viene catalogato come atto irrispettoso. Trovo normale cercare di migliorare il mondo nel quale voglio vivere, anche perché sta diventando “di massa” e sono convinto che solo l’insegnamento della cultura e l’utilizzo del pensiero critico potranno far sì che mantenga la libertà e l’anarchia che lo contraddistinguono. Chi ha più pubblico ha più audience, ma probabilmente ha più “doveri” in questo senso.
Da facebook.
Si privilegia l’EMOZIONE alla CONOSCENZA.
Si è perso il senso dell’equilibrio fra le due ricerche.