Il couloir nord-est dell’Aiguille du Dru fu l’inizio della piolet traction sulle Alpi.
Anche nei fenomeni storici, come in quelli sociologici o ideologici, c’è un preciso punto che agisce da spartiacque: divide il “prima” dal “dopo”. Nella progressione su ghiaccio il discrimine fra il prima e il dopo è rappresentato dalla piolet traction. La sua epifania è costituita dalla celebre salita, con la “nuova” tecnica, del couloir nord-est dei Dru (28-31 dicembre 1973) ad opera dei francesi Walter Cecchinel e Claude Jager.
Fu quest’ultimo a diffondere il racconto della salita presso il pubblico italiano con un articolo pubblicato sulla Rivista della Montagna nel 1975: a distanza di 45 anni, il testo merita a una (ri)lettura appassionata e gustosa (Carlo Crovella).
Aiguille du Dru, couloir nord-est
Testo e foto di Claude Jager
Traduzione di Gian Piero Motti
(pubblicato sulla Rivista della Montagna n. 19, gennaio 1975)
“Seguiremo sempre la via che porta alle altezze (Platone)”.
ll braccio si tende al di sopra del vuoto, la mano si apre ed è la caduta. Una frazione di secondo, primo contatto con il ghiaccio, poi nella rigola sinuosa una veloce scivolata che si perde nell’aria glaciale, secondo contatto con il ghiaccio e infine il tonfo nella spessa e morbida coltre di neve polverosa che ricopre il ghiacciaio. Dal terzo bivacco, in pochi secondi, la cartuccia vuota del gas, ha percorso il nostro cammino che ci è costato tre giorni di durissima lotta sulla parete nord del Petit Dru, la cui severità può solamente rivaleggiare con l’ammirazione che desta negli alpinisti e nei turisti che la osservano dai Grands Montets.
Venerdì 28 dicembre, al sorgere del sole, Walter Cecchinel ed io stiamo per dare inizio alla lotta che ci terrà impegnati nel couloir nord che sfocia alla Brêche des Drus. Questa volta siamo decisi a tutto. Ma quanti tentativi risoluti si sono trasformati in ritirata durante le marce d’approccio invernali, che a fondo valle si erano immaginate con troppa leggerezza come una bonaria camminata estiva! E quante di queste marce d’approccio, prematuramente vissute come veloci cavalcate verso il campo della gloria, si sono trasformate timidamente in silenziosi trasporti di materiale alla base della parete!
Siamo stracarichi e tentiamo di abbracciare una neve polverosa che si rifiuta di aderire alla suola degli scarponi. Ma andiamo avanti poiché le nostre occupazioni non ci permettono che un unico tentativo: nel giro di una settimana devo assolutamente essere al liceo di Chaumont… e poi la meteo non prevede che tre giorni di bel tempo… Eppure se penso ai giorni precedenti, mi scopro senza convinzione durante i preparativi. Una strana apatia ci aveva presi, d’altronde il vento del sud non smetteva di soffiare… forse si cercava una scusa per non partire… Ma quando il momento della partenza verrà deciso, la precipitazione si impadronirà di noi e ci farà dimenticare delle piccole cose di grande importanza come il coltello e la patella di un sacco.
Venti metri di salita in una trincea di neve si aggiungono alle centinaia già percorsi. Si lascia cadere il sacco, ci si scrolla un poco guardando con attenzione il cielo. Il leggero strato di nebbia verso sud e la striscia lasciata da un reattore, non così definita e sottile come si vorrebbe, danno una leggera inquietudine. Mezzogiorno è passato, è passata anche la crepaccia terminale, un caffè bollente per rimetterci in sesto ed infine l’alleggerimento tanto atteso: viveri, materiale da bivacco e tutta la chincaglieria inutile nella prima parte del couloir, è schiacciata in un sacco che tireremo su lungo la parete.
Stranamente il morale aumenta con il decrescere del peso dei sacco e con l’aumentare della pendenza: finita la neve polverosa, ora ghiaccio vivo, dunque rapida progressione e issaggio del sacco. In fin dei conti ci stimola anche un po’ di fierezza: nessun aiuto per la marcia d’approccio, nessun collegamento con il fondo valle. Abbiamo avvertito solo qualche amico: essi sanno che siamo partiti per un’avventura di cinque o sei giorni, che terminerà a fianco della piccola vergine metallica del Petit Dru. Se ia nostra salita dovesse terminare con il cattivo tempo, vi appenderemo una fettuccia rossa che testimonierà il nostro passaggio. Walter ha superato la crepaccia terminale e sale con la consueta rapidità e sicurezza: nemmeno una grossa valanga di neve polverosa staccatasi dal Pic Sans Nom riesce a rallentare la sua progressione, il dado è tratto e seguiremo sempre la via che porta alle altezze, quella che accresce in noi l’angoscia per ciò che ci attende, la grande paura del cattivo tempo che potrebbe intrappolarci in questo tetro imbuto di valanghe. Per quattro lunghezze di corda tutto fila liscio, Walter corre letteralmente su questo pendio che non ci impressiona troppo, ma che sicuramente è inclinato ad almeno 57 gradi (vedi Guida Vallot). Nella primavera 1971, Walter con il grandissimo Georges Nominé, aveva già superato questo primo colatoio e se allora avesse fatto bel tempo, ora senz’altro saremmo a cercare di saziare il nostro bisogno di eroismo su un’altra parete… Arrampico da secondo di cordata e ogni dieci metri isso il sacco mentre il primo si aiuta con una piccola carrucola.
Puristi, non levate le braccia al cielo per così poco! Sappiate che nel fondo del nostro zaino ci sono anche le amache, eppure noi pensiamo di fare dell’alpinismo forse non del tutto tradizionale, ma ditemi un po’, perché voler arrestare la tradizione ad un’epoca precisa, dove essa resterebbe quasi congelata, al cessare dell’attività di un grande alpinista, per eccezionale che egli sia! Noi ora siamo qui, abbandonati a noi stessi, viviamo la nostra lotta in condizioni di una severità tale da non invidiare per nulla quelle delle imprese passate. Come spiegate dunque che questo couloir, così evidente, così ben visibile dai Grands Montets, sia ancora da scalare?
Attimi deliziosi, quando ci scarichiamo dei sacchi e li appendiamo a qualche chiodo da ghiaccio. Nella fredda oscurità che cala troppo rapidamente in questa fine di dicembre proprio sulla verticale del colatoio che scende dalla Brêche des Drus, a colpi di piccozza tagliamo una piazzola larga venti centimetri. Grande sollievo per i piedi che da ore devono aggrapparsi sulle sole punte anteriori dei ramponi infisse precariamente in un ghiaccio fragile e vetroso. Il fornelletto, appeso a un chiodo, scioglie troppo lentamente il ghiaccio per procurarci tutta l’acqua necessaria a spegnere la nostra sete, dovuta alla disidratazione e più che altro all’angoscia che il fervore dell’azione ci aveva fatto dimenticare. Quando le nostre due amache sono distese una di fianco all’altra, finalmente ci corichiamo e apriamo il pacco dei viveri: dovevano essere delle razioni ben calcolate, certo non dei menu completi… troviamo invece tutto impiastricciato di miele uscito dai recipienti che non hanno resistito a compressioni di vario genere. Nel più grande casino immaginabile troviamo infine la carne secca che bisogna dilaniare con un coltello da cucina preso a prestito dai guardiani della funivia dei Grands Montets. Una strana tensione si impadronisce di noi. Ci manca l’appetito. La più piccola nuvola ci appare smisurata nel cielo cupo, scarsamente illuminato da una piccola falce di luna crescente. I quattrocento metri di terreno sconosciuto che ci sovrastano nella nostra immaginazione assumono aspetti terrificanti, come il pendio sul quale siamo sospesi. Walter ne serba un pessimo ricordo per averlo disceso in piena tormenta.
Ci consola il rievocare altri momenti difficili o forse più difficili, mentre cerchiamo di godere il comfort delle amache, nelle quali ci siamo accovacciati dopo una grottesca e faticosa ginnastica.
Dì, ti ricordi Tchick (soprannome di Walter) del bivacco da seduti, sotto la neve che s’accumulava tra la parete e la nostra schiena, all’uscita del couloir Lagarde-Segogne alla Pian? E la pila frontale caduta sul ghiacciaio sospeso della Blaitière, e il rampone che ha seguito la stessa sorte…? E l’uscita zoppicando, il giorno dopo, sulla vetta della Plan dove il vento ci costrinse ad abbandonare i sacchi per poter raggiungere l’Aiguille du Midi con un minimo di sicurezza! E le 36 ore sullo sperone Tournier senza dormire? L’A2 di notte con una pila mezza esaurita tra i denti… eh sì, bisognava essere un po’ giovani e pazzi…
Ma via, stiamo bene qui, dormiamo tranquilli, domani avremo tutto il tempo di vedere cosa farà.
Sabato 29 dicembre, il freddo mi sveglia ben prima dell’alba, ma mi sento molto bene, tutta la fatica è sparita in una lunga notte di riposo. Quando Walter si stacca dall’abbraccio di Morfeo, il caffè caldo è già pronto e noi ce lo sorbiamo in deliziose golate che sembrano direttamente colare nelle nostre membra irrigidite. A fatica ci liberiamo dei duvet e nel giro di un’ora mettiamo ogni cosa a posto. Un divertimento paragonato alla traversata che ci attende a sinistra. Rocce montonate e incrostate di ghiaccio, chiodi dalla sicurezza aleatoria, soste precarie, inizio di caduta fermato piantando disperatamente il becco della Condor (piccozza speciale). Che sollievo, quando finalmente ci troviamo ai piedi del muro roccioso solcato dalla fessura Nominé.
Scalata atletica, sicura, al di là della verticale, ma senza problemi se non fossero quelli del sacco che si incastra sotto gli strapiombi. La sera raggiungiamo una solida lama staccata, dove Walter ha trascorso il suo secondo bivacco nel 1971 con Nominé.
Così dunque siamo a faccia faccia con il terreno vergine, ora comincia la vera prima e già temiamo l’eventuale cambiamento del tempo, poiché i tre giorni di bello previsti dalla meteo ormai se ne sono andati. L’installazione del bivacco avviene con grande facilità, quando i piedi son posti sul ripiano di ghiaccio ricavato tra la scaglia di roccia e la parete, tanto che è necessaria solo un’amaca. Tutto il materiale è ben ancorato alla roccia che ispira sempre più fiducia che il migliore dei ghiacci. Eppure la nostra soddisfazione non è totale, vorremmo essere già tre lunghezze più in alto, a destra, per vedere, per saperla più lunga, vorremmo già aver messo i piedi nei couloir che discende dalla Brêche prima della sua strozzatura. Ma il tempo ci chiede un tributo per svelare questa incognita e dobbiamo restare in attesa in questa nostra seconda notte sul Dru.
Ma a cosa sarebbe servita una ricognizione se non a svelare l’intrigo dell’esaltante vicenda di cui contemporaneamente riusciamo ad essere gli autori e gli spettatori? E poi ciò che vogliamo non è forse la conclusione lassù, sulla Brêche che noi immaginiamo raggiunta in un sole sfolgorante o meglio ancora all’inizio di una notte di San Silvestro illuminata dalla cometa di cui da due giorni sto parlando al mio compagno?
Domenica 30 dicembre, ci separano quindici metri di corda, tre spezzoni di corda ci uniscono, un chiodo da ghiaccio assicura Walter aggrappato al ghiaccio quasi verticale con il suo martello ricurvo. Quanto a me, sto godendo di un comfort eccezionale: seduto su un blocco cementato al ghiaccio, con tre chiodi di autoassicurazione, la corda sotto le braccia, mi assaporo l’ultima sigaretta, la migliore.
Ma che succede? È il ronzio familiare di un elicottero che viene a infrangere il silenzio siderale del circo nord dei Drus. Eccolo l’apparecchio della Protezione Civile, a qualche centinaio di metri da noi! Attimi d’intensa emozione quando ad uno ad uno riconosciamo gli amici, così vicini e così inaccessibili. Quale conforto il comunicare idealmente con coloro che ci sostengono moralmente, quale angoscia quando René Romet fa scivolare il suo apparecchio nel profondo del colatoio stretto e oscuro: le pale ora non sono che a qualche metro dal ghiaccio, ma ancor più vicine alle pareti rocciose. Non riesco a trattenere le lacrime. Per un istante l’equilibrio psichico duramente voluto si infrange, la volontà che finora ha dettato ogni gesto di fronte a una situazione estremamente difficile, cede il passo agli affetti, ai sentimenti e alle emozioni profonde che bisognava duramente reprimere. Anche Walter mi confesserà di aver pianto, instabilità di un equilibrio artificialmente mantenuto. Noi piangevamo, ma la nostra condizione ci sembrava magnifica. Passano lunghi minuti, dopo la partenza dell’elicottero, necessari a ristabilire la calma in noi, ritrovare la realtà della nostra situazione per un istante dimenticata e ricuperare la volontà dura per raggiungere il nostro scopo.
Da questa mattina la nostra determinazione non ha fatto che crescere. All’alba un bel cielo limpido ha attenuato il disagio di abbandonare i caldi piumini e ha accelerato i movimenti della cordata sotto la chandelle, che dovrebbe affiancare la base del colatoio sulla riva destra. Se il vuoto che cresce sotto i nostri piedi in questa salita diagonale diminuisce le nostre possibilità di ritirata in caso di cattivo tempo, la scoperta di ciò che noi andiamo cercando da tre giorni, brucia ogni idea di ridiscendere. Il couloir è là, il suo ghiaccio è sotto i nostri ramponi e lo scarico strapiombante si perde nel vuoto qualche metro più a valle. Già ci vediamo in vetta.
Questa sera alla breccia? Ma no è troppo presto, il cenone è solo per domani sera!…
La grande incognita è svelata, non restano che 250 metri di ghiaccio scuro che così spesso abbiamo studiato dall’Aiguille des Grands Montets. Dapprima rettilineo e abbastanza largo, il couloir in seguito si rinserra tra le pareti rocciose, si torce e si raddrizza formando una S, la cui ripidezza del centro di simmetria ci fa pensare sicuramente alla scalata artificiale.
Tuttavia è necessario far presto, delle nuvole bianche giocano lassù con il sole della vetta e più lentamente si allontanano verso il nord. Che paura, se la tormenta, la neve e il vento ci sorprendessero nella rigola di quest’imbuto delle pareti nord del Petit e del Grand Dru! Le lunghezze si succedono, due chiodi da ghiaccio al massimo. Soste sulle rocce della sponda. La tecnica di Walter è perfetta, nessuna perdita di tempo. Il sacco da issare, mollato dal punto di sosta, pendola fin nell’asse del colatoio, poi dolcemente si lascia tirare sul ghiaccio nudo, che ha l’unico difetto di scheggiarsi quando si piantano i chiodi. Senza dubbio un’assicurazione del tutto morale, coloro che hanno dovuto sperimentarla realmente in una pista da bob inclinata a 75 gradi non hanno mai pubblicato le loro impressioni.
Già l’oscurità ci attornia. Ma dove sono volate le ore di tutta una giornata, sia pure il 30 dicembre? Benevolo colatoio, ora ci obblighi a bivaccare sotto la tua ultima e più difficile cascata per lasciarci uscire il giorno dei cenone come da lungo tempo speriamo!
Le amache disposte una sopra l’altra, gli 85 chili di Walter mi soffocano un po’, ma mi tengono caldo e mi danno protezione. A metà notte, suona l’allarme: comincia a nevicare proprio quando ci troviamo nella posizione più vulnerabile.
Sotto il telo della tendina disteso sopra le amache, facciamo gli struzzi e cerchiamo di dimenticare nel sonno le nostre apprensioni, mentre i fiocchi scivolano sulla nostra corazza di finta indifferenza.
Lunedì 31 dicembre: quest’angolo di mondo ci sorride. Immaginate: un lungo sonno riparatore, un cielo immacolato ai sorgere del sole e lassù, a mezza dozzina di lunghezze di corda, la Brêche des Drus illuminata dal sole che attende il nostro arrivo trionfante. Impazienti di liquidare il nostro colatoio, affrettiamo la colazione: qualche golata di caffè, le tartine saranno per la vetta.
E pianta una buona volta un chiodo, vecchio pazzo!
Walter non vuole barare, non è certo il caso per 15 metri a 80 gradi di fare la scala per galline… Due chiodi infissi e il mio compagno sparisce al di là della cascata; un terzo chiodo e poi è la sosta dopo 35 metri, proprio a picco sopra la mia testa. In fretta ficco il materiale da bivacco nello zaino e salgo il più veloce possibile per scoprire cosa ci attende.
Ancora ghiaccio, sempre ghiaccio, ripidissimo, a lambire il cielo, dove un essere vivente fa la sua apparizione. Ma da dove vengono quelli? sembra dire il corvaccio che volteggia graziosamente sopra le nostre teste. Poi se ne va, vira e plana dolcemente, ritorna forse per meglio rendersi conto da quale orrida gola noi stiamo uscendo. La pendenza diminuisce, finalmente la neve aderisce al ghiaccio e permette di mordere a tutte le punte dei ramponi. Ora l’azione si svolge troppo rapidamente, finite le difficoltà, l’intensità del nostro lavoro si attenua contemporaneamente all’indebolimento delle nostre risorse morali.
Un po’ frastornati, calpestiamo la neve della Brêche des Drus illuminata dal sole, incoscienti della nostra buona sorte, troppo soddisfatti e già pronti a dimenticare la durissima lotta che ci ha impegnati laggiù nella tetra ombra della parete nord. Ancora una volta l’equilibrio interiore si rompe, l’emozione è smisurata. E quando un ultimo problema si pone per il trasporto del sacco che non è più possibile issare sulla facile cresta che sale al Petit Dru, qualche parola forte, le prime dall’inizio dell’esaltante avventura, viene scambiata. Una incerta piattaforma ci permette di ritrovare la nostra calma e di ricuperare il materiale, Le cose ormai inutili resteranno qui nel sacco da recuperare. Alle 13.30 stiamo trafficando nel materiale quando arriva l’elicottero. I nostri amici, la cui gioia trabocca dall’apparecchio, ci fanno ancora prendere coscienza della nostra felicità. E siccome è il 31 dicembre, ci sganciano il più succulento dei cenoni: caffè al kirsch bollente, frutta fresca, crema, ecc. e anche del gas che resterà sulla vetta con il nostro surplus.
Quando delle grandi nubi invadono già la parte meridionale della catena del Bianco, cominciamo a scendere al sole, con calma, con molta prudenza, mentre laggiù in basso sul ghiacciaio due persone scendono verso la Charpoua. Quando lasciano il rifugio verso la valle, sapremo che non ci aspetteranno. Allora ce la prendiamo con calma, faremo il cenone sulle pareti del Dru, in un posto ideale e assaporeremo con calma sul terreno i frutti così duramente raccolti. Mercoledì 2 gennaio. Un ultimo ostacolo: la traversata dell’Arveyron al Bois (dell’acqua fino al ginocchio) ed ecco il nostro periplo terminato.
Ieri arrivati nel pomeriggio al rifugio, non abbiamo saputo resistere al suo frugale comfort e abbiamo trascorso dei momenti di pace, di tranquilla felicità, rivivendo a ritroso la tensione e l’intensa emozione che non ci lasciavano vivere prima dell’azione.
Ora possiamo rientrare soddisfatti. Fieri della nostra vittoria riportata in uno stile «tradizionale», sicuri di aver agito nell’etica dell’alpinismo, di un alpinismo classico che ha forse bisogno di un nuovo spirito per ritrovare le sue giuste dimensioni.
Note complementari
La tecnica dei ramponi a punte avanti è entrata ormai nell’uso corrente degli alpinisti. Anche l’impiego dei chiodi da ghiaccio conici e a vite, da piantare con il martello, sembra diffondersi sempre di più nelle scalate invernali quando il ghiaccio è particolarmente duro e vetroso. Ma è nel modo di impugnare la piccozza che recentemente si sono avute delle innovazioni, il primo di cordata attua una tecnica che alla scuola dell’ENSA è stata definita piolet traction. È una tecnica che ormai Walter Cecchinel insegna da più di due anni.
Essa consiste nell’impugnare la piccozza non più nel sistema di ancoraggio classico, il vecchio metodo francese, né in appoggio, attuale tecnica austro-tedesca, ma impugnando con la mano la parte più bassa del manico. L’altra mano esercita anch’essa una trazione servendosi di un martello da ghiaccio a becco ricurvo o di una seconda piccozza avente le medesime caratteristiche. La progressione in tal modo procede con un massimo di sicurezza anche sui pendii più ripidi e perfino al limite della verticalità. In palestra si sono superati dei passaggi anche leggermente strapiombanti. Tuttavia è importantissimo utilizzare unicamente del materiale che sia stato appositamente concepito per questa tecnica.
Anticamente, la piccozza modello GHM era stata costruita in funzione della tecnica suggerita da Jacques Lagarde. In tal senso la piccozza serviva a mantenere l’equilibrio o a tirarsi su impugnandola a due mani, una all’estremità inferiore del manico e l’altra al centro dello stesso: il pericolo evidente derivato da questa tecnica è ora praticamente eliminato dall’impiego di due attrezzi, uno per mano.
Materiale tecnico portato per la salita
Tre paia di ramponi a punte avanti (due per il capocordata); una piccozza metallica; una piccozza con manico di legno speciale per trazione; due martelli da ghiaccio; dodici chiodi da ghiaccio conici; quaranta chiodi diversi (titanio e cromo-molibdeno); dieci chiodi a lama di rasoio (non utilizzati); otto cunei di alluminio (quattro utilizzati); blocchetti e nut (non utilizzati); quattro staffe; due paia di Jumar; una corda da 80 metri da 9 mm; una corda da 40 metri da 9 mm; due amache.
Nota tecnica
Couloir nord-est dei Dru – Prima assoluta e prima invernale
Guide Walter Cecchinel e Claude Jager – 28/31 dicembre 1973
Attaccare il colatoio che discende dal Col des Drus. Superare la crepaccia terminale a 3000 m e salire nel canale (60°) seguendo il ghiaccio fino a giungere sotto un camino verticale, sulla verticale del tratto strapiombante del grande colatoio. Per due lunghezze di corda 70°.
1° bivacco a 3300 m su amache.
Attraversare ascendendo a sinistra per due lunghezze sotto delle placche strapiombanti in un terreno di estrema delicatezza (70° misto, V). Alzarsi (una lunghezza) in un canaletto di ghiaccio e di roccia (VI, 75° e 80°) fino a uscire su delle scaglie di roccia alla base di un muro verticale alto 80 metri. Superarlo in due lunghezze (A2, 35 chiodi, in prevalenza lame piatte e corte) utilizzando all’inizio una fessura chiusa non troppo visibile né evidente. Uscire da questo muro su terreno meno ripido e sostare a sinistra su una scaglia.
2° bivacco a 3430 m su amache.
Portarsi verso destra in direzione di una chandelle che fiancheggia la parte strapiombante, utilizzando un sistema di fessure e di diedri (V, A1 e A2), poi un camino (V, A1 e A2) per uscire poi in vetta alla chandelle (35 chiodi), raggiungendo delle rocce compatte e montonate che stanno al bordo destro del colatoio. Superare il colatoio per quattro lunghezze (65° e 75°) sul bordo destro, sostando su chiodi infissi nelle rocce laterali. Attraversare il colatoio (70°) per raggiungere la riva sinistra e superare due lunghezze ripidissime (75°) per raggiungere una vaga piattaforma estremamente esigua, posta circa 15 metri sotto la strozzatura del colatoio.
3° bivacco a 3580 m su amache.
Attraversare a sinistra, poi vincere la strozzatura del colatoio, di una ripidezza eccezionale (80° per 15 m), raggiungere la riva destra e alzarsi per tre lunghezze (da 75° a 70°) mettendo i chiodi di sosta nelle rocce laterali. Proseguire nel colatoio che di mano in mano diviene meno ripido (da 65° a 60°) fino a uscire in due lunghezze alla Brêche des Drus.
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Come già scritto un mese fa ( ma con ritardo rispetto all’articolo e scusate se mi ripeto) mi sembra doveroso ricordare lo storico trittico di Walter Cecchinel che rappresenta l’affermarsi della nuova tecnica su ghiaccio : ” piolet traction “.
16-17 settembre 1971 Cecchinel-Nominé al Pilier d’Angle
27-28-29 dicembre 1972 Cecchinel-Jager al couloir Lagarde-Ségogne
28-29-30-31 dicembre 1973 Cecchinel-Jager sal couloir NE dei Drus
Un grande applauso a questo tenace e simpatico alpinista francese di origini italiane che allora tanto ci fece sognare con le sue imprese .
Fabio, se mi paragoni a Gastòn poi mi monto la testa, non esageriamo.
Sarà meglio che torni fuori a spalare neve, ne cade sempre più. Ciao
Marcello Cominetti: sotto la dura scorza di una rude guida alpina batte il cuore di un poeta. Alla Rébuffat.
… … …
Marcello, scusa se ti ho detto poco! Voglio altri tuoi scritti cosí!
Già nel 71 Cecchinel con Nomine’ aveva affrontato con la stessa tecnica il Pilier d’Angle al Bianco, grandi salite per quei tempi.
Me la ricordavo! Una delle più belle ed esplicative frasi dell’alpinismo in uno degli articoli più significativi per me da giovane. Mi piace dire così, consapevole che sia un’esagerazione, anche perché ognuno ha i suoi gusti, ma:
“Sotto il telo della tendina disteso sopra le amache, facciamo gli struzzi e cerchiamo di dimenticare nel sonno le nostre apprensioni, mentre i fiocchi scivolano sulla nostra corazza di finta indifferenza” è per me bella quanto quella di Maestri al Cerro Torre nel 1970 che più o meno (vado a memoria) recita: “Il giorno prorompe in tutta la sua bellezza spazzando i fantasmi della paura della notte”. Mettono i brividi. Sento che è lo stesso concetto, anche per averlo provato tante volte, e lo sento come profondamente umano e non solo legato all’alpinismo, ma anche alla vita di tutti i giorni. Quante volte di notte abbiamo pensato a qualcosa che non ci faceva dormire dalla preoccupazione per poi vederla con altro occhio alla luce del giorno seguente?
E poi quella sottile e costante paura dell’arrivo del brutto tempo ante-previsioni su internet che fa diventare il termine “meteo” di genere femminile quando il tempo è bello e maschile quando si approssima il brutto. Ci avete mai fatto caso? Anche se si tratta di teoria maschilista, oggi sicuramente contestabile e detestabile, ma negli anni ’70 ricordo che di donne alpiniste (carine, poi…) ce n’erano ben poche.Eppoi l’abbigliamento! Le TOPPE su gomiti, spalle e ginocchia sono scomparse come se per aprire una via verso l’ignoto non servisse più combattere, ingaggiare una battaglia col verticale, la famosa “lotta con l’alpe” che vestiti e tessera del Cai hanno bandito dal loro campionario rispettivo. Tempi che cambiano.Infine, spezzo l’ennesima lancia a favore di SIMOND (e dire che mica mi pagano, anzi…), oggi vituperato marchio del supermercato dello sport che è Decathlon. Il martello Condor era fabbricato su suggerimento di Cecchinel dal laboratorio artigianale di Chamonix dei fratelli Simond, alpinisti e fabbri come i Grivel dell’altro versante del Bianco. Altro che picche economiche!