Metadiario – 06 – Realtà sognata (AG 1968-006)
(scritto nel 2018, a parte Realtà sognata, 1980)
Il periodo estivo che intercorse tra la mia solitaria alla Walker e il tentativo con Gianni Calcagno al Naso di Zmutt del Cervino fu di grande rilievo. Il successo avuto e i riconoscimenti mi facevano camminare a mezzo metro da terra: ma al tempo stesso delle vocine interiori mi suggerivano di stare attento, di non mollare l’attenzione sul pericolo di voler superarmi. Mentre amici e conoscenti mi idolatravano ebbi modo pure di realizzare un grande sogno a lungo accarezzato. Con i miei risparmi ero riuscito a comprare una Fiat 500 rossa fiammante. La ritirai verso il 20 di luglio ma per qualche motivo non mi misi a scorrazzare per mezza Italia. Ad ogni modo la sensazione di libertà datami dal mezzo meccanico che sapeva di nuovo era proprio esaltante e si aggiungeva alle già ben potenti sirene del successo e della generale sincera approvazione.
La parete nord-est del Pizzo Badile in veste estiva
Anche per la Walker da solo avevo ricevuto un centinaio di missive di vario genere per le felicitazioni. Un’altra bella lettera di Riccardo Cassin si aggiunse al mio faldone, unitamente a quella del presidente del CAAI Ugo di Vallepiana e soprattutto a quella del mio compagno del Badile Camille Bournissen, che mi rimprovera benevolmente di non avergli mai detto nulla prima, ma dichiara che quella è stata la mia “consacration” a “grand Alpiniste”. Tra le lettere che conservo c’è anche quella di Alessandro Grillo (“come alpinista sei il più forte di tutti, come amico sei un bel gondone…”) tesa più che altro a invitarmi per il 20 luglio a una festa di laurea con l’amico Ravanello, con cena e relativa “ciucca” “conoscendo anche le tue ottime qualità di mangiatore e bevitore“.
Cominciavo ad avvertire che l’abitare a Genova mi stava andando stretto: una città senza giornali o riviste serie, senza iniziative. Sentivo che dovevo spaziare per altri orizzonti. Fui ospite per qualche giorno dell’amico Piergiorgio Ravajoni a Milano, in via Pelizza da Volpedo n. 1. Una villetta liberty dove la vita si svolgeva con un ritmo affascinante, in mezzo ad amicizie e a gente aperta. Milano mi stava catturando. Quella villetta non era affetta da traffico, da rumore: e, a fine luglio, eravamo ancora ben distanti dal terribile smog invernale di quegli anni, quando se facevi anche solo due rampe di scale a piedi arrivavi al tuo pianerottolo con i polmoni sensibilmente pieni di schifezza; oppure quando scendendo al mattino trovavi la tua auto coperta da uno strato di mezzo centimetro di veleni.
In quella villetta scrivevo, telefonavo; da lì partivo per andare con la mia auto alla Domenica del Corriere. Di sera si facevano sempre le ore piccole e il vino scorreva. E fu in quella villetta che finalmente m’incontrai con Silvana. Cercata a lungo, sognata, ore e giorni a chiedermi il perché di quella sua latitanza. Fu un incontro impacciato fin da subito, poi alla fine mi fece capire che era da un bel po’ che si era messa assieme a Paolo Armando.
Fu una delusione atroce, ma non mi ritrovai a odiarli. Le feci solo notare che averlo saputo prima avrebbe aiutato me, loro e il rispetto che potevo avere per la loro relazione. Non mi passò neppure per la testa che magari avrei dovuto arrivarci da solo, intuire che ciò che mi sfuggiva era proprio ciò che più temevo. Quella batosta fu però assai utile: contribuì parecchio a tenermi con i piedi per terra.
Sabato 13 luglio andai con Gianni, Lino e Nello al rifugio Sciora. Volevamo salire il giorno dopo la Nord-est del Badile per ripulirla delle corde fisse. Trovammo la parete immersa nelle nebbie gravide di pioggia, in un’atmosfera plumbea che manco ci fece tentare di percorrere il Viale. Nelle scariche di pioggia riscendemmo a Bondo.
La domenica dopo andai, non mi ricordo più con chi, al rifugio Falier per salire la via Vinatzer alla Marmolada. Ma anche lì del tutto inutilmente. Ormai tutto era pronto per il grande tentativo al naso di Zmutt.
Silvana Bellini, ormai vedova di paolo Armando, al mio matrimonio con Ornella, 18 novembre 1971
Realtà sognata
(scritto nel 1980, da La parete)
“Se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo (Leonardo da Vinci, Trattato di pittura, 48)”.
Qualche giorno dopo che Michel Schulman mi propose di scrivere qualcosa sulla mia avventura solitaria alle Grandes Jorasses volli, dopo tanto tempo, rileggere gli scritti di allora. Terminai la lettura a fatica, con un forte senso di disagio. Indagai se per caso non credevo più a ciò che con tanta passione avevo prodotto, poi realizzai che il disagio mi derivava dalla mancanza di equilibrio: quegli scritti, da soli, non si reggevano più in piedi.
Dopo altro tempo decisi di affrontare l’argomento e di scrivere alcune note, considerate un complemento a un nudo resoconto di fatti. E così, riluttante a seguire con cinepresa e magnetofono il mio proprio passato, mi sono gettato in un guazzabuglio di impressioni, in un tiro incrociato di domande e risposte, in una girandola di visioni, in un paradiso di incertezze così difficili da esprimere: e nella mia imprudenza ho voluto trascinare e coinvolgere anche il lettore.
Quando rivedo me stesso salire sul verticale granito dello sperone Walker vivo la sensazione dell’inserire nel film presente della mia vita la statica diapositiva dell’inebriante certezza del vivere la perfezione. Questo atto di volontà mi richiede oggi tale fatica da chiedermi «perché la perfezione?». Perché perfetta fu quella salita. Essa fu tanto «compiuta» che il suo ricordo è forte e intenso ma alquanto vago, come al risveglio che segue il sogno più vivido.
A distanza di dodici anni da quel giorno che così opportunamente mischiò sole e ombre, roccia e ghiaccio, una domanda mi nasce spontanea e sibillina: Come sei ora? Sei felice, oppure vorresti ritornare a quel tempo? Duro è dare una risposta, come si temesse il peggio, e in questa indecisione alla finestra della mente s’affaccia una consolazione. Infatti ho lottato a lungo per la mia coscienza, per essere nient’altro che quello che sono, ho combattuto me stesso per approfondire ciò che so di me stesso. Il prezzo pagato a questa sete di sapere è stato ingente, come succede ai bambini, che non sanno che per diventare grandi dovranno rinunciare ai loro giochi e alle loro fantasie preferite. Nel procedimento ho dovuto distruggere in me stesso le immagini più care e quelle più autorevoli, ho dovuto respingere l’amore di mio padre e di mia madre, rigettare gli allettamenti e gli obblighi della società, adempiere le mie follie pur avendone paura; ho dovuto ricostruire pezzo per pezzo ciò che avevo distrutto con le mie mani. Anche l’alpinismo non è sfuggito a questo processo, anche il maledetto ricordo delle Grandes Jorasses. E sento che non è ancora finita, anzi lo so con certezza. Perciò la mia consolazione è nel fatto che ciò che è incompiuto non è perso e anche se non sono ancora felice non è ancora ineluttabile che io mi rifugi nelle soddisfazioni del passato.
Ricordo che allora ciò che mi ingombrava il pensiero era la risoluzione dei problemi esteticamente logici. Dopo l’ascensione scrissi perfino un articolo intitolato L’escalation dell’eleganza. Oggi non sono più sicuro che si trattasse di escalation e neppure che l’eleganza sia un valore assoluto. La via Cassin era troppo evidente perché non ne potessi subire il fascino e il richiamo. Poi c’era l’angoscia di gloria, il piacere del mio ego di vedersi e sentirsi sulla bocca di tutti. Queste erano le leve sulle quali agiva la mia anima perché io le andassi incontro. Ma dove risiedeva quest’anima, su quali rocce aveva la sua reggia, a quali altezze irraggiungibili volava, quante montagne, quante salite e quante solitarie avrei dovuto fare prima di scoprire il tesoro? E poi perché cercare un tesoro, perché credere a chi ti dice che esiste un tesoro? La mia anima voleva il mio amore e ciò succedeva perché non è vero che gli alpinisti amino la montagna, almeno finché vorranno conquistare e vincere. C’erano dei giorni e delle notti nelle quali sentivo pena per una mendicante piena di pulci che mi chiedeva l’elemosina, che mi chiedeva un po’ d’attenzione! La mia anima si travestiva bene e assumeva sempre le forme e gli abiti di ciò al quale io la riducevo con un certo atteggiamento. C’è mancato poco: ella poteva trasformarsi in una terribile strega, annientarmi, e io non lo sapevo. Sulla parete, a tre quarti del percorso, c’è il «camino rosso», un solco di roccia di solito ingombro di ghiaccio infido. Alla base di questo ostacolo, l’ultimo, ebbi per la prima volta la certezza di «avere vinto». Neppure dopo le «dalles noires» avevo creduto a questa possibilità. Ma ecco che il «camino rosso» mi gioca uno scherzo angoscioso, devo difendermi, assicurarmi, piantare dei chiodi; proprio quando ho cominciato a credermi vincitore, mi è stato presentato il conto. Non ci sono conquiste, solo acquisti semmai. Negli anni seguenti ho pagato tanti pedaggi, soffrivo senza sapere il perché, in ogni ascensione c’era sempre il momento nel quale i nodi con il mio destino diventavano più grossi e più difficili da sciogliere. E non sono più andato da solo perché avevo paura di cadere. Ma agli appuntamenti d’amore ci si deve andare da soli. Questo è il senso di «via solitaria».
Per molto tempo non ho più avuto la fortuna che mi fossero fissati altri appuntamenti d’amore, solo salite difficili, exploit, appuntamenti con la morte. Niente più sole, cielo, roccia calda, neve amica ma solo freddo, ghiaccio grigio, compagni di «spedizione». Non ha senso raccontare anche solo per sommi capi un’avventura che vista dall’esterno può assomigliare a centinaia di altre, non credo che una diapositiva inserita in un film gli dia più luce, anzi ne rallenta l’azione; non credo che un sogno si possa raccontare se non annoiando chi sente o legge. Ciò che di reale e importante c’è in tutto questo è la particolare atmosfera. Esiste in memoria il ricordo di quelle ore, ma è offuscato da migliaia e migliaia di altre ore che si sono sovrapposte: e se vado a rileggere ciò che scrissi allora quelle ore si scindono in altre ore e riemergono le ore da tempo seppellite. Sono i miei occhi che sono cambiati; il mio cuore, dopo il sifone della nascita, si ricorda appena di com’era bello galleggiare dall’altra parte, nel liquido amniotico della storia epica di Allain e Cassin e della sconvolta geografia dei ghiacciai e delle pareti nord.
Qualche tempo fa mi vedevo arrampicare sulla Walker, le rocce erano tappezzate di manifesti con il mio volto riprodotto: dicono che le pareti sono specchi e uno specchio riflette noi stessi. Ma alla cima di questa serie di poster rocciosi, in luogo della vetta a cono nevoso, c’era un volgare rifugio Torino, una stazione ferroviaria di tazzine di caffè e piatti mal risciacquati, all’odore fumoso di cappucci tiepidi, come se bere e mangiare fossero la prosecuzione dell’impianto funiviario e il clangore di sci e scarponi si proiettasse sui tavolini insozzati di briciole, aranciata e bustine di zucchero squarciate. In quel luogo orribile mi prendeva per mano mia moglie e faceva in modo che la seguissi lontano dal vuoto sul quale il rifugio è costruito. Ma quando tutto ciò è successo? Prima della salita o dopo la salita? Questo ciclico ripetersi di elementi simbolici per qualche remoto errore o volontà universale si è manifestato nella nostra dimensione fisica l’8 luglio 1968. Sento quanto è ridicolo non solo contare le repliche di una recita teatrale ma anche pensare alla lontana sera della «prima» senza avvedersi che ormai l’autore ha altri progetti. Ma senza recite e senza teatro, senza date e senza registri chi potrebbe mai sapere cosa succede nell’universo?
Anche nell’alpinismo si confrontano due grandi fazioni: i fautori del vago da una parte e i seguaci del definito dall’altra. Ogni nostra azione in montagna è sempre un compromesso tra questi due mondi, ai quali si potrebbe dare una lunga serie di nomi contrapposti.
Si dice che l’alpinismo non è uno sport perché non v’è competizione valutabile da una giuria, non ci sono metri, secondi, punteggi. Ma d’altra parte c’è gente che s’ingegna nell’incasellare in appositi schedari ogni minuto dell’esistenza in montagna, esistenza propria e degli altri. Le «topo-guides» indicano i percorsi, consigliano, dicono ciò che è classico e che cosa meriterebbe di diventare classico, legiferano su ogni singolo movimento degli arti: al massimo del travestimento, impongono dettami ecologici. I manuali insegnano la tecnica, come se tutto fosse solo tecnica e con essa si potesse fare qualunque cosa: i film e le conferenze, i libri e le riviste vorrebbero far sognare e invece annoiano mortalmente come le fiere e i mercati di oggi, cadaveriche sopravvivenze di tradizioni sepolte; la pubblicità dei fabbricanti aggiunge una nota grottesca alla progressiva automazione.
Quale spazio rimane alla creatività? Nel generale lamento di qualche anno fa sulla difficoltà di aprire nuovi itinerari sulle Alpi si sono scoperte le falaises. Ci siamo gettati tutti sul nuovo e divertente terreno. Ma oggi, in mezzo ai nuovi codici, con nuovi dei e nuove leggi ma soprattutto nuovi tabù, che reale possibilità abbiamo di creare qualcosa? Se già è difficile essere creativi in una ripetizione (Bernard Amy dice ri-creazione), in una «prima» è ancor peggio, i condizionamenti sono maggiori, anche se pochi lo ammettono.
Solo la menzogna può essere creativa in questa orrida babele di robot. Purtroppo è proprio vero che solo con una piccola bugia un ragazzo può affermare se stesso e sentirsi vivo: per lo meno è il sistema più a portata di tutti. Anche se piccola, esiste una ricompensa che segue la «dimenticanza» (quanti chiodi hai afferrato? Due, ma invece erano tre… Sì, ma al terzo ho appoggiato solo 10 chili del mio peso…); ci si può aspettare una gratifica dopo la distorsione di verità (era dura quella salita? Era «bellissima»!); c’è un’oscura gioia al di là di una svalutazione di passaggio o al di là della predizione di Mummery al riguardo del Grépon.
La nostra creatività è dietro a chissà quali solide sbarre e chissà su quali rocce irraggiungibili abita la nostra anima, se ci accontentiamo di queste misere menzogne, fantasie immiserite, e se ciò che realmente creiamo dev’essere nascosto al giudizio pubblico perché improponibile, inaccettabile, osceno.
Ma la nostra anima ci attende in cima a qualche montagna, basta innamorarsene e quindi riconoscerla, anche se si fosse coperta di sporcizia e di sottoprodotti della nostra «civiltà». L’uomo dev’essere da solo, buttare via i compagni, le guide, le difficoltà, i codici, gli scopi, il finto amore per una donna. Questo è il movente che è dietro a ogni solitaria: anche se non si riesce a creare nulla, per lo meno si tenta di far pulizia di parecchio ciarpame.
Oggi si parla molto di clean climbing, nel pieno rispetto della natura, dei tabù ecologici e dello spregio dell’artificio tecnico: ma quando si parlerà del «mentally clean climbing»? Finché trascineremo con noi i nostri sacchetti del supermercato non potremo vedere noi stessi e i nostri compagni. Una solitaria è un aiuto, un’occasione. Ma si potrebbero fare anche cinquanta solitarie senza nulla comprendere, senza capire soprattutto che le nostre solitarie sono state programmate su nastro solo in qualità di esempio per altri o in rappresentanza di altri, come i deputati di un partito. Dopo qualche tempo, e questo dipende dal fatto se si fa la parte della meteora o del sole o di qualche altro pianeta duraturo, l’esempio deve decadere, diventar vecchio e obsoleto come un’annosa barzelletta: e lo si butta via senza pietà. Così diventiamo esempi di altro tipo, riciclati e compianti «in memoriam». Ma allora la mia solitaria alla Walker non è la perfezione!
Parete nord delle Grandes Jorasses
Alla domanda «sei salito senza mai, né prima né dopo né durante, pensare agli altri?» non posso rispondere come vorrei. È certo vero che, se non ci fossero stati gli altri, non avrebbe avuto senso per me neppure come idea.
Nel nostro mondo occidentale un’azione senza scopo è irritante, come un teatro senza spettatori: a volte si può insinuare perfino il sottile dubbio del narcisismo. Dunque il confronto con gli altri era necessario per l’ascensione solitaria. Ciò che io ora vedo perfetto è solo l’idea che ne ho ora, non la cosa in se stessa. Vale la pena compiere tanta strada e fatica solo per ridursi a considerare perfette solo le idee? Sono lucido mentre una grande frana crolla sulla parete delle Grandes Jorasses, seppellendo idealismi e poster a colori, e mentre il rifugio Torino in cima alla montagna diventa un grande giardino fiorito, al profumo dell’erba e del sole. Con timidezza mi affaccio sul nuovo Eden e scopro che non è poi così difficile dimenticare di aver salito lo sperone, che è bello abbandonarsi alla gioia di non averlo mai salito.
Ma questa sarebbe la felicità, che non è cosa nostra. Ci è dato vederla a squarci, e basta. Ma nella nostra dimensione i fatti sono fatti, non mutano e rimangono. E poi, perché rimpiangere, dopo un bivio, di aver scelto una via piuttosto che l’altra?
È vero che ascolterei volentieri l’autentica storia di quell’ascensione dalla voce di pietra della montagna stessa. Sappiamo che la voce c’è e che è solo questione di traduzione. E sono sempre il solito assetato di sapere.
E ascolto con una punta di desiderio i sereni sussurri che le Grandes Jorasses bisbigliano all’Aiguille de Leschaux e i fremiti d’amore che questa le suggerisce, al mormorio di corte del gran Re, il Monte Bianco.
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Di solito quando praticando l’alpinismo si realizzano “robe” non alla portata della massa, ma nemmeno di quelli bravi, insomma si fanno delle “robe” molto “uniche”, si possiedono anche delle motivazioni molto forti e difficili da razionalizzare facilmente, magari nemmeno accettabili facilmente. Con il passare degli anni talvolta si riesce a capire se stessi in quei momenti lontani e magari si riesce anche ad accettare se stessi. Ma è sempre molto difficile farlo e pure è molto difficile che si venga capiti da chi non può sapere, perché non le ha vissute, cosa significhi fare certe “robe”. Così mi avevano quasi spiegato Cassin, Casarotto, Detassis, per dirne solo tre ai quali ero affezionato.
Scusatemi, non avevo capito la “grande e bella sincerità” di A: mi sarebbe d’aiuto- magari- qualche particolare in più della sua ( loro..?) love story; meglio se condita-pardon: accompagnata- da qualche foto di S.( meglio se presa alle Calanques, dove si arrampicava spesso in costume da bagno…). E poi, perché una foto di “Silvana ormai vedova..” e non una di Ornella ” neo-moglie”? Fortunatamente per lei, S. non usa Internet; altrimenti penso che manderebbe qualche Vaffa anche dalla lontana Seattle.
Renato, forse non hai capito la grande e bella sincerità di Alessandro.
Scusa Ale: non potresti riservare un po’ del rispetto per la montagna ANCHE per rispettare le donne? In particolare, potresti rispettare un po’ Silvana?..Che senso ha- per non dire: che interesse può avere per noi- tirare ancora in ballo- 50 anni dopo!- questa Silvana? E l’ultima perla :la foto con la dicitura :”Silvana, ORMAI VEDOVA ( “ormai”!!: SIC!!) al mio matrimonio..”. Più che Freud tirerei in ballo il normale galateo.
Lo stesso guazzabuglio di impressioni, lo stesso tiro incrociato di domande e risposte, la stessa girandola di visioni che (mi pare di ricordare) caratterizzeranno poi, l’anno successivo, l’epilogo della solitaria alla Via dei Francesi al Monte Rosa (la cosiddetta “sfida elevata a sistema”).
Bello, dopo tanti anni hai eliminato i miei ultimi dubbi con un bellissimo scritto e poche foto importanti : avevo pensato giusto e ora ti capisco, mi mancavano solo pochissimi pezzettini, grazie.
Sei stato molto bravo e molto sincero (ma bisogna anche capire).
Alberto:
Alessandro:
Sempre illuminante e, in questo (ma non solo) caso: poetico! A me piace perché mostra che l’alpinismo è soprattutto uno stile di vita in cui il salire le montagne è solo uno dei tanti tasselli che lo compongono.