Libertà e orientamento giuridico – 1
(Skialp, studio giuridico e comparato Italia-Svizzera – 1)
Il Progetto Skialp@gsb è uno studio giuridico comparato Italia-Svizzera sulla promozione della pratica dello scialpinismo tra la Valle del Gran San Bernardo (AO) e la località svizzera di Verbier. E’ coordinato e diretto da Waldemaro Flick, Fondazione Courmayeur Mont Blanc.
La serietà con la quale in questo studio viene affrontata la complessità dell’argomento ne fa una lettura di interesse ben al di là dell’ambito locale. Abbiamo suddiviso Il Progetto Skialp@gsb in dieci puntate, nella certezza che ciascuna di queste risponderà a parecchie delle domande che da anni si fanno molti appassionati della neve.
Lo studio è articolato in tre diversi capitoli: Profili di diritto civile, Profili di diritto penale e Svizzera parte generale.
Nel testo abbiamo aggiunto qualche nota in rosso: sono considerazioni della Redazione di GognaBlog.
Profili di diritto civile – 01 (paragrafi 01-04)
(antropizzazione di una valle alpina e responsabilità in caso di caricamento online di tracciati scialpinistici in Italia)
a cura di Maurizio Flick (avvocato in Genova, componente del Comitato scientifico della Fondazione Courmayeur Mont Blanc) in collaborazione con Fondazione Montagna Sicura.
(Collana “Montagna, rischio e responsabilità”, n. 24)
1. Il progetto Skialp: caricare itinerari scialpinistici su piattaforme online
Il progetto SKIALP@GSB si pone l’ambizioso obiettivo di far diventare la Valle del Gran San Bernardo un punto di riferimento per lo scialpinismo. Si tratta di un progetto pilota, di un esperimento, considerato che lo scialpinismo è uno sport ancora poco strutturato a livello turistico e tendenzialmente lasciato alla libera organizzazione di chi lo pratica.
Per far diventare la Valle del Gran San Bernardo un punto di riferimento per lo scialpinismo, secondo le premesse indicate nel progetto, è necessaria una maggiore collaborazione transfrontaliera tra la Valle d’Aosta e il Vallese (Svizzera).
Qui viene a collocarsi il presente studio giuridico comparato che si propone di approfondire anzitutto la normativa vigente nei rispettivi Paesi – Italia e Svizzera – relativa allo scialpinismo, con particolare riferimento alla zona del Gran San Bernardo, la responsabilità di coloro che praticano lo scialpinismo, sia a livello amatoriale che professionale, nonché quelle del pubblico amministratore e del gestore delle aree sciabili attrezzate.
Nell’ambito del progetto, il Comune di Saint-Rhémy-En-Bosses (capofila) sta valutando l’opportunità di pubblicizzare 30 itinerari di scialpinismo su una piattaforma telematica denominata “Gulliver” ed eventualmente anche tramite altri strumenti. Ne discendono una serie di problemi nuovi, a quanto ci risulta mai trattati in letteratura.
Nota della Redazione: i redattori di questo studio si riferiscono qui alla “letteratura” tecnico-giuridica. Non concordiamo invece sul fatto che questi si possano considerare “problemi nuovi”. Anche tutta la letteratura precedente all’era internet (guide e monografie cartacee) aveva in teoria lo stesso problema di “possibile responsabilità”. La piattaforma telematica non crea il problema bensì lo acuisce.
Uno dei temi che spicca maggiormente riguarda le eventuali responsabilità che potrebbero essere imputate al pubblico amministratore in caso di sinistro sul tracciato pubblicizzato online. Bisogna infatti chiedersi se lo scialpinista, a fronte di un itinerario caricato sulla piattaforma online da parte del Comune, possa fare affidamento sulla “sicurezza” dello stesso e quindi, in caso di eventuali danni patiti percorrendolo, possa imputare all’amministrazione comunale una qualche responsabilità, magari a fronte della valanga che lo ha colpito durante l’ascensione o del sinistro occorso con altro scialpinista.
Peraltro, il progetto prevede che le Guide Alpine locali siano fornite di una app che consenta a queste ultime di aggiornare lo stato di un tracciato non appena lo abbiano percorso. Però, anche in questo caso, potrebbe insorgere il rischio di renderle responsabili di reati colposi, o di responsabilità extracontrattuale, qualora si verifichino sinistri causati dalle informazioni fornite o da quelle omesse.
Nota della Redazione: se si applica alla lettera questo principio si può essere responsabili di un’informazione erronea anche se questa è data solo un secondo prima del mutamento che ha causato il sinistro…
Ma i soggetti che possono potenzialmente essere chiamati a rispondere, qualora si giungesse alla realizzazione del progetto, sono i più svariati, in questa sede ci si limita a prendere in considerazione i principali. Lo scialpinista che utilizza la traccia per l’ascensione, il gestore delle aree sciabili attrezzate, il pubblico amministratore, la guida alpina, il maestro di sci e l’accompagnatore non professionale.
È chiaro che ogni fattispecie deve essere analizzata autonomamente partendo dal presupposto che, in primo luogo, il repentino cambiamento dei paesaggi montani rischia di rendere una traccia su internet inaffidabile già dopo poche ore.
Nota della Redazione: facciamo ancora notare che, prima dell’era internet e dell’informazione in tempo pressoché reale, gli appassionati (che in questo studio chissà perché sono chiamati “fruitori”) erano abituati a reperire le informazioni (al di là del passa-parola, sulle guide cartacee, di gran lunga passibili d’essere obsolete già appena stampate.
E ancora, vi è da interrogarsi sul grado di affidamento che si possa attribuire ad una semplice traccia caricata su internet e cosa la differenzi da un sentiero tradizionale.
Quali responsabilità siano imputabili al gestore del sentiero e se esse, per analogia, possano essere addebitate anche a colui che carica una traccia su internet. Questi temi saranno oggetto del presente studio.

2. L’evoluzione della montagna, dei suoi fruitori e della giurisprudenza. Il contesto in cui andrebbe a collocarsi il progetto Skialp
Se trent’anni fa uno scialpinista avesse causato una valanga in uno spazio aperto e incontaminato durante un’ascensione, un’ipotetica corte chiamata a giudicarlo avrebbe circoscritto la responsabilità dell’atto a chi l’aveva perpetrato.
Oggi, l’ipotetica corte rifletterebbe anche sulla responsabilità di chi ha trasportato lo scialpinista nelle vicinanze della vetta con una funivia (magari per non avergli fornite le dovute informazioni sui rischi di quell’area), del Sindaco del Comune ove la valanga è caduta (per non aver inibito l’accesso a quell’area a fronte del rischio valanghe), della guida alpina che passava nelle vicinanze (per non essere intervenuta).
Nota della Redazione: siamo costretti a osservare che l’aver usato il condizionale non riflette una realtà, che invece abbondantemente è tesa in quella deprecabile direzione. Episodi che riflettono una realtà persecutoria sono ormai all’ordine del giorno.
Fino a trenta, quarant’anni fa, il rapporto tra fruitore della montagna (sciatore, alpinista, scialpinista, escursionista) e operatore della montagna in senso lato (maestro di sci, guida alpina, gestore degli impianti e delle piste da sci e pubblico amministratore dei comuni montani) aveva dei connotati del tutto peculiari, determinati dal fatto che entrambi i soggetti del rapporto erano ben coscienti che gran parte del fascino dell’attività in montagna spesso consisteva proprio nell’affrontare la tensione generata dal pericolo e superarla con l’impiego delle proprie doti fisiche e morali (1).
Poche negli anni ’60 e ’70 sono state, ad esempio, le controversie tra guida alpina e cliente giunte in aule giudiziarie (2), ciò è strano considerato l’alto numero di sinistri che si registravano nella pratica dell’alpinismo (3). La spiegazione più plausibile è da ricercarsi nel principio di autoresponsabilità, che comporta una forte assunzione del rischio da parte di colui che si approccia a una determinata attività, in questo caso colui che fruisce della montagna.
Tra quelle poche risalenti sentenze, la maggior parte erano assolutorie per le guide, escludevano ogni tentativo di inversione dell’onere della prova a suo sfavore (4). Sembrava sussistere nel rapporto guida-cliente una sorta di patto implicito di esonero della responsabilità per colpa della guida (5).
Questo era particolarmente vero nel tempo in cui il mestiere di guida alpina aveva una connotazione turistico-elitaria, caratterizzata da un’accesa passione per la montagna, accompagnata spesso da una poderosa preparazione e capacità tecnica, da un forte spirito di rispetto e di solidarietà sia nella guida alpina che nel cliente. Il medesimo discorso valeva per il rapporto tra allievo e maestro di sci (6).
Ancora, discorso similare si potrebbe fare con riferimento al mutato rapporto intercorrente tra gestore delle piste e degli impianti e sciatore. In questo caso, fino all’inizio del XXI secolo, lo sciatore infortunatosi aveva discrete probabilità di riuscire ad ottenere il risarcimento del danno per il sinistro verificatosi durante la risalita sugli impianti, difficilmente gli veniva invece riconosciuto un ristoro dei danni patiti se il sinistro si era verificato sulla pista (7).
Non molto diverso è l’ampliamento delle maglie dei risarcimenti a cui si è assistito anche in tema di responsabilità del pubblico amministratore per danni verificatisi su beni demaniali. La giurisprudenza tendeva ad escludere l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. (responsabilità da cose in custodia) in caso di beni facenti parte del demanio pubblico. Tale norma non era applicata quando, a causa dell’estensione e dell’uso generalizzato e diretto da parte dei terzi, non era possibile svolgere i doveri di vigilanza posti a carico del custode (8). La giurisprudenza è oggi radicalmente cambiata e si è orientata ad affermare un più pregnante dovere di custodia in capo alla P.A.
Nota della Redazione: qui Maurizio Flick si è speso di più, rilevando ciò che in effetti succede, in parziale contraddizione con il condizionale usato più sopra.
C’è un aspetto importante da prendere in considerazione per leggere questi dati: rispetto al passato, oggi, la realtà è mutata. L’aumento del benessere, il conseguente aumento delle capacità finanziarie e del tempo libero per strati sempre più larghi della popolazione, la facilità e la rapidità dei trasporti anche via fune, la scoperta dell’effetto salutare e terapeutico dello sport alpino, hanno portato sulle montagne – oramai tutte ampiamente scoperte e prive di segreti – masse enormi di turisti provenienti dalle città, mediamente privi non solo di cognizioni tecnico-alpinistiche, ma spesso anche di semplice spirito sportivo, o addirittura di senso ecologico, desiderosi di emulare i modelli imposti dai media, ma incapaci di valutare il rischio che vanno affrontando e quindi non in grado di assumersene consapevolmente la responsabilità (9).
Nota della Redazione: anche se non negli scopi di questo studio, troviamo che qui era il caso di insistere sull’assoluta necessità culturale che un tale atteggiamento di de-responsabilizzazione del pubblico debba essere attenuato, insistendo e incoraggiando ogni iniziativa culturale e pratica che possa rincorrere questo scopo.
Molto è cambiato in questi anni e i casi ora brevemente illustrati sono solo la punta di un iceberg che non può essere oggetto di approfondimento del presente scritto, ma che permette di comprendere come attualmente vi sia una tendenza generale che non può essere ignorata.
In relazione a tale nuovo tipo di fruitore della montagna, l’ordinamento ha cercato di trovare forme di tutela più appropriate, aprendosi maggiormente alle pretese dei danneggiati, non volendo – o forse non potendo – più seguire pedissequamente la teoria dell’autoresponsabilità (10) o quella del consenso dell’avente diritto (11), espressione di una mentalità individualistica che sembra mal conciliarsi con le nuove concezioni sociali (12).
Un più sviluppato senso della solidarietà porta oggi a proteggere l’uomo-massa dalla sua stessa volontà di esporsi al rischio da altri creato, anche a scopo di lucro, soprattutto quando vi sia sottovalutazione del pericolo a cui egli si espone, spesso semplicemente per ignoranza (13).
Nota della Redazione: Il malinteso senso di solidarietà che porta a proteggere l’uomo-massa ha già mostrato nel tempo la quantità di danno che è stato in grado di produrre negli individui di tutte le età. Sul termine “società sicuritaria” si è già discusso abbastanza da rendere inutile ogni dubbio: ciascuno di noi deve prendersi le proprie responsabilità per archiviare il protezionismo pseudomaterno che caratterizza il nostro vivere quotidiano.
E così, tornando ad uno dei casi che qui più interessa, la professione di guida alpina è andata perdendo il suo carattere etico-romantico per assumerne necessariamente uno più tipicamente pratico-economico: non più quello tradizionale di accompagnatore di alpinisti ardimentosi e già tecnicamente preparati verso la vetta, ma di “operatore turistico della montagna”, garante del corretto atteggiamento dei suoi clienti verso la montagna.
La conseguenza è che il comportamento dei professionisti della montagna viene oggi valutato dai Tribunali con maggior rigore, spesso con l’esclusione dell’efficacia scriminante a favore della guida dello stato di necessità (art. 54 cpv. c.p.) e talvolta con l’applicazione dell’istituto dell’inversione dell’onere della prova, ovvero col riconoscere che l’attività alpinistica è per sua natura attività pericolosa (art. 2050 c.c.) (14).
Allo stesso modo, come si accennava, anche il pubblico amministratore nel corso degli anni è stato sempre più spesso coinvolto in processi, sia civili che penali e da ultimo anche contabili, proprio a fronte di questa nuova concezione solidaristica che trova sempre più riscontro.
Il pericolo che si può correre con una lettura in questi termini è, però, quello di addossare eccessiva responsabilità in capo ai soggetti che a diverso titolo operano in montagna, luogo ove il rischio rimane ineliminabile.
La montagna deve oggi misurarsi con dinamiche contraddittorie dove troppi chiedono più tutele, sicurezza, protezione, spesso senza ragionare minimamente sul concetto di auto-responsabilità e su una maggiore consapevolezza dei rischi.
La montagna è diventata sempre più un fenomeno di turismo di massa, favorito dallo sviluppo della tecnica, dei mezzi meccanici e delle stesse discipline sportive.
Tutti interessi che sono prevalentemente positivi, perché portano benessere e progresso, ma contemporaneamente sono fonte continua di problematiche nuove, di domande su nodi ancora in parte irrisolti, causati proprio dall’accesso sempre più facilitato alla montagna e da ciò che ne consegue. E così, ci si interroga su quali siano i limiti, i ruoli e i confini oggi da rispettare.
Questi nodi da sciogliere derivano anche dalla perdita nella collettività della percezione dei rischi che, al tempo stesso, contemporaneamente e contraddittoriamente, alimenta domande di protezione a tutto campo.
La conseguenza è che quando un soggetto subisce un danno, troppo spesso, invoca a gran voce protezione, chiede tutela giuridica, civile e/o penale, chiede indennizzi e risarcimenti, chiede che venga individuato un colpevole di quel fatto a cui magari ha fortemente concorso.
È cresciuta in maniera esponenziale la convinzione che ad ogni rischio deve corrispondere per forza la responsabilità di qualcuno, così come è esplosa la cultura ben definita della “protezione attesa” a tutti i costi.
La tendenza odierna da parte dei consociati è sintetizzabile con la formula: “minima autoresponsabilità, massima richiesta di autotutela”.
Le risposte da parte delle corti a queste richieste di tutela giungono e tendenzialmente sono di accoglimento. L’idea, in generale, e quasi a prescindere, è che più si risarcisce e meglio è; si giunge al paradosso che la disciplina della responsabilità in ambito civile sia tanto più avanzata e apprezzabile, tanto più moderna e progressiva, quanto più permette di espandere il complessivo “fatturato” dei risarcimenti contabilizzati nel sistema (15).
Secondo la migliore dottrina, la storia della responsabilità civile italiana è la storia di una traslazione progressiva dei danni: un sistema dove i principi cardine della responsabilità vengono resi flessibili per far sì che il danno non rimanga dove si è verificato (16). Contro questa generalizzata bulimia risarcitoria anche in dottrina sono però poche le voci che si muovono in senso contrario (17).
In ogni caso, un dato si può rilevare: nell’esperienza italiana si ha un passaggio un po’ schizofrenico da una fase in cui si risarciva decisamente troppo poco a una fase in cui probabilmente si risarcisce troppo (18).
Questo nuovo approccio in ambito montano rischia di comportare notevoli cambiamenti di tendenza rispetto al passato, dando spazio ad una deresponsabilizzazione dei fruitori della montagna e al contempo accollando eccessive responsabilità in capo alle guide alpine, ai maestri di sci, ai gestori delle aree sciabili attrezzate, nonché ai Sindaci dei Comuni di montagna.
È allora giusto oggi domandarsi se sia corretta la posizione del fruitore della montagna che in caso di danno cerchi sempre e comunque protezione e un soggetto a cui addossare la responsabilità.
Viste le premesse, si può comprendere meglio come queste dinamiche potrebbero portare a derive: ad esempio a emulare ciò che è accaduto per lungo tempo in ambito sanitario con la famigerata “medicina difensiva” (19). Condotte miopi che, traslate in ambito montano, potremmo chiamare di “montagna difensiva”: gli operatori della montagna, a diverso titolo, potrebbero adottare condotte di tal sorta perché mossi dalla paura di non potersi difendere adeguatamente in giudizio.
Un tale quadro di riferimento è da scongiurare. L’approccio dell’ordinamento verso queste dinamiche è come un pendolo che ciclicamente si muove da una parte all’altra. Per molto tempo il pendolo è rimasto inclinato verso una posizione quasi di sfavore per i danneggiati in montagna, ha poi avuto un brusco assestamento nel favorire il fruitore della montagna danneggiato, ora potrebbe smuoversi nuovamente trovando un giusto equilibrio se le corti sapranno leggere senza pregiudizi e in maniera corretta i numerosi cambiamenti che stanno caratterizzando gli sport e le svariate attività che si effettuano in montagna (20).
Questo discorso è fondamentale per capire l’andamento generale, come il trend sia decisamente più rigoroso rispetto al passato per coloro che operano in montagna e come un progetto come quello ipotizzato per la Valle del Gran San Bernardo debba essere analizzato rispetto a realtà che sono in movimento, non solo nel pianeta montagna, ma anche e soprattutto relativamente all’intera materia della responsabilità, sia contrattuale che extracontrattuale. Di seguito cercheremo di tratteggiare le diverse responsabilità che potrebbero essere imputate in caso di realizzazione del progetto ai soggetti che a diverso titolo operano in montagna.
Partiremo dal gestore delle aree sciabili attrezzate passando per la P.A., toccando gli sciatori e gli scialpinisti per poi concludere coi professionisti della montagna (guida alpina e maestro di sci).
3. Diritto penale vs diritto civile: il lento passaggio da una visione panpenalistica a una civilistica
Una considerazione preliminare ulteriore la si vuole esprimere e ha ad oggetto i diversi bacini che l’ordinamento offre per tutelare le stesse posizioni giuridiche in montagna: in particolare, il diritto civile, il diritto penale e il diritto amministrativo.
Per troppo tempo, tra tutti i rimedi giuridici astrattamente utilizzabili per affrontare i rischi della montagna e gli altri rischi della modernità, è stato privilegiato il momento repressivo della sanzione penale, emarginando e rendendo in tal modo scarsamente appetibili e utilizzabili gli altri due serbatoi offerti dalla responsabilità civile e dalla variegata gamma degli strumenti propri del diritto amministrativo.
Anche in questo caso possiamo usare l’efficace immagine del pendolo che ciclicamente si muove da una parte all’altra. Per molto tempo è rimasto inclinato verso il diritto penale, a nostro avviso è ora di smuoverlo verso il diritto civile per svariate ragioni.
Questo è il problema di fondo: si passa sempre il testimone al processo penale come luogo di soluzione dei problemi di massa. Ma non ci sembra un buon modo di procedere per diversi motivi che brevemente cerchiamo di elencare nel prosieguo:
1) In primo luogo, perché si alimenta una visione “panpenalistica” dei problemi sociali, facendo confluire tutto nell’imbuto del penale con alla base una pericolosa illusione, che è la tipica illusione repressiva per cui si dice: privilegiamo il penale perché così i cittadini sanno che rischiano delle sanzioni penali e non commetteranno più certe azioni (funzione preventiva, repressiva, deterrente). Tante volte abbiamo letto sui giornali, sull’onda emotiva di un incidente da valanga, paventare soluzioni penalistiche come se questa strada fosse una panacea, un rimedio universale capace di risolvere qualsiasi problema.
Si è capito invece da quel dì che l’evocazione di questa idea e la funzione del penale non funziona più come momento di prevenzione generale. Il rischio è che il richiamo al diritto penale assuma il valore di mera grida manzoniana.
Non serve paventare la galera per chi causa una valanga, o comunque ne è responsabile.
2) Il pubblico amministratore locale – e talvolta anche il gestore delle piste – nel caso di incidenti da valanga assume il ruolo di “parafulmine” cui addossare responsabilità per il sinistro occorso.
3) In caso di valanga che cosa può fare andare esente da responsabilità un sindaco? Non dobbiamo dimenticare la nozione tradizionale di “caso fortuito”, (ciò che alla fine può rendere non punibile una condotta umana). Essa poggia su due presupposti: l’imprevedibilità e l’inevitabilità (o non prevedibilità) dell’evento.
a. Certamente la tecnologia ha aumentato le possibilità di previsione. Però, le valanghe non sono certo prevedibili riguardo al punto esatto di verificazione, al giorno e all’ora, all’esatta quantità (potremmo parlare di una prevedibilità parziale). Tali eventi, sotto questi profili rimangono inevitabili: le piccole valanghe per la loro dimensione spesso sfuggono ai pur sofisticati apparecchi di monitoraggio installati nei luoghi più a rischio delle nostre montagne.
b. E qui, a tutela degli amministratori e dei gestori, interviene il limite dell’esigibilità nella valutazione della punibilità di certe condotte tenute dagli stessi amministratori. Questa tipologia di micro-valanghe, per quanto prevedibile, continua a essere inevitabile, perché non può essere evitata neanche con la normale diligenza, non potendosi certo ipotizzare (ci troveremmo nell’area infatti dell’inesigibilità) l’adozione di misure sproporzionate, ad esempio, di interdizione perpetua di una zona, di una strada, ovvero non può chiedersi al Comune di disporre una sentinella ogni 10 mt. per osservare il rischio di distacco di slavine dal pendio, e così via; mentre l’attività doverosa da porre in essere dall’amministrazione locale potrebbe sufficientemente tradursi nel segnalare ed informare adeguatamente. Non è vero che un evento che prima era imprevedibile e adesso è prevedibile debba essere automaticamente, se si realizza, fonte di responsabilità e di colpa, quando continua a essere inevitabile.
Nel caso fortuito c’è l’imprevedibilità e c’è l’inevitabilità. Occorrono tutti e due i requisiti perché si possa parlare di caso fortuito: anche se viene meno l’imprevedibilità, se resta l’inevitabilità, siamo sempre nel caso fortuito e non c’è responsabilità.
4) Proseguendo l’analisi dei serbatoi forniti dal diritto proponiamo un’ultima questione che fa ulteriormente propendere per aprire maggiormente alla responsabilità civile. Lo strumento penale non appare la strada migliore neppure per governare i fenomeni di cui ci occupiamo perché presenta tutta una serie di limiti anche in relazione alla pratica possibilità di arrivare, alla fine, alla condanna di un responsabile. Negli ultimi 15 anni c’è stato un radicale mutamento nella giurisprudenza della Corte di Cassazione (seguita poi in massima parte dai giudici di merito) su quello che è lo standard probatorio richiesto nel nostro ordinamento per condannare penalmente una persona.
Dal 2002 (famosa sentenza Franzese delle Sezioni penali unite della Cassazione), la nostra giurisprudenza si è attestata sul fatto che non si può condannare in sede penale un soggetto, se la prova della sua colpevolezza non è emersa “oltre ogni ragionevole dubbio”.
Questo approdo della nostra giurisprudenza è stato favorito dalla parte migliore della dottrina penale e della dottrina civile, che da anni, discutendo proprio di quale fosse la sede in cui vanno tutelate al meglio le vittime della modernità, aveva ritenuto che in quella penale si dovesse elevare lo standard probatorio richiesto per la condanna a livelli prossimi alla certezza accettando, a compensazione di ciò, un parallelo allargamento dello standard occorrente in sede civile, individuato nella regola del “più probabile che non” (principio accolto dalle SSUU Cassazione civile nel 2008). E la Cassazione segue da quindici anni questo principio. Nel penale si è dato spazio ad un regime probatorio rigoroso che ha portato a stringere le maglie, al contrario nel civile le maglie si sono allargate. Cioè, si è detto che la condanna penale deve avere una forte contrazione, essendo il diritto penale incentrato sul favor rei verso l’imputato e sul fatto che, quindi, è molto meglio che un colpevole venga assolto o non venga neppure incriminato, piuttosto che un innocente venga condannato, mentre è nel processo civile – improntato al contrario al favore per la vittima – che deve avere molto più spazio di prima il risarcimento delle vittime (funzione compensativa della responsabilità civile). Questo è il bilanciamento, o se vogliamo il compromesso, che da quindici anni si è introdotto a livello giurisprudenziale, perlomeno a livello di giurisprudenza della Cassazione, ma che ogni giudice di merito avrebbe il dovere di rispettare e di seguire, cioè: riduzione dell’area di ciò che deve finire nel processo penale perché venga aumentata parallelamente l’area della responsabilità civile.
Questo approccio dovrebbe essere seguito maggiormente anche nel settore della montagna.
Di fatto, la dimensione civilistica della casualità è ancillare, perché le regole e la costruzione teorica appartengono alla scienza penalistica. Continuiamo a leggere che le regole causali sono contenute negli articoli 40 e 41 del codice penale, ma non è propriamente così.
La differenza fondamentale tra il diritto penale e quello civile risiede nel fatto che il primo si concentra sui fatti che provano la responsabilità del danneggiante; il secondo si concentra sui cambiamenti subiti dal danneggiato. Il che può portare ad esiti molto diversi perché il protagonista del processo penale è l’imputato, quello del processo civile è il danneggiato. L’esempio classico riportato è quello di due cacciatori che sparano ad un terzo simultaneamente, scambiandolo per una animale. Nel processo penale può capitare che vengano assolti se non è possibile stabilire quale delle due armi abbiano esploso il colpo che ha raggiunto il terzo cacciatore. Ma il processo civile può rintracciare una correlazione tra il comportamento di entrambi e il danno subito dalla vittima (21).
5) L’opinione pubblica forse non è ancora preparata a comprendere come mai il medico o l’amministratore assolto in sede penale possa essere condannato per lo stesso fatto in sede civile. Sembra una cosa incredibile, che induce a dire “ecco, la solita giustizia italiana che va a rotoli, che è sfasciata”. No, non è vero: si applicano nei due processi criteri completamente diversi. È giusto che, se nel processo penale non si è raggiunta la prova oltre ogni ragionevole dubbio della colpevolezza si assolva e che, invece, nel processo civile, dove magari quell’amministratore si vede citato in giudizio ai sensi dell’art. 2051 del codice civile, sulla responsabilità da beni in custodia, venga condannato.
Un esempio concreto: se il Comune è proprietario di una strada che ha una buca o presenta altre situazioni di pericolo e se una persona si fa male cadendo nella buca stessa o subisce altri danni, quella persona ottiene molto facilmente il risarcimento in sede civile, mentre in sede penale non ottiene certo (o la ottiene in casi estremi) la condanna del Sindaco per reati colposi, perché nel civile la responsabilità è, come nel caso dell’art. 2051 c.c. oggettiva o comunque con l’onere della prova invertito (a carico del Sindaco), mentre nel penale è sempre l’accusa (il P.M.) che deve provare oltre ogni ragionevole dubbio la responsabilità dell’imputato.
Pensiamo poi a quante volte capita il caso del medico assolto in sede penale dal reato di omicidio colposo e che poi in sede civile viene condannato per non aver dimostrato di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno… Quindi, esistono altri serbatoi nel sistema giuridico troppo inutilizzati e che sono da sviluppare: il diritto civile, come si è appena visto, e il diritto amministrativo, cioè il luogo elettivo dell’azione, specie pubblica, di prevenzione.
Quello di prevenire e programmare è il ruolo che devono avere gli enti locali, che hanno una gamma di strumenti a disposizione molto ampia.
(continua)
Note
(1) Osservazioni in questo senso venivano già formulate da Marco Pradi, La risposta della giurisprudenza, in I limiti della responsabilità del maestro di sci e della guida, in Quaderni della Fondazione Courmayeur, Montagna rischio e responsabilità, 3, 1994, Aosta, pp. 65-67. In dottrina pochi sono i contributi sulla responsabilità della guida alpina, tra questi si possono ricordare Margherita Pittalis, Fatti lesivi e attività sportiva, Milano, 2016, pp. 181-184; Leonardo Lenti, La responsabilità civile delle guide e degli accompagnatori non professionali nell’alpinismo e nell’escursionismo, in Gabriele Fornasari, Umberto Izzo, Leonardo Lenti, Francesco Morandi, La responsabilità civile e penale negli sport del turismo. La Montagna, Torino, 2013, pp. 379 ss.; Gianluca Ciurnelli, I contratti del tempo libero, in Ciurnelli, Monticelli, Zuddas, Il contratto d’albergo, il contratto di viaggio, i contratti del tempo libero, Milano, 1994, pp. 299-300; Andrea Sassi, Guida alpina, ne I nuovi contratti nella prassi civile e commerciale, VIII, Tempo libero, in Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di Paolo Cendon, Torino, 2004, p. 45; Antonio Gambaro, In tema di responsabilità della guida alpina in Riv. dir. sport., 1978, p. 459. Renato Chabod, Il contratto di guida, in Riv. dir. sport., 1959, p. 270 ss.
(2) Pochissimi sono i precedenti giurisprudenziali in materia.
(3) Il medesimo discorso vale anche per gli altri sport di montagna, l’andamento è similare.
(4) Cfr. Sul punto Marco Pradi, La risposta della giurisprudenza, in I limiti della responsabilità del maestro di sci e della guida, cit., p. 65. Si ricordano al riguardo alcune pronunce penali: T. Trento G.I. 6 dicembre 1949, imputati Merci e Endrizzi; T. Trento G.I. 11 ottobre 1968, imputato Stenico; T. Trento 9 novembre 1979, imputato Finetto; App. Trento 14 aprile 1980, imputato Finetto; App. Torino — Sezione istruttoria — 5 gennaio 1983, imputato Rosti.
(5) Ciò pur nella consapevolezza che la vita e l’integrità fisica non sono diritti disponibili (art. 5 c.c.) e che quindi non possono essere oggetto di regolamentazione contrattuale Cfr. sul principio di autoresponsabilità in montagna le acute osservazioni di Leonardo Lenti, Montagna, libertà e responsabilità, in Gabriele Fornasari, Umberto Izzo, Leonardo Lenti, Francesco Morandi, La responsabilità civile e penale negli sport del turismo. La Montagna, Torino, 2013, p. 107.
(6) Con riferimento all’applicabilità dell’art. 2236 c.c. al maestro di sci cfr. Giuseppe Chinè, «Con la neve alta così»: di sci, impianti di risalita e responsabilità civile, in Riv. dir. sport., 1995, p. 594; Mauro Ambrosio e Marco Bona, Responsabilità dei maestri di sci, cit., pp. 905-906, i quali, richiamando l’inedita pronuncia del T. Torino, 28 maggio 1994, che ha dichiarato l’inapplicabilità della norma in discorso all’ipotesi in cui un allievo era stato travolto da una valanga sciando fuori pista sulla base del rilievo che, nel caso di specie, il maestro non era stato chiamato a risolvere problemi di particolare difficoltà, ma ad usare l’ordinaria prudenza, osservano, che, nell’applicazione giurisprudenziale, l’operatività della norma in parola è praticamente inesistente o comunque limitata ad ipotesi assolutamente marginali, perché nei fatti di difficile verificazione; Marco Bona, Andrea Castelnuovo, Pier Luigi Monateri, La responsabilità civile nello sport, ne Le nuove frontiere della responsabilità civile, collana diretta da Pier Luigi Monateri, Milano, 2002, p. 165; Federica Lorenzato, La responsabilità civile del maestro e della scuola di sci, in La responsabilità sciistica. Analisi giurisprudenziale e prospettive dalla comparazione, a cura di Umberto Izzo e Giovanni Pascuzzi, Torino, 2006, p. 132.
(7) Certamente il riconoscimento del contratto di skipass ha ampliato l’ombrello delle responsabilità che ricadono sul gestore delle piste, rectius delle aree sciabili attrezzate a seguito della Legge n. 363/2003.
(8) Si riteneva applicabile l’art. 2051 nei confronti della P.A. per le categorie di beni demaniali quali le strade pubbliche solamente quando, per le ridotte dimensioni, ne era possibile un efficace controllo ed una costante vigilanza da parte della P.A., tale da impedire l’insorgenza di cause di pericolo per gli utenti (C. 20827/2006).
(9) Il tema è esaustivamente trattato da Leonardo Lenti, La responsabilità civile delle guide e degli accompagnatori non professionali nell’alpinismo e nell’escursionismo, cit., pp. 379 ss.
(10) Su tutti cfr. Valeria Caredda, Autoresponsabilità e autonomia privata, Torino, 2004, p. 109 ss.
(11) Trattasi, come è noto, di causa di giustificazione prevista dall’art. 50 c.p. in base alla quale non è punibile chi lede o mette in pericolo un diritto con il consenso della persona offesa. Posta la rilevanza dell’autonomia privata, l’efficacia del consenso non è illimitata. L’illecito compiuto è infatti giustificato dal consenso del soggetto passivo solo se questi esercita tale facoltà in riferimento ai diritti disponibili.
(12) I «punti di frattura» fra i due paradigmi contrattuali, quello classico e quello del consumatore, a livello generale sono chiaramente individuati da Vincenzo Roppo, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore e contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi e sviluppo di un nuovo paradigma, in Roppo, Il contratto del duemila, II ed., Torino, 2005, 25 ss.; e Roppo, Parte generale del contratto, contratti del consumatore e contratti asimmetrici (con postilla sul “terzo contratto”), in Riv. dir. priv., 2007, 669 ss., specie 679 ss. Sulle specifiche caratteristiche che contraddistinguono il consumatore v., ex multis, Francesca Bartolini, Il consumatore: chi era costui?, in Danno e resp., 2009, pp. 386-393.
(13) V. a riguardo Marco Pradi, La risposta della giurisprudenza, in I limiti della responsabilità del maestro di sci e della guida, cit., pp. 65-67.
(14) Cfr. a riguardo la sentenza del Tribunale civile di Verbania, 17 febbraio 1994, Luigi Montani c/Associazione Guide Alpine Italiane, la quale sostiene l’applicabilità dell’art. 2050 c.c., ove si afferma che: “Sembra del tutto evidente, anche per chi non ha pratica della montagna e delle sue insidie, che l’arrampicamento e la risalita di pareti esposte, comportano inevitabilmente pericolo per la propria incolumità personale, essendo sempre possibile che incidenti di varia natura causino il distacco dell’alpinista e la caduta a valle”, con conseguente condanna della convenuta A.G.A.I., che non aveva potuto fornire la prova diabolica di aver “adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno”.
(15) L’incisiva formula è utilizzata da Vincenzo Roppo, Pensieri sparsi sulla responsabilità civile (in margine al libro di Pietro Trimarchi), in Questione Giustizia, 1, 2018 sul sito internet www.questionegiustizia.it.
(16) Pietro Trimarchi nei corsi istituzionali di diritto privato sin dagli anni ’60 del secolo scorso, secondo quanto riportato da Vincenzo Roppo, usava dire: “Il risarcimento elimina il danno dal punto di vista (soggettivo) della vittima; ma non lo elimina dal punto di vista (oggettivo) della società nel suo insieme, che continua a soffrire per la risorsa distrutta. Per proteggere l’interesse della società alla conservazione delle risorse è dunque essenziale la funzione preventiva”, cit.
(17) In questo senso si possono citare Vincenzo Roppo, La responsabilità civile di Pietro Trimarchi, in juscivile, 2017, p. 6; Pietro Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Milano, 2017.
(18) È questa la conclusione netta cui giunge Vincenzo Roppo, La responsabilità civile di Pietro Trimarchi, cit., p. 6 ss.
(19) Sul punto è bene citare la Legge Gelli–Bianco (l. 8 marzo 2017, n. 24), che segue la dibattuta Legge Balduzzi (l. 8 novembre 2012, n. 189). Entrambi questi provvedimenti normativi hanno cercato di combattere la c.d. “medicina difensiva” alleggerendo l’onere probatorio a carico del personale sanitario.
Nei paragrafi a seguire il tema sarà ulteriormente trattato, si rinvia pertanto a tale sede per eventuali approfondimenti.
(20) Tra le diverse novità che hanno toccato la professione della guida alpina negli ultimi anni, vi è la libertà di prestare servizi e la temporanea mobilità dei professionisti nel contesto del mercato interno europeo, senza che da ciò derivi lo stabilimento nello Stato membro ospitante. La Direttiva europea 2005/36/CE, aggiornata nel 2013 dalla Direttiva 2013/55/CE, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali ha introdotto disposizioni volte ad agevolare la libera prestazione di servizi e al contempo salvaguardare la sicurezza pubblica e la tutela dei consumatori. In particolare, la professione di guida alpina è disciplinata in maniera molto diversa tra Stati membri e non sempre la normativa mira ad avere professionisti qualificati che sappiano garantire la sicurezza in montagna. La disparità di formazione può causare diversi problemi per l’amministrazione competente nel giudicare l’idoneità del titolo conseguito nel paese d’origine.
(21) È su questa linea di ragionamento che, negli anni, la giurisprudenza ha sviluppato un duplice piano probatorio: c’è una regola di struttura che consente un’indagine generale sul piano della causalità, e una regola probatoria che permette di scegliere tra le probabilità a seconda dei casi e dei singoli individui coinvolti. La probabilità di un’infezione a seguito di una trasfusione, per esempio, non è rigida, ma varia al variare dei comportamenti del danneggiato: maggiore in alcuni casi, minore nell’eventualità che la persona infettata adotti comportamenti in grado di veicolare l’infezione a prescindere dalla trasfusione. Per questo la responsabilità civile non può prescindere dalla storia e dall’individualità della persona e il processo che ne deriva diventa un’indagine che affronta tutti gli aspetti dell’esistenza: dalla salute fisica al dolore interiore.
La probabilità nella giurisprudenza agisce, perciò, nella scelta di un nesso causale ma è centrale anche nel valutare i cambiamenti nella vita del danneggiato che sono scaturiti dall’evento dannoso.
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Non si cerca la sicurezza, si cerca un colpevole al quale attribuire la colpa. Così facendo si deresponsabilizza la massa. Questo vale in tutte le attività ed anche in montagna. La vera educazione è quella di responsabilizzare ogni persona in modo che agisca con coscienza. Forse il motivo di questo modo di agire é da ricercarsi nella illusoria mentalità che ogni attività deve essere priva di pericoli e le eventuali colpe devono essere addebitabile a soggetti terzi. Il risultato è un aumento di cause, processi e risarcimenti che, da un lato, per qualcuno sono fonte di lavoro. Una società sicuritaria che per tutelarsi rischia di dover porre sempre maggiori limiti all’azione del singolo individuo.
Pienamente condivise mie remore, anche su assicurazione spesso illusoria per l’assicurato; invece i premi e bonus per i dirigenti , funzionari, agenti procacciatori sono per loro una garanzia. Sul giornale di ieri di ieri ..operazioni di “scalata “(questa si’ che rende ) per avere un quid in piu’ di pacchetto azionario. Con poco di piu’si comanda nelle assemblee degli azionisti. Questa e’ vera sicurezza, ( ma forse i manovratori di pacchetti citati in cronaca si dimenticano di avere ormai una eta’ elevata , il conto finale sta arrivando, e gli eredi si mangerano tutto dissipando in gozzoviglie ) Se operano aumentando raccolta premi si aggiudicano premi e stock options sempre piu’ alte man mano che si sale ai vertici della piramide, se fanno male li liquidano con ringraziamenti e buone uscite congrue. Capitale complessivo 640 miliardi di euro in cassa , braccino corto nelle liquidazioni.Solo per loro polizze kasko h 24 senza franchigia e clausole speciali ?Non e’ dato saperlo.
Comunque il materiale autogestito prudenzialmente e’ importante. Alpinisti famosi son periti per imbragature polidecennali usurate.Si vedono da fotografie ancora in uso da alpinisti-scrittori caschi vecchi, decorati da stemmi autiadesivi con striature.Persino negli scarponni le suole si staccano per modifiche chimiche alle colle e gomme…negli scarponi di plastica per sci..i raggi UV lavorano alla grande ed un bel giorno la plastica cristallizzata si crepa. I periti delle assicurazioni lo sanno.Occorrerebbe un portafoglio a fisarmonica sempre colmo.
Dulcis in fundo:” abbiamo vinto le cause!! evviva!!” arriva un risarcimento di x euro,poi arriva la parcella di avvocato pari a x..2x…3x..
Variante
“sei stato assolto perche’il fatto non sussiste o per non ver commesso il fatto o perche’ non e’reato”, e migliaia di euro di conto a te e altre migliaia per il querelante cui non vengono addebitate le spese anche tue.
Secondo chi si occupa di cosa serie, ovvero del “mondo reale”, il problema non si pone.
Per tutti gli altri, sia fruitori che ricercatori, la questione è filosofico-esistenziale. E anche esiziale.
Questa categoria, una volta emancipatasi dal sottofondo determinista, meccanicista, materialista, positivista, della nostra cultura, tende a valorizzare il sentire, prima soffocato dai concetti, dal sapere.
Tende a recuperare un vivere nella relazione senza più sottostare al dominio dell’affermazione.
A ricomporre l’intero che la verità razionalistica e superiore imposta dallo scientismo sulle nostra creatività ha creduto di poter scomporre in singoli oggetti.
Tende a riconoscere che il mondo così come è, non è, senza di noi.
Tende a recuperare l’amore – non quello relativo all’interesse personale – come perno del vivere.
A volte penso al futuro e mi domando. Ma con tutti i dettagli tecnico giuridici e assicurativi da conoscere, al materiale in regola seconde tutte le norme previste, ecc., mi domando: ma il tempo per conoscere la Natura in cui ci muoveremo, i suoi fenomeni, noi stessi, dove lo si troverà?
Se qualche capra ibex mi tira giù un po’ di crode dal ghiaione, chi denuncio per avere un risarcimento? Le capre? Il comune? La forestale? Però è la mia parola contro quella di cinque capre e sicuramente daranno la stessa versione. In ogni caso voglio essere risarcito, qualcuno deve pagare. Il ghiaione doveva essere messo in sicurezza. Storiella al limite dell’assurdo ma neanche troppo lontana dalla realtà.
@7 il tema dell’attrezzatura non più omologata o scaduta (come mille altri temi, tipo quello degli orari scelti in gita o di ogni altra singola scelta) è delicatissimo e ti suggerisco di non metterlo concettualmente da parte come roba da legulei… all’atto pratico la copertura assicurativa è più un’illusione che altro…
A parte ciò, anche nell’ipotesi di uscire pulito dal processo (cosa che, ai sensi dell’articolo odierno, è tutt’altro che assodata) io non ho nessuna disponibilità a sobbarcarmi tutti i risvolti collaterali: preoccupazioni varie, notti insonni, risarcimenti da sganciare perché fuori dalla copertura assicurativa, avvocati da incaricare, costi legali, mail, riunioni, ricordati questo, ricardati quest’altro….ma ha senso tutta ‘sta roba? Tra l’altro per un’attività effettuata nel campo del divertimento. Discorso diverso vale per il professionista, cioè guida/metro di sci, nell’ambito del suo lavoro…ma quello è il suo lavoro, come il chirurgo che sbaglia a tagliare col bisturi la pancia del paziente… Il paradosso in montagna è questo: possiamo esser chiamati a render conto sul piano giuridico come il chirurgo che sbaglia il taglio sul paziente, ma per noi il tutto avviene in un momento che dovrebbe essere di “divertimento”, di relax, di hobby…
Ottima soluzione ! soli ( all by myself :https://www.youtube.com/watch?v=iN9CjAfo5n0) o compagnie consolidate.
Ho ben 2 polizze assicurative .Una per infortuni ed incidenti che in caso di attivita’ alpinistica che alza la franchigia al 40% , escursionistica no .L’altra per responsabilita’ civile danni a terzi anche per attivita’ ludico sportiva. Gia’ un mese due prima della scadenza del rinnovo annuale, si fanno ben vivi con mille salamelecchi , son loro che ti fanno il favore di preavvisarti, nientemeno. Un amico molto piu’praticante alpinismo e con incarichi CAI di sezione, mi ha messo sul l’avviso.Ocio! se chiedi risarcimenti ..il braccino diventa corto..ti fanno persino, oltre a tutto il resto, le pulci sulle attrezzature , se erano omologate, se avevano cricche o lesioni , se le corde ed imbraghi erano omologati e freschi entro la scadenza .Urka, il mio kit per ferrata con dissipatore , doppia corda e due moschettoni e’ un fai da te ben tenuto ma stagionato.. Chiedo a molto piu’esperti di me se la faccenda di omologazione materiali e loro scadenza, anche sci alpinistici , viene effettivamente indagata a posteriori e se da’ luogo a mancati o parziali o -differiti nei decenni -risarcimenti.
La mia soluzione, da vecchio barbagianni, è tendere a defilarmi da gite private con altri. In tal modo si taglia la testa al toro. E’ un “brutto” modo di ragionare, cinico, gretto, egoistico…ma come diceva (all’incirca) Jep Gambardella nel film La Grande bellezza “sono arrivato ad un’età in cui non ho più voglia di fare le cose che non mi piace fare”. Di caricarmi rischi giuridici conseguenti a compagni di gita complicati da gestire…non ho più voglia. Discorso diverso per le uscite ufficiali della scuola, ma lì il quadro è chiaro.
Ad essere sinceri il principale motivo per cui faccio molte gite da solo, da circa 20 anni in qua, è più di stampo logistico, cioè di spicciola comodità: quando sono in montagna, al mattino apro la finestra, guardo fuori, vedo che tempo fa, se c’è vento o meno, “sento” dentro di me se ho desiderio oppure no di fare gita quel giorno e, se sì, parto. Con tali presupposti, diventa complicato combinare la sera prima con altri… Tuttavia non nascondo che questo andazzo ha anche un sottofondo di tipo “giuridico”, per i motivi esposti.
Se combini con altri, il punto non è portarsi dietro ansiolitici ecc, il punto è che se provi il piacere della compagnia, la cosa non ha prezzo, se invece ti pesano i ragionamenti giuridici, importeli non ha nessun farmaco che compensi. Tanto vale andarsene per i fatti propri.
Ciò nonostante, faccio anche molte gite con amici (pochi e fidati, in genere con conoscenze pluridecennali), nonché con moglie e figli. Buona giornata a tutti!
Ieri 2 febbraio su ELISIR Rai 3 interessante tema:L’ ANSIA.
Entro certi limiti e’ salutare e aiuta a prevenire incidenti e salvare la vita qualunque impresa si cominci ( tipo esame universitario tosto con il cagotto e insonnia). Se poi si comincia a vedere rischio in ogni dettaglio sempre piu’ allora diventa patologica. OK per rischi oggettivi ( pero’e’ sempre un gran bel da farsi il leggere , imparare, applicare)..poi quelli soggettivi( allora allenamenti a secco, sul campo,corsi divariolivello, visita medica agonistica ecc ) , poi quelli giuridici ma ,ocio!, giuridici penali o solo civili o entrambi..allora nel kit ..artva, airbag, pronto soccorso… aggiungiamo ansiolitici o fiaschetta di grappa.
Oppure placidi altipiani con ondulazioni come appresso:
https://www.youtube.com/watch?v=FHtByDsDM24
Articolo molto interessante il cui autore fa parte del gruppo di lavoro espressosi nel webinar cui ho partecipato due settimane fa.
Da “non giurista” (o, meglio, da giurista imperfetto) quale sono mi colpiscono maggiormente i risvolti collaterali, direi di natura “filosofica”, che impattano sul comportamento da adottare come modus operandi in montagna. Il quadro è completamente rovesciato rispetto alla seconda metà del XX secolo. Non sono cambiate le leggi, è cambiato l’orientamento giurisprudenziale.
Da ormai 15 anni (a memoria mi paiono addirittura 20, cioè dal 2000 circa in poi) io vado dicendo che, quando si combina una gita in montagna, occorre ragionare che ormai esistono tre ordini di rischi e non i due canonici. Questi erano i ben conosciuti rischi oggettivi (caduta seracchi ecc) ed oggettivi (capacità/incapacità degli individui). La categoria aggiuntiva è quella dei rischi giuridici. Pur conscio che faccio drizzare i peli sulla schiena ai giuristi puri, quando io parlo ai miei “allievi”, estendo il ragionamento anche alle gite private. Nel dubbio io ritengo che sia meglio impostare le cose così (cioè gite private = uscite ufficiali), anche se mi è chiaro, tecnicamente parlando, che un istruttore titolato in uscita ufficiale della scuola ha una responsabilità giuridica (agli occhi dell’eventuale corte chiamata a valutarne il comportamento) molto diversa rispetto allo stesso istruttore in gita privata con amici, Però quesgli stessi amici magari la domenica prima erano suoi allievi nell’uscita ufficiale… secondo me il “passo” della giurisprudenza fagocitatoria è “pronto”…occorre solo un casus belli e vedrete che più o meno si finirà lì… Sia chiaro: questa mia è una sensazione personale e NON una previsione da giurista.
Il tutto si basa sul quando descritto così bene dall’Avv.to Flick. La società sicuritaria, in cui (volenti o nolenti) siamo “condannati a vivere”, punta a garantire la sicurezza a tutti e non può farlo che individuando un “responsabile”, in genere il cosiddetto esperto o figura equivalente. Dove c’è un professionista, il caso è chiaro. Più sfumato dove il cosiddetto esprto è un volontario, ma (purtroppo) pataccato. In caso di sinistro, la cosiddetta giustizia infligge pene con severità, come se dovesse dire alla popolazione: “ecco, vedete, io autorità avevo affidato la cura della vostra sicurezza a costui, ma costui ha sbagliato e allora lo punisco severamente”. I giuristi puri pazientino: sto semplificando i discorsi per renderli comprensibili al maggior numero possibile di persone (iniziando dal sottoscritto). In pratica, torniamo al mio ragionamento iniziale della terza categoria di rischi, quelli giuridici, la società sicuritaria sostituisce rischi alpinistici (dei più deboli) trasformandoli in rischi giuridici (dei cosiddetti esperti). Per tale motivo io, senza saper né leggere né scrivere, insegno agli istruttori, specie se titolati, di considerarsi sempre “responsabili” anche in gite fra amici. Gli amici di oggi, con cui stai ridendo allegramente alla sosta, potrebbero trasformarsi nei tuoi più acerrimi avversari di domani, in aula (e se non loro, i loro avanti diritto). “Cintura e bretelle” diciamo a Torino, cioè doppio sistema per esser certi di tener su i pantaloni.
Questo atteggiamento è la conseguenza del trend in essere. Lo stesso gruppo di lavoro, che in testi come questo descrive molto bene lo stato dell’arte sul piano tecnico-giuridico, ha espresso l’opinione “filosofica” che stiamo vivendo una fase di ipergiurisdizzazione (cioè un eccesso di invadenza del diritto nel mondo della montagna), cui sarebbe invece auspicabile veder contrapporsta una correzione sotto forma di “diritto più mite”, inteso non come pene più indulgenti, ma come capacità del mondo giuridico di “fermarsi” a un certo punto e di lasciare, da lì in poi, il campo all’autoresposabilizzazione degli alpinisti. In parole povere: vuoi fare montagna? Anzi vuoi fare montagna impegnativa e, quindi, più rischiosa (in termini relativi rispetto alle gitine dietro casa)? Diritti sacrosanti, indiscutibili, incomprinibili, ma tutti devono essere consci che praticare alpinismo (o altre discipline in montagna) è una scelta individuale di cui ciascuno si assume la responsabilità. Non c’è la “mamma” che ti rimbocca le coperte o, se non lo fa, viene condannata. Questo io insegno, da “non giurista”, a tutti, puntando al massimo dell’autoresponsabilizzazione.
Sia chiaro: finché non cambia il quiadro generale (ad esempio tramite una Legge quadro finalizzata a regolamentare i rapporti giuridici fra fruitori non professionisti della montagna, trattasi di legge ben diversa da quella che disciplina i professionisti come le guide) il quadro in essere è quello ben descritto. A mia sensazione, infittendosi il numero di sinistri (al seguito di un aumento dei frequentatori della montagna) la sensazione generale che avremo tutti nei prossimi anni è di ulteriore maggior severità ancora. Intendo dire: non ci saranno condanne più severe, singolarmente valutate, ma “molte” condanne severe, perché in aumento saranno gli incidenti, al seguito dell’aumento della gentre che va in montagna. Ma quello è il sentiment che si percepirà. Di conseguenza chi ci tiene alle proprie terga in aula, deve iniziare a ragionare prudenzialmente anche su questo risvolto fin dal momento in cui combina la gita.
La scelta dei compagni di giornata sta diventando quasi più rilevante che la scelta dell’itinerario: compagni svagati e pasticcioni oppure compagni ribelli, gente che va dove lo porta il cuore e non tiene conto dei nostri richiami ( di noi “esperti”) sono un rischio di gita né più né meno che un pendio con accumulo di neve o un ghiacciaio con seracchi in bilico o una parete che scarica pietre… I rischi giuridici si aggiungono ai rischi alpinistici. Saperli valutare “prima” è diventato una displuviale importantissima.
Riporto quelli che, a mio modesto parere, sono i punti chiave che sostemngono i miei ragionamenti, estrapolandoli dal testo dell’Avv.to Flick
È cresciuta in maniera esponenziale la convinzione che ad ogni rischio deve corrispondere per forza la responsabilità di qualcuno, così come è esplosa la cultura ben definita della “protezione attesa” a tutti i costi.
La tendenza odierna da parte dei consociati è sintetizzabile con la formula: “minima autoresponsabilità, massima richiesta di autotutela”.
Le risposte da parte delle corti a queste richieste di tutela giungono e tendenzialmente sono di accoglimento (NdR: condanne).
L’idea, in generale, e quasi a prescindere, è che più si risarcisce e meglio è; si giunge al paradosso che la disciplina della responsabilità in ambito civile sia tanto più avanzata e apprezzabile, tanto più moderna e progressiva, quanto più permette di espandere il complessivo “fatturato” dei risarcimenti contabilizzati nel sistema.
In ogni caso, un dato si può rilevare: nell’esperienza italiana si ha un passaggio un po’ schizofrenico da una fase in cui si risarciva decisamente troppo poco a una fase in cui probabilmente si risarcisce troppo.
Questo nuovo approccio in ambito montano rischia di comportare notevoli cambiamenti di tendenza rispetto al passato, dando spazio ad una deresponsabilizzazione dei fruitori della montagna.
La giurisprudenza affronta la questione secondo il suo metodo ermeneutico, complesso e dettagliato; ma sembra omettere il fondamento reale della essenziale pericolosità dello scialpinismo (e non solo) attestata dai molti incidenti che hanno colpito anche i più esperti (Guide Alpine comprese). La deresponsabilizzazione del praticante è assai critica: la montagna è e resta un territorio pericoloso e lo spostamento della responsabilità su altri porta a legittimare una “ignoranza” delle caratteristiche essenziali del territorio.
Sono rimasto al passaparola e vecchie guide di carta con piantine, poi carte topografiche con isoipse e bussola.Vecchi sci restaurati nelle soletta ed attacchi oliati funzionano bene anche se pesano, le pelli di 20 anni fa ripulite e rinnovate di colla. Adesso, con tanto di attacchini, sci in carbonio e scarponi pure, Artva, airbag , occorrono una Guida e un Avvocato. Forse e’possibile trovare Guida Alpina pure laureata in Legge e pure con studio di Avvocato( civilista e penalista )con moglie Commercialista e figlio Assicuratore e altri parenti gestori di negozio sport o noleggio. Summum ius, summa iniuria
Non si può chiedere al capitalismo di risolvere il problema ambientale, e non solo, che ha creato.
Non si può chiedere di riconoscere la reciprocità dei giudizi a colui che non è consapevole che cosa significhi che siamo universi diversi dentro il ciclo dell’eterno ritorno.
Non si può chiedere a inconsapevoli del significato antropologico, filosofico, spirituale e formativo della società sicuritaria di elaborare qualcosa dal fondo umanistico.
Non si può chiedere di esprimere pensieri sulle dimensioni dell’uomo a chi concepisce la vita come un processo amministrativo, bidimensionale.