Una forma del mio futuro

Nel settembre 1987 ebbi la fortuna di conversare a lungo con Reinhold Messner, sia nel suo castello di Juval che durante un lungo viaggio in auto fino a Ramsau (Dachstein). Affrontammo una dozzina di temi, tra i quali quella che lui aveva chiamato la Via degli Sherpa, l’itinerario di migliaia di km che gli Sherpa avevano percorso nel secolo XVII. Quella che segue è la fedele e inedita trascrizione di ciò che ci dicemmo al riguardo.

Una forma del mio futuro (CcM 001)
(Conversazioni con Messner)
di Alessandro Gogna con Reinhold Messner

Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(3)

– Già nel 1980, per il progetto dell’Everest in solitaria, avevo fatto l’escursione fino al Nangpa La, quando mi venne l’idea di percorrere prima o poi tutta la Via degli Sherpa; nel 1981 ebbi il permesso di salire lo Shisha Pangma, ma solo dopo che un gruppo di alpiniste cinesi avesse finito la salita. Soltanto allora avremmo potuto arrivare al campo base, così i cinesi furono costretti a darmi il permesso di fermarmi a Tingri, il che per me era più interessante del fermarmi allo Shisha Pangma. Sapevo dell’itinerario delle carovane del sale, volevo fare una storia del sale che viene dal Nord e che va nel Nepal, però in precedenza non mi era ancora riuscito perché gli sherpa nepalesi coi quali avevo un accordo non avevano avuto il coraggio di accompagnarmi.

Tutti dicevano di non farlo, che è troppo pericoloso: io volevo passare il Nangpa La con loro e poi tornare. Siamo invece andati fino sotto al Cho Oyu, e non direttamente sul passo del Nangpa La che comunque conoscevo già dal 1980 per averlo raggiunto dalla parte tibetana. Ho scrutato un po’ tutta la zona e per la prima volta mi dissi che non era logico che gli Sherpa nel 1640 circa fossero passati dal Nangpa La, perché nel frattempo avevo saputo che a nord-ovest del Gauri Sankar c’è un altro valico molto meno difficile, che porta più o meno dove sbocca la Rolwaling Valley: ci sono molti villaggi e lì ci sono ancora scambi commerciali tra Tibet e Nepal.

I “resti” di uno yeti nel monastero di Khumjung (valle del Khumbu, Nepal)

Così nel 1981 abbozzai la teoria che gli Sherpa erano partiti per qualche ragione e volevano andare al Gauri Sankar: quella era la loro meta molto lontana, ma non sapevano dove era quella montagna. Non volevano andare al Kailash e neppure nella zona dell’Everest, volevano andare al Gauri Sankar, una montagna molto sacra per loro; arrivando a Tingri, dove si sono fermati per degli anni, hanno confuso il Cho Oyu con il Gauri Sankar, hanno preso il Cho Oyu come riferimento, perché da lì è ciò che si vede. Così sono finiti sul Nangpa La. Il Gauri Sankar è invece nascosto da una montagna secondaria di 7000 m ed è parecchio a destra del Cho Oyu. Passato il Nangpa La si sono trovati quindi nel Solo Khumbu. Anni dopo, traversato il Tashi Lapcha Pass 5755 m e colonizzata tutta la Rolwaling Valley hanno fnalmente raggiunto il Gauri Sankar, ma da sud, non da nord! Ancora oggi gli sherpa abitano a sud del Gauri Sankar, anche se è nel Solo Khumbu che ci sono le famiglie più antiche e nobili.

Nel 1985 ebbi la possibilità, tramite un amico, di andare al Kailash. Non ero il primo, perché qualche turista già con qualche trucco era arrivato fin là e un austriaco aveva avuto un permesso un po’ di mesi prima di noi. Dopo Sven Hedin, dopo Herbert Tichy, nessuno aveva più potuto visitare quei luoghi. Abbiamo dovuto andare a Pechino, poi Chengdu, poi Lhasa in aereo, ma i cinesi non volevano che noi andassimo al Kailash anche avendo il permesso. Le hanno tentate tutte, per esempio ci hanno venduto il permesso per 12.000 dollari, poi quando hanno detto “sì, potete anda­re, però come andate?”, allora abbiamo scoperto che non potevamo noleggiare auto, potevamo solo importarle e neppure rivenderle dopo. Infatti alla fine le abbiamo regalate! Due Toyota. Neppure le gomme di scorta avevamo, trattenute a Chengdu e mai viste arrivare a Lhasa. Siamo partiti da Lhasa e per lo Zhamnanko siamo andati al lago Manasarovar e al Kailash, lungo quella via che per tradizione gli sherpa hanno seguito da Tingri per giungere alla montagna sacra del Kailash. Poi abbiamo proseguito per Kashgar, è lunghissima, avevamo il permesso di traversare ancora fino a Urumchi, ma a Kashgar seppi della morte di mio fratello Siegfried, così interrompemmo il viaggio e volammo fino a Urumchi e poi a Pechino fino a casa.

Reinhold Messner interpretato dal disegnatore Michele Petrucci

– Ma tu sei sicuro che l’altro passo è fattibile?

– Sì, non si può andare perché lì ora è chiuso, però io ho trovato della gente che mi ha detto che la strada era quella e tutte le volte che ho chiesto ma perché non andate dal Nangpa La, mi rispondevano perché è molto più difficile, oggi si passa dal Gauri Sankar.
Avevo quindi fatto il giro del Kailash, conoscevo il tragitto da Lhasa fino al Nangpa La; in più sapevo che nel 1975 una donna australiana aveva percorso con una carovana di yak il tragitto da Lhasa al Kailash e ritorno. Perciò mi sono detto che sarebbe stato bello percorrere la parte più importante della Via degli Sherpa, la prima, quella che attraverso il Kham porta a Lhasa, tratto oggi completamente chiuso. Ho iniziato a studiare questa possibilità per l’86, dovevo anche allenarmi per i miei due ultimi Ottomila e quindi passare molto tempo in quota. Un cinese, un mio amico di Lhasa, uno che capisce il nostro mondo e mi ha creduto quando dicevo di voler fare un viaggio etnologico e non spionaggio, mi ha dato una macchina, mi ha dato una specie di carta, non un permesso, ma una carta che dava via libera al sig. Reinhold Messner…

– Ma questo è tibetano o cinese?

– È cinese. I tibetani non hanno nessun potere, i tibetani vivono e basta. Sono andato in macchina da Lhasa ad Amdu, poi a Golmut, tutto facile, tutto asfaltato. Abbiamo fatto già qui in questa zona quasi un incidente perché guidano malissimo, c’erano centinaia di yak vicino alla strada morti perché l’inverno prima era stato molto severo. Incominciava ad essere difficile, le distanze sono enormi e il nostro permesso diceva che noi avevamo la possibilità di girare in Tibet, ma quella regione oggi non è considerata Tibet. Quella zona è chiusa ai turisti, ma siamo ugualmente scesi da Sining a Dege. Abbiamo avuto un incidente e ci siamo fermati per quasi una settimana, ci hanno sequestrato i documenti… alla fine me li sono ripresi strappandoglieli dalle mani e rifiutandomi di ridarglieli. Ci dicevamo che ci avrebbero dato assistenza, ma secondo loro le nostre macchine non potevano andare, servivano macchine specia­li che avrebbero dovuto arrivare: ma siccome era tutto interrotto, loro avrebbero avuto il tempo di trovare l’inghippo per bloccare la nostra spedizione. Abbiamo fermato un camion, ma la polizia ci ha costretto a scaricare tutto quello che vi avevamo caricato sopra; solo su un secondo camion riuscimmo a ripartire ma con molti problemi, molte strade erano interrotte, abbiamo dovuto portare la roba da un camion all’altro. Loro pensavano “non andranno lontani”, avevamo centocinquanta chili, abbiamo dovuto superare interruzioni difficili, un giorno per un chilometro portando la roba sulle spalle, avanti e indietro arrampicandoci sui massi della frana. Siamo arrivati fino in fondo ad una gola profondissima e lì ancora bloccati.

Possibile orma di yeti (33 cm). La foto è stata scattata da Eric Shipton il 9 novembre 1951 sul Menlung Glacier, a circa 5500 m

Il capo del luogo ci trovò una specie di albergo per la sera, ecco finalmente qualcuno che ci aiuta dicevamo, ma il giorno dopo ha fermato la nostra spedizione dicendo a tutti nel paese di non portarci, che la strada era interrotta, era impossibile andare. “Non ci credo”, gli ho detto, allora mi ha portato un pezzo avanti e la strada era veramente interrotta, però non gravemente. Questo me lo faccio io, con una pala e una piccozza mi apro la strada, mi dicevo. Però lui non voleva, e fotografandolo ho capito che aveva paura, che era insicuro su di noi. Quando se ne è andato abbiamo fermato la prima macchina, messo su la nostra roba e siamo ripartiti. L’interruzione ce la siamo lavorata per 200 metri, ma venivano anche i cinesi ad aiutare, ed eravamo passati quasi dall’altra parte con il nostro trattorino, quando anche questo all’ultimo momento è andato dentro nel fango e non usciva più… e veniva già dietro la jeep della polizia cinese a fermarci. Noi abbiamo comunque scaricato il nostro materiale dall’altra parte della frana e abbiamo tentato un giorno intero di avere un’altra macchina, però nel frattempo la po­lizia aveva sparso la voce che noi non potevamo andare, che era vie­tato portarci. Con un carretto ci siamo portati fuori dal paese e abbiamo trovato uno che ci avrebbe portati via di notte. Quello non si vide, ma ne trovammo un altro che ci aiutò a scappare con il carico su per un lungo passo alla luce della pila. Scesi dall’altra parte, quando lui voleva andare a casa, pioveva a dirotto e continuò tutta la notte. Ci siamo nascosti in una casa perché avevamo paura che i cinesi venissero ancora a bloccarci ed eravamo già vicini alla nostra meta, la zona di re Gesar, che era nato e morto in questa zona: per questo volevo venire qui, poi andare a Dege da dove sono partiti gli Sherpa e quindi andare a ovest per la loro via.

Fin qui c’era sempre con noi Tarchen, un tibetano che ha viaggiato in India e Nepal perché era un khampa che combatteva i cinesi. In un monastero vicino lui aveva passato i primi anni di vita. Tarchen però aveva ancora più paura di noi di essere bloccato, pertanto ci lasciò; lì noi ci siamo fermati una decina di giorni, vicino ad un lago dove fanno il gioco di re Gesar.
Gesar of Ling è considerato l’ultimo poema epico vivente, ancora oggi alcuni menestrelli ne cantano le parti tramandate per secoli solo per via orale. Narra di Gesar, una specie di re Artù tibetano. Il poema è lunghissimo, circa 25 volte l’Iliade.

Lì ho cercato il posto di Ling, e ho capito che Ling non esiste, che tutto è Ling, c’è una montagna che ho anche fotografato sotto la quale passa un fiume, ci sono molte grotte dove dicono che lui ha meditato prima di morire, scrivendo bellissime poesie, poesie che non ti posso adesso citare perché sono molto complicate, parlano di montagne e di piani che devono diventare la stessa cosa affin­ché il mondo vada in equilibrio; ho studiato qui Gesar e la scienza dice che gli Sherpa sono partiti da qui. Ed è vero, lo si vede anche dall’architettura che gli sherpa sono partiti dalla zona di Dege. Capito che i cinesi sapevano dove eravamo e che presto avrebbero avuto carte per trasferirci da qualche parte, abbiamo deciso di attuare il nostro piano, cioè io volevo scappare e andare verso Lhasa mentre Sabine si sarebbe fermata un po’ di giorni per assistere da sola alla festa di Gesar e poi ritornare in macchina a Chengdu in due-tre giorni, e poi a Lhasa in aereo. Ma Sabine non poté vedere la festa, fu prelevata e riportata a Chengdu ben prima. Peccato, alla festa di Gesar centinaia di guerrieri a cavallo cantano e recitano tutto il poema, dura una settimana.

Le orme dello yeti trovate nel 1951 da Eric Shipton e Michael Ward sul Menlung Glacier

– Ogni anno?

– No, era la prima volta dagli anni ’50 che lo rifacevano.

– Per quello che ti interessava?

– Sì, mi interessava moltissimo e avrei voluto vederla, perché da noi un’opera così, in un teatro così, non c’è. Un grande altipiano con un 7000 m dietro, di cui non so neanche il nome, non scalato, un grande lago, rocce con sopra gli alberi, un giardino perfetto zen in pieno Tibet.
Dunque sono arrivato in bus fino quasi a Dege, pioveva così tanto che la strada era di nuovo bloccata e ho dovuto raggiungere Dege a piedi e di notte. Nessuno mi ha lasciato entrare nelle case, la gente fuori a lavorare perché le case non crollassero e per fortuna ho potuto alle due di notte trovare posto perché qui c’è il divieto totale di lasciare entrare dei forestieri proprio come anni fa. Sono andato avanti da Dege fino a Chamdo, parzialmente a piedi. C’erano dei tratti molto difficili, però trovavo sempre ancora delle macchine o dei trattori che andavano un pezzo, e da Chamdo sono andato a Rivoche e da lì sono partito a piedi perché sapevo che gli Sherpa erano passati da lì. Il primo tratto è molto bello, su terra rossa su e giù, ma non molto difficile e da quando avevo lasciato la strada era molto più facile per me perché non c’era più un cinese e i tibetani mi davano da mangiare. Giunto però a Bambar, c’era un altro posto di blocco cinese. Sono andato in un albergo dopo aver comprato un po’ di birre. Alle undici di sera sono venuti nell’albergo a bussare, li ho mandati alla “reception” per il passaporto (che invece avevo con me) e sono scappato dalla finestra dirigendomi verso Lharigo. Devi pensare che sono cinque giorni, e devi camminare sessanta o ottanta o cento chilometri al giorno.

– Come facevi ad orientarti in quel nulla?

– Aggiornavo tutti i giorni una carta che mi portava già vagamente a Lharigo, però ogni giorno sapevo qualche cosa di più… quando incontri qualcuno, meglio se anziano, gli sottoponi i dieci nomi che sai, lui te ne dice cento, fai una selezione di quello che capisci lui sa davvero (perché molti parlano ma non conoscono)… Sulla via per Lharigo sono andato a Tshagu, dove ho avuto l’avventura che quasi mi ammazzavano. Avevo camminato per tutto il giorno e mi ave­vano detto che c’è un posto che si chiama Tshagu dove potevo pernottare. È arrivata mezzanotte, non c’era casa, non c’era niente, sono andato avanti quasi alla cieca e ho trovato alle due di notte un paesino su in montagna, con una trentina di cani scatenati. Ho dovuto prendere un grande bastone per difendermi e per mezz’ora sono andato su e giù per il paesino gridando tashi delek, che si dice in Tibet come da noi buongiorno e buonasera. Nessuna luce, c’erano soltanto i cani: essendo stanchissimo ho trovato una casa con il lucchetto e, grazie ad una scala che portava sotto il soffitto che era aperto, ho steso il mio materassino, il mio sacco piuma e mi sono messo a dormire un po’. Mezz’ora dopo è arrivata la gente, arrabbiatissima, mi tiravano dei sassi da sotto. Così sono sceso con la pila, non mi hanno aggredito ma mi hanno preso tutto, volevano sapere se ero armato, gridavano in tibetano, io non capivo niente e dicevo che venivo da Chengdu e andavo a Lhasa, gli ho anche mostrato il mio lasciapassare. Allora mi hanno portato in una camera e alla fine mi hanno trattato molto bene. La via per Lharigo era molto pericolosa, per il giorno dopo venne con me un portatore; purtroppo sono arrivato a Lharigo ancora di notte: non si può arrivare di notte in un paese, ed è anche logico. Lì c’era di nuovo una piccola stazione militare. Non potevo pernottare prima perché i nomadi nei loro campi non mi davano il permesso… e soprattutto io non volevo più dormire all’aperto da quando avevo incontrato quello che gli Sherpa chiamano lo yeti (ma non vorrei che questo fosse pubblicato perché non vorrei che la gente sapesse dov’è, se la gente sapesse dov’è tenterebbe di andare là, e adesso tu sai pressapoco dov’è… è molto lunga questa strada…).

– Non penso che andrò.

– Sì, non dirlo ad altre persone perché incominciano subito a costruire qualche cosa. Fino a un certo punto andavo, anche dormendo in una caverna, non avevo nessuna paura, ma dopo aver visto que­ll’animale non dormivo più…

– È così terrificante?

– A me non ha fatto niente, io ho visto due esemplari, il primo è venuto lì dov’ero e poi s’è girato: è venuto sui due piedi e poi è andato via tranquillamente. Con il secondo però era notte, ha fischiato esattamente come dicono gli Sherpa e di­cono che quando fischia ti attacca e ti ammazza. È più grande di noi e tutta quella gente parla dello yeti come io parlo di una mucca e quella notte terribile a Tshagu mi sono salvato per­ché ho riferito loro che avevo appena visto quell’animale e hanno subito detto “ma è una fortuna che sei vivo ancora”… ed è lì che ho sentito il vero nome dello yeti, lo yeti è un’invenzione nostrana occidentale: non si chiama yeti….

Nel 1998 Messner pubblicò Yeti. Legende und Wirklichkeit, poi tradotto in italiano con Yeti. Leggenda e verità (Feltrinelli, 1999). Gli ci vollero dunque dodici anni per analizzare a fondo tutto ciò che si cela dietro allo yeti e giungendo anche alla conclusione, contraria a quanto dettomi nel 1987, di rendere pubblici i suoi avvistamenti dello tshemo, il nome con cui i tibetani chiamano lo yeti, nome che allora non mi riferì.
L’incipit del libro è una delle più belle pagine mai scritte da Messner: narra del suo incontro con lo tshemo, alla fine di una lunga e solitaria giornata, faticosa e piena di pericoli, in un ambiente estremo e selvaggio.
Il suo è davvero l’incontro con il mito fatto carne di un individuo civilizzato, scettico per definizione: «Solo di rado mi facevo più attento, quando qualcuno, nel suo racconto, forniva precise indicazioni del luogo e i nomi delle persone che aveva ncontrato o che lo avevano accompagnato in quella circostanza. Ma ogniqualvolta ponevo domande più specifiche, i padri diventavano nonni, un luogo una regione, un’affermazione sicura si tramutava in un forse, fino a che i discorsi sullo yeti assumevano un tono così vago da indurmi a dimenticarli…».
Messner così riassume a grandi linee il suo libro e le sue conclusioni: «Lo yeti non si è mai preoccupato di noi; sa che esistiamo, ma solo a livello istintivo. Noi, invece, abbiamo di lui una duplice percezione: possiamo vederlo come un animale estraneo a ogni forma di civiltà, e al tempo stesso lo serbiamo nella fantasia come un essere leggendario; ma solo la presenza contemporanea dei due aspetti dà forma alla sua piena realtà. All’immagine del temibile yeti, partorita dall’immaginazione delle popolazioni seminomadi che da secoli vivono in armonia con le divinità della natura nelle foreste e tra i ghiacci dell’Himalaya, si addice, sul piano zoologico, solo lo tshemo o dremo… Renderò conto, nel più accurato dei modi, di tutto ciò che ho visto e trovato, di tutte le esperienze che ho vissuto durante i dodici anni in cui ho cercato lo yeti. E se talvolta mancherò di precisione nell’indicare nome e località, sarà dovuto alla mia volontà di non indirizzare flussi di turisti là dove, anche un domani, tshemo, dremo, riti, tshute e yeti avranno bisogno di un habitat incontaminato.
Questo libro risolve sostanzialmente l’enigma dello yeti, ma non può e non vuole toccare il mito dell’uomo delle nevi. Quel mito deve restare qual era, perché il mito è sempre più forte della realtà.
Ma torniamo alla nostra conversazione del 1987.

– Prima dicevo sempre che lo yeti è una favola, adesso so che esiste ed è interessante vedere qual è il parallelo fra la leggenda e lo yeti reale. La leggenda è nata perché in questo tragitto gli Sherpa si sono incontrati anche loro con lo yeti, che avrà certamente ammazzato qualcuno… lì nacque la storia, che poi è stata tramandata e portata qui… ma adesso non parliamone più.

Prima di Lharigo iniziavo verso le cinque o sei a camminare, ma è sempre difficile entrare nei campi nomadi perché hanno i cani, ci vuole mezz’ora per entrare: poi lì erano tutti giovani e tutti ridevano. Non è che mi dicessero “dai, stai con noi, ti dia­mo da mangiare”. Io avrei pagato e così avanti… No, tutti ridevano e non mi accettavano. Sapevo che dovevo cercare gli anziani, ma lì non ce n’erano. Una volta ero su un alto passo, quasi a cinquemila metri e sono arrivato in un paesino, una specie di fortezza di 5 o 6 case, con gli yak che arrivano alla sera. Mi sono seduto là e ho guardato come li mungono, poi pian piano ho tentato di parlare, di chiedere se potevo dormire. È diventato scuro e hanno tentato ugualmente di dire no, che c’era un altro paese lassù, nuovamente non mi volevano. Alla fine venne una vecchia donna che ebbe pietà e disse che potevo dormire nella stalla. C’erano un po’ di letti al margine della stalla, hanno chiu­so la porta per la notte, poi hanno chiuso tutte le donne in una stanza con un lucchetto, molto presto… e lo potevo vedere perché stavo nel mio sacco a piuma e vedevo come stavano chiudendo tutte le donne in una stanza… ma tutte queste piccolezze per dirti che a Lharigo sono arrivato a mezzanotte. Ne usciva un gruppetto di tibetani ubriachi. Cantavano. En­trai, non c’era nessuno, non una luce, niente, e dopo un po’ vidi una pila da qualche parte, mi avvicinai alla pila, si spense. C’era un gruppetto di soldati, due o tre soldati che tentavano di bloccarmi, sai, nascondendosi con la pila ve­dendo dove andavo e ci voleva un bel po’ prima di trovarli perché loro si nascondevano, si facevano di nuovo vivi con la pila perché non sapevano di nuovo dov’ero io. Alla casermetta mi hanno fatto dormire in cella senza chiuderla. Così ho potuto continuare e sono sceso dopo due settimane da lì. È stato veloce perché sono andato in bus, non passando però da Amdo. In una valle molto strana ho visto il “funerale celeste”, è lì che ho fatto le foto per un servizio su Jonathan, l’unico ad aver visto e documentato quella cerimonia. Lì, trovi tutta quella storia, però io non sono andato per vedere il funerale celeste, bensì perché sapevo che gli Sherpa lì si erano fermati a lungo prima di ripartire per Lhasa e Tingri, volevo vedere il posto… E così conosco tutta la Via degli Sherpa fuorché 100 km e in tutto saranno da Dege fino al Solo Khumbu circa 3000 km in linea d’aria: hanno fatto un bel giro questi Sherpa; una vera migrazione d’altri tempi, un esodo tipo dalla Russia fino a Roma … forse di più, e per me è logico che in questo esodo siano nate delle leggende che han­no portato una certa cultura da un posto ad un altro posto.

Eric Shipton

Per finire, questo viaggio è il più bel viaggio che ho fatto sia per le difficoltà che ho dovuto affrontare, non volendole ma dovendole superare, sia anche perché finalmente potevo camminare a lungo e questo tipo di viaggio è una forma del mio futuro, anche se in realtà io vorrei fare anche dei viaggi con meno gente… qui ho trovato almeno tre case al giorno… mi piacerebbe traversare il Taklamakan, fattibile solo se hai un grande aiuto. È un deserto totale, forse noioso, sarebbe soltanto una questione sportiva…

M’interessa di più aver capito che Bhutan, Solo Khumbu, Dolpo e Khali Gandaki (ed anche il Karakorum) erano molto più legati al Tibet che all’India, difficilissima da raggiungere per via delle valli profonde solcate da fiumi selvaggi. Ecco perché gli Sherpa hanno ancora influssi della loro religione bon, il buddismo primitivo, ben diverso da quello tibetano di oggi, il lamaismo sia giallo che rosso. Gli Sherpa si fermavano sempre vicino a monasteri, anche a Tingri c’era un famoso monastero che oggi non c’è più, distrutto dai cinesi. E anche oggi vanno fedeli bon a Lhasa e nel parco fanno il giro in senso contrario, e nessuno dice niente. Il colore dei bon è il nero e grande importanza è data alle forze della natura. Gli sherpa di oggi, pur lamaisti praticanti, dicono che nel bosco e sulle montagne ci sono entità che l’uomo deve temere. Hanno poi le loro figure da seguire, uomini saggi che hanno dato il buon esempio.

Però non vorrei diventare neppure uno scienziato e dire ecco io sono capace di chiarire tutte queste cose: io faccio un viaggio e vedo quello che vedo, non sono né un tecnico, né un geografo, né altro, io vorrei che questi posti selvaggi, o semiselvaggi, rimanessero zone bianche sulla carta geografica, capovolgere ciò che si diceva all’inizio del ‘900, cioè che era necessario abolire le macchie bianche della carta: al contrario vorrei salvarle. E se farò una storia di questa Via degli Sherpa racconterò quello che ho vissuto senza dire nomi, potrei dire che sono partito da un paese molto ad est del Tibet, che c’erano cinque case fatte così e così, e così non rubo niente a nessuno… se invece incomincio a pubblicare subito la carta geografica, quel posto lo rovino. Questa è anche la base della mia filosofia del White Wilderness, capovolgere l’idea della macchia bianca sulla carta affinché rimanga un’università per chi vive una vita “semplice”, per chi non vuole andare all’università a studiare o anche per chi all’università ci va ma vuole an­che le zone selvagge per capire senza voler scrivere, fare calcoli o portare a casa dati geografici, scientifici, geologici ed etnolo­gici, che non hanno nessuna importanza. Importante è l’esperien­za che tu ti fai e te la fai soltanto se la zona è selvaggia, pure con la gente selvaggia, non importa.

– Quindi White Wilderness come Blanc on the map di Eric Shipton.

– Sì, molto bello quel titolo, è esattamente quel­lo che voglio dire con White Wilderness.

– Anche se Shipton in realtà le macchie bianche le voleva eliminare, come tutti gli esploratori del suo tempo.

– Tutte le grandi spedizioni avevano ingenti finanziamenti proprio perché erano dirette a zone del mondo sconosciute, da conquistare. E adesso si può capovolgere questa idea solo tornando indietro, senza dati scientifici, e raccontando le cose come faceva Omero… per dare senso alla via e alla tua esperienza e per lasciare intatta la White Wilderness.

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Una forma del mio futuro ultima modifica: 2019-04-24T05:41:13+02:00 da GognaBlog

2 pensieri su “Una forma del mio futuro”

  1. Messner ha ripreso l’argomento “la via degli Sherpa” nel suo libro (Feltrinelli) “Yeti, leggenda e verità”.

  2. Ciao complimenti per il post, sai se Messner ha scritto qualche libro su questo argomento della Via degli Sherpa? O abbia trattato l’argomento in qualche suo libro? Mi intriga molto la storia. Grazie

     

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