L’introduzione dei mezzi artificiali – 2

L’introduzione dei mezzi artificiali in arrampicata – 2
di Gian Piero Motti
(pubblicato in La storia dell’alpinismo) (GPM-SdA-20)
(continua da https://gognablog.sherpa-gate.com/lintroduzione-dei-mezzi-artificiali-1/)

Un’altra interpretazione possibile
Ma questa non è che una interpretazione, più o meno accettabile, basata sulla considerazione che il purismo sia causato da inibizioni ad aggredire con mezzi artificiali e che l’artificialismo sia invece la ribellione conseguente alla proibizione di aggredire in tal modo. Ma vi può anche essere un’altra interpretazione che ribalta completamente il modello esposto precedentemente. Se il mezzo artificiale viene inteso come strumento per rendere facile ciò che è difficile, per diminuire o eliminare quasi totalmente il fattore rischio, per attuare una sorta di pianificazione tra gli alpinisti, allora il purismo appare in luce ben differente. Vi è un uso doppio dei mezzi artificiali: uno corretto e portato a livelli estremi, un altro invece scorretto per cercare di salire quei tratti su cui ci si ritrova incapaci in arrampicata libera (tratti che già da altri sono stati superati). È quindi necessaria una distinzione tra chi ricorre all’artificiale per compiere una prima salita e per dare l’impressione di abbattere l’impossibile – e allora si parlerà di ribellione, progresso e profanazione – e chi invece all’artificiale ricorre per rendere facile ciò che è difficile, per rendere agibili a chiunque tratti di arrampicata libera che invece sono superabili da pochi e allora parleremo di conservatorismo, di inibizione ad aggredire e di timore inconscio.

Hans Dülfer e Hanne Franz

In questo caso il purista, che difende il rischio e la difficoltà, che disprezza ogni mezzo di assicurazione, che si ribella all’istinto di conservazione, che disubbidisce al principio vitale, è il vero rivoluzionario ed il vero progressista, in quanto porta avanti un discorso trascendente e conoscitivo lanciando una sfida alla morte, pur sapendo di essere sconfitto da essa. In questo caso l’uso dei mezzi artificiali è un sistema per ridurlo, per riportarlo alla dimensione più bassa da cui egli è partito. Quindi può darsi che alcuni puristi, e lo stesso Preuss, intelligentemente abbiano intuito lo svolgersi del meccanismo ed abbiano rifiutato il chiodo a priori. Abbiamo però visto l’utilità dell’esperienza artificiale e quindi ci pare che sia veramente apprezzabile l’atteggiamento di chi, pur riconoscendosi purista, passa attraverso l’esperienza dell’artificiale per poi liberarsi da essa e proiettarsi ancora verso l’ignoto o, meglio, per realizzare una sintesi in cui ogni espressione trova il suo giusto ed il suo significato elegante ed artistico: arrampicata solitaria, arrampicata artificiale, arrampicata mista, ecc. La meta è giungere a liberarsi da ogni preconcetto e da ogni «ruolo» in cui ci si ritrova calati.

Il discorso trascendente può anche dare fastidio, in quanto riporta alla memoria la filosofia di Nietzsche. Ma se si legge attentamente il filosofo tedesco, ci si può anche accorgere che il suo messaggio è assai positivo, anche se l’interpretazione fatta dai contemporanei e l’attuazione pratica delle sue idee è stata disastrosa. D’altronde, chi tende a realizzare il proprio «karma» sa di mettersi su un cammino di dolore e lo fa coscientemente. Lo stesso si può dire per Eugenio Guido Lammer, l’alpinista tedesco di questo periodo, definito pazzo e masochista solo perché di sua volontà cercava l’esperienza dolorosa in montagna e trovava in essa una grandezza, uno spazio ed una potenza che altrove gli erano sconosciute. Purtroppo, attraverso gli scritti di questi autori molti si sono lanciati nella stessa avventura, con risultati tragici, dimenticando, o forse non sapendo, che la via di Lammer o di Nietzsche è soltanto la «loro» via, quindi estremamente soggettiva. Non ha e non può avere carattere universale, in quanto ciascuno dovrebbe scoprire in se stesso, con un faticoso lavoro di autoanalisi, il proprio cammino lungo la «parete». È chiaro che le posizioni trascendenti non destano mai simpatia tra chi non si sente in grado di affrontare il difficile e teme soprattutto che la conquista dell’ignoto turbi l’equilibrio che esiste nel «facile» e che fa comodo a tutti. Ed è anche inutile dire che ogni tentativo del genere è già fallito in partenza e scoraggiare in tal modo i desideri di chi si sente attratto dall’impresa. Non possiamo dire se Nietzsche fu sconfitto o no; e, se lo fu veramente, non è detto che per questo il suo messaggio fosse da buttare alle fiamme; ma forse fu sconfitto solo perché ancora non era il tempo di vincere…

Al termine di questa lunga analisi abbiamo dunque visto come le diverse posizioni e le differenti sfumature permettano di considerare il purismo come conservatorismo e l’artificialismo come ribellione progressista e viceversa. Questa chiave interpretativa ci pare necessaria per capire a fondo e con chiarezza tutto l’evolversi dell’alpinismo da Preuss fino ai giorni nostri. A qualcuno forse il discorso apparirà un po’ cavilloso e pesante, ma la conoscenza non può giungere da un elenco di nomi, di date e di fatti. Un sacco di nozioni non servono a nulla per capire.

Certo l’impresa aiuta a capire il pensiero e le tendenze dell’alpinista. Ma il fatto più importante è comprendere perché il tale alpinista agì in un determinato modo, perché scelse determinate imprese piuttosto che altre, capire l’importanza che il suo agire ha avuto in seno al fenomeno alpinistico, il ruolo che egli ha svolto nella sua epoca ed il messaggio che egli ha lasciato ai suoi compagni di oggi e di domani.

Volendo fare un esempio banale, sarebbe inutile conoscere a memoria ogni istante della vita di Napoleone se poi non si fosse capito in virtù di quali situazioni lo stesso Napoleone giunse ad impadronirsi del potere.

Dunque questa è la teoria. La sua comprensione ci permetterà di seguire con relativa facilità lo svolgimento dei fatti.

Hans Dülfer, l’iniziatore dell’era del sesto grado
Abbiamo visto che se vi era una «tesi» Preuss, evidentemente doveva esserci pure una antitesi e questa fu certamente Hans Dülfer. Chi però pensa che Dülfer fosse un fautore esasperato dei mezzi artificiali è completamente fuori strada: egli era prima di tutto un fortissimo arrampicatore libero, pari a Preuss se non superiore, e, come il viennese, realizzò anche superbe salite in solitaria, senza alcun mezzo artificiale. Dülfer però si dichiarò favorevole all’impiego dei chiodi e del moschettone ed attraverso studi e sperimentazioni giunse a scoprire una nuova tecnica di progressione e di assicurazione che, seppur con un uso assai limitato di chiodi, permetteva di superare con più sicurezza quei tratti di parete che altrimenti sarebbero stati forse insuperabili senza mezzi tecnici.

Il chiodo naturalmente si prestava a due usi ben distinti: uno di pura assicurazione ed un altro di progressione, dove esso era usato direttamente come appiglio. L’uso delle asole di cordino e delle staffe per introdurvi il piede è molto posteriore e fu soprattutto introdotto e perfezionato da Emilio Comici. Piuttosto, merito di Dülfer e dei suoi compagni di Monaco (Herzog e Fiechtl) fu lo scoprire particolari di manovre (traversata a corda, detta poi alla Dülfer) che permettevano di superare alcuni passaggi «chiave» con un vero e proprio artificio tecnico. Comunque in Dülfer l’inibizione a servirsi di mezzi artificiali è ancora assai forte, se si pensa che più volte egli seppe rinunciare ad alcune imprese dove l’impiego di chiodi sarebbe stato troppo grande; oppure, pur munito di chiodi e di moschettoni, seppe superare alcune pareti in prima ascensione senza neppure piantare un chiodo, vincendo difficoltà di V e V grado superiore.

In lui comincia a farsi strada anche il concetto di eleganza del tracciato, che poi sarà esaltato e idealizzato da Comici.

Otto Herzog

Ormai l’arrampicata giunge ad essere vera e propria arte, mezzo di espressione e creazione personale, dove non importa più salire e vincere ad ogni costo qualsiasi parete che ancora non sia stata vinta, ma invece vi è scelta del terreno di gioco e dei modi con cui salire.

Più volte gli studiosi d’alpinismo hanno cercato di localizzare l’inizio dell’era del sesto grado in un’impresa singola e ciò fu fatto in occasione della prima salita diretta della parete nord-ovest del Civetta, compiuta da Solleder e Lettenbauer (nel 1921), come vedremo in seguito più dettagliatamente. Va anche detto che ai tempi di Preuss e di Dülfer non esisteva ancora una scala delle difficoltà (che sarà poi proposta nel 1926 e studiata da Welzenbach) e nel giudizio ci si regolava con aggettivi un po’ vaghi come «facile, difficile, straordinariamente difficile». Senza anticipare i tempi, possiamo solo dire che Welzenbach creò una scala in sei gradi dove il sesto ed ultimo grado costitutiva il «limite delle possibilità umane» ed era rappresentato dalla via Solleder al Civetta.
L’errore filosoficamente fu marchiano e dette origine ad una lunga serie di malintesi su cui solo oggi si comincia a fare un po’ di luce. Infatti, prima di tutto vi era l’errore grossolano di porre un limite all’attività umana. Ma, ammesso che questo limite vi sia e si possa costruire una scala «chiusa» e definita e quindi non aperta all’infinito come suggerirebbe la logica, se il sesto grado è il limite delle possibilità dell’uomo ne risulta che tale grado è evidentemente insuperabile, altrimenti se lo fosse l’uomo avrebbe superato l’uomo e non sarebbe più uomo.

Inoltre, se la parete nord-ovest del Civetta (via Solleder) rappresenta in pratica questo limite, ogni via futura più difficile avrebbe superato il limite giungendo all’assurdo di cui sopra.

L’analisi di Welzenbach fu frettolosa e superficiale e non tenne conto della storia e dell’evoluzione. Ma vi fu di peggio – anche se dobbiamo ammettere in Welzenbach il merito e la buona fede di aver studiato un sistema di valutazione che si rivelasse utile ed universale – perché nel sesto ed ultimo grado vennero incluse tutte quelle ascensioni durante le quali si faceva abbondante uso di chiodi, insomma quei passaggi dove si saliva in artificiale non in arrampicata libera. La confusione che ne derivò fu enorme, perché non si fece fin dall’inizio una netta distinzione (come poi sarà fatta dagli alpinisti francesi negli anni Cinquanta) tra arrampicata libera ed arrampicata artificiale, tra chiodi di assicurazione e chiodi di progressione. Si giunge ad un assurdo: l’arrampicata libera, che è più rischiosa e difficile di quella artificiale, si valutava fino al V grado, mentre i passaggi dove si ricorreva all’uso di chiodi – che sono certamente faticosi, ma assai meno rischiosi e, soprattutto, se i chiodi restano infissi, perdono per i ripetitori gran parte della loro primitiva difficoltà, mentre l’arrampicata libera non muta mai il valore – vennero inclusi nel sesto grado se non addirittura nel sesto superiore!
Furono proprio gli alpinisti francesi, che durante alcune campagne compiute in Dolomiti si trovarono di fronte a questo problema: dove la nota tecnica indicava quinto grado dovettero superare passaggi di estrema difficoltà in libera arrampicata, invece dove si leggeva «sesto superiore» essi salirono piuttosto in fretta e facilmente, con l’ausilio dei chiodi già trovati in parete.

L’errore più grande sta dunque nell’aver «bloccato» l’evoluzione nel numero sei. L’ideale sarebbe stata una scala aperta all’infinito, dove il numero sei rappresentasse la massima difficoltà superata negli anni Venti, ma che poteva poi essere superata dal numero sette, dal numero otto e dal numero nove degli anni successivi. Se invece si volesse mantenere una scala chiusa e rappresentare il numero sei come limite, allora prima di tutto tale grado è irraggiungibile ed insuperabile (a meno che l’uomo non si trasformi in qualcosa di superiore a se stesso), ma soprattutto si richiede un faticosissimo lavoro di aggiornamento delle guide alpinistiche, in quanto la valutazione compiuta precedentemente deve essere a mano a mano ridotta, ridimensionata e svalutata di fronte ad imprese sempre più difficili.

In California si è giunti ad un compromesso intelligente, ossia si è mantenuto il numero sei come limite e ci si avvicina a questo con una gradazione progressiva verso l’infinito (5,9 – 5,10 – 5,11 – 5,12) dove si potrebbe per assurdo giungere a 5,9999999… ma non a sei (2).

Il problema della difficoltà
Comunque non si creda che il livello raggiunto in arrampicata libera da Preuss, da Dülfer e dai grandissimi arrampicatori di questo periodo sia stato poi di molto superato.

Se è stato superato, lo è di un grado e non certamente di più, anche perché nuovi materiali e nuove tecniche hanno permesso una forte disinibizione che concede di osare anche dove allora non si osava ancora (3).

Voler indicare l’inizio di un’epoca con un’impresa singola, è un po’ assurdo. Piuttosto qui si vuol dire che fu proprio Dülfer l’iniziatore dell’epoca del sesto grado e che molte delle sue imprese fanno già parte dell’era del sesto grado, in quanto il ricorso al chiodo gli permise di superare in parete dei tratti ancora più difficili di quelli vinti da Preuss e da lui stesso in arrampicata libera.

Quindi Dülfer è il primo vero e grande arrampicatore moderno, il primo che inizia il famoso giro orbitale di cui abbiamo parlato innanzi: egli è anche il più inibito nell’uso dei mezzi artificiali, anche se il suo impulso è determinante per il futuro e genererà uno sdoppiamento evidente. Da una parte una corrente ancora inibita e conservatrice, che dà prevalenza assoluta all’arrampicata libera, con ristretto impiego di chiodi; dall’altra una corrente progressista, più entusiasta e più favorevole all’uso dei mezzi artificiali. Attenzione però, l’etica è ancora assai severa e non vi è assolutamente abuso dei mezzi come si vorrebbe credere: è solo una questione di scelta di itinerari. La corrente conservatrice sceglierà itinerari superabili in prevalente arrampicata libera e rinuncerà alla soluzione di quei problemi che potrebbero richiedere un impiego esagerato ma assolutamente necessario di chiodi. Invece, la corrente progressista si dedicherà alla soluzione di quei problemi dall’aspetto più repulsivo ed «impossibile», che invece richiedevano un largo impiego di mezzi artificiali. Se oggi noi guardiamo il livello di difficoltà che i due tipi di imprese hanno mantenuto, ci accorgiamo che le imprese dei conservatori hanno ancora il loro grado primitivo di difficoltà, in quanto l’arrampicata libera non può subire modificazioni. Invece le vie più «artificiali» certamente non possono presentare lo stesso grado di difficoltà che si offrì ai primi salitori, in quanto i chiodi sono già presenti oppure vi sono tracce di chiodatura che ne facilitano enormemente l’introduzione. A prescindere poi dal fatto che queste vie spettacolari si sono prestate veramente all’abuso di mezzi artificiali da parte di chi ha cercato di salire dove non era capace. Piuttosto, oggi, sull’esempio californiano, si cerca una nuova strada evolutiva e, diminuendo progressivamente il numero dei chiodi, ci si sforza di trasformare in arrampicata libera queste vie originariamente aperte in artificiale.

Ritornando a Dülfer, è chiaro che si venne a creare una certa polemica tra i due ambienti austriaci, e quindi tra lui e Preuss, ma non fu mai cattiva. I due, oltre che essere amici, si stimavano moltissimo e ciascuno diceva dell’altro che era il più forte arrampicatore del momento. A questo proposito si può anche citare un giudizio espresso dall’alpinista inglese Doug Scott: «I meriti di Preuss sono stati riconosciuti da molti grandi alpinisti, come Dülfer, Piaz, Welzenbach, Cassin, Heckmair, che ne hanno scritto e parlato con molta ammirazione, anche se sono stati forzati ad usare quelle tecniche e quei mezzi che Preuss aveva così duramente condannato. L’apparente contraddizione si spiega se si tiene conto del fatto che i grandi scalatori che abbiamo nominato erano spinti dal desiderio di superare le pareti più grandi e lungo la via di salita più diretta possibile. Questo comportava la necessità di collegare i tratti arrampicabili in libera con tratti che richiedevano l’uso dei chiodi. Vennero così superati i limiti che Preuss si era imposto come conseguenza dei suoi principi, ma non l’abilità e tanto meno il coraggio dimostrati da colui che Domenico Rudatis definì come ‘l’unico autentico Cavaliere della Montagna’ (Doug Scott, Le grandi pareti)».

A proposito della valutazione delle difficoltà, Dülfer sostenne sempre che era impossibile valutare i passaggi in roccia e che la difficoltà era rappresentata dal rapporto tra la natura della roccia e la capacità dell’arrampicatore, quest’ultima non ostacolata da fattori psichici. È un giudizio estremamente geniale ed interessante, in quanto ci si può effettivamente chiedere di cosa sarebbe capace l’arrampicatore se fosse eliminata l’opposizione di carattere psichico, rappresentata dal freno della paura, dell’angoscia e dell’istinto di conservazione, i quali giungono ad avere un’azione a livello somatico di carattere bloccante ed inibitorio. Abbiamo già visto che la meta ambita dallo yoga è proprio l’eliminazione definitiva dell’opposizione inferiore con il relativo raggiungimento di uno straordinario potere che esalta ogni attività sensoriale, finalmente liberata dalla sua prigione psichica.

D’altronde, soprattutto in California, accanto ad una preparazione atletica assai spinta e metodica, si cura enormemente anche il fattore mentale, cercando di giungere ad una sorta di «controllo della mente». Pare che in tal modo si possa varcare una «porta» rappresentata dall’angoscia di caduta e dalla paura di morire: oltre la porta si scopre un’altra realtà ed una nuova capacità sensoriale, dove il gesto acquista una sua semplicità assoluta fino a rasentare il limite della perfezione, in quanto è venuto a diminuire enormemente l’intervallo tra pensiero e azione e quindi la critica e la censura a cui viene sottoposto il pensiero prima di passare all’azione successiva. La riconquista di questa «spontaneità» perduta trasporta l’uomo e l’arrampicatore in una nuova, o antica e perduta, dimensione esistenziale, permettendogli una capacità sensitiva e percettiva tale da porlo in dialogo con tutte le espressioni vitali del cosmo, anche quelle che solitamente vengono definite come «inanimate». Allora la scalata assume un significato ben differente: non vi è più aggressività, ma ricerca di armonia con ogni atomo e con ogni cristallo della roccia, con gli atomi dell’aria, della neve, del ghiaccio e del vento. Si scopre tutta un’armonia dolce e perduta, dove angosce e spettri, come la caduta e la morte, perdono ogni significato reale e concreto, ma si profilano unicamente come immagini illusorie proiettate su uno schermo e vissute pertanto come reali da chi osserva lo schermo in un stato molto vicino all’ipnosi (la famosa caverna di Platone…!) (4). Dunque, una volta di più dobbiamo giungere alla conclusione che la difficoltà è fortemente condizionata da fattori psichici ed emotivi e quindi ogni giudizio e ogni tentativo di valutazione risultano soggettivi, in quanto sottoposti alla variabilità stessa di questi fattori.

Frequenti sono i casi in cui un arrampicatore, a distanza di pochissimo tempo, non riesca a superare un passaggio già vinto precedentemente con facilità. In questi casi, con un po’ troppa superficialità, si parla di «forma» presente o mancante. In realtà, sotto la parola «forma» si cela tutto un fattore emotivo che gioca un fortissimo ruolo condizionante.

Hans Fiechtl

Hans Fiechtl e Otto Herzog
In breve tempo le montagne del Kaiser e le tecniche che là si erano scoperte ed applicate destarono sensazione in tutti gli ambienti alpinistici europei. Vi furono critiche durissime da parte dei conservatori, ma vi fu anche enorme ammirazione per gli audaci scalatori dell’epoca, anzi si giunse a creare il mito della «Scuola di Monaco» che ebbe l’effetto di suscitare un certo complesso di inferiorità tra gli alpinisti veneti ed italiani, i quali soltanto dopo la guerra si libereranno di questo complesso, assumendo prepotentemente l’iniziativa e risolvendo problemi tecnici di un livello nettamente superiore. Comunque, in quel periodo le imprese realizzate da Preuss e da Dülfer sulle Dolomiti destarono veramente sensazione e furono circondate da un alone di difficoltà: in effetti esse erano nettamente più difficili di quelle superate fino ad allora.

Ma Dülfer non fu certo il solo a produrre la piccola rivoluzione nel campo dell’alpinismo. Ad introdurlo all’alpinismo fu proprio Hans Fiechtl (1883-1925) che, a differenza di Dülfer, tragicamente caduto in battaglia sul fronte occidentale nel 1915, prolungò la sua attività anche dopo il conflitto. Fiechtl è soprattutto famoso per aver ideato le fogge dei chiodi da roccia «moderni», ossia quei chiodi che, adatti all’introduzione del moschettone nel loro occhiello e studiati per fessure più sottili e più piccole, permettevano il superamento di passaggi assai scarsi di appigli. Ancora oggi, su certe vie delle Dolomiti, si incontrano dei chiodi di quell’epoca e si può constatare che, sostanzialmente, da allora il modello non è poi molto variato, almeno per quanto concerne la roccia calcarea.

Secondo alcuni, Fiechtl, come arrampicatore puro, era ancora superiore a Dülfer; infatti la via che egli aprì nel 1913 con Herzog sulla parete sud della Schüsselkarlspitze fu riconosciuta superiore alla via Dülfer sul Fleischbank. Comunque, a prescindere da ogni paragone tra uomini ed imprese, fu sicuramente una delle più grandi scalate su roccia realizzate prima della guerra. Oggi la si ritiene una scalata di quinto grado, ma si tenga ben presente, in queste valutazioni «attuali», la svalutazione resa necessaria dall’aver mantenuto in vita la scala in sei gradi di Welzenbach.
Fiechtl era guida al rifugio Berlino, e compì le sue più grandi imprese con dei dilettanti come Dülfer e come Herzog.

La sua attività si prolungò anche oltre la guerra, cogliendo successi di prestigio come la prima salita della parete ovest del Predigtstuhl, compiuta con Franz Weinberger (nel testo è “Weiner”, errato, NdR) nel 1923. Anche la parete nord del Seekarlspitze, dopo l’impiego dei chiodi, fu già più importante rispetto alle imprese precedenti: non per nulla questa via, detta della «Fessura ad Y», ebbe subito fama di grande difficoltà e, del resto, anche i passaggi in arrampicata libera sono assai difficili, sicuramente al limite di quell’epoca. L’attività di Fiechtl fu troncata nel 1925 da un tragico incidente sul Totenkirchlsockel.

Otto Herzog (1888-1964), il famoso «Rambo», è unanimemente riconosciuto come uno dei più grandi maestri dell’arrampicata su roccia. Conosciuto per aver introdotto l’uso del moschettone, Herzog, come Dülfer e come Fiechtl, fu uno dei primi ad usare i mezzi artificiali, ma era pur sempre un arrampicatore libero di straordinaria capacità, sicuramente superiore ai suoi due compagni. Bisogna comunque ricordare che le sue maggiori realizzazioni furono compiute intorno al 1920, quindi già dopo la guerra, in un’atmosfera ben differente da quella in cui agì Dülfer, che fu indiscutibilmente il vero pioniere. Ormai il «ghiaccio era rotto», la grande inibizione era stata attaccata direttamente ed è quindi naturale che, solo 10 anni dopo, il livello raggiunto da Dülfer potesse essere superato da chi era gravato da una forza inibitoria di minore entità. Comunque la più grande impresa di Herzog fu il superamento della parete nord del Dreizinkenspitze, effettuata nel 1923 con Gustav Haber e dalle iniziali dei primi salitori la via prese appunto il nome di Diedro Ha-He. Questa via, che supera una parete alta 350 metri (ma con il successivo canalone ghiacciato si arriva a 700 m, NdR), richiese ai primi salitori ben tre giorni d’arrampicata e due bivacchi. Al proposito, sempre Doug Scott dice: «È probabilmente la prima via di sesto grado superiore e non fu più ripetuta, nonostante i numerosi tentativi, per almeno 30 anni (circa nel 1954). Otto Wiedmann, che ha fatto la quinta salita nel 1963, dice che è essenzialmente VI inferiore con una lunghezza di corda di 25 metri di VI superiore (si parla di arrampicata libera e di valutazioni attuali, NdA) in libera. Considerando che è stata aperta più di cinquantanni fa è un’impresa che ha dell’incredibile (Doug Scott, Le grandi pareti)».

Così si chiude dunque questo importantissimo periodo che precede il primo conflitto bellico, durante il quale la supremazia austriaca sulle Dolomiti, che proseguirà praticamente fino al 1930, è incontestabile. Teatro delle imprese sono le pareti calcaree del Tirolo e poi, quando la tecnica sarà affinata e diffusa, le Dolomiti, dove nell’immediato dopoguerra vi sarà la manifestazione tangibile di ciò che, in scala più ridotta, si era preparato sui monti del Kaiser, con l’apertura di quelle che saranno dette le prime vie di «sesto grado». Ma, e va ripetuto ancora una volta, l’impiego dei mezzi artificiali di questi arrampicatori era estremamente ridotto rispetto a quello attuale: essi con chiodi ancora rudimentali e più o meno tutti della stessa foggia, con corde di canapa, con moschettoni grossi e pesanti e con semplici pedule di tela più simili a delle ciabatte che a delle calzature, seppero fare veramente dei miracoli. Forti di quell’audacia e di quel coraggio di cui Preuss aveva dato dimostrazione, con l’uso di pochi mezzi artificiali, seppero superare difficoltà tali in arrampicata da chiedersi se veramente il limite raggiunto in questi anni (e poi dagli italiani negli anni Trenta), salvo pochi casi eccezionali, sia stato veramente superato dalle generazioni future.

Note
(2) Nel novembre del 1978 l’UIAA (Unione Internazionale delle Associazioni di Alpinismo) ha riconosciuto ufficialmente il VII grado, ma soltanto dieci anni dopo ha aperto la scala verso l’alto riconoscendo anche i gradi superiori al VII.

(3) Dal 1977 (anno in cui Motti scriveva) ad oggi, il livello delle difficoltà superate in arrampicata libera è salito vertiginosamente, ma ciò grazie soprattutto all’uso generalizzato degli spit come mezzo di assicurazione.

(4) Sui concetti di «controllo della mente» e «ricerca di armonia», tanto cari a Motti e ad altri alpinisti della sua generazione, prenderanno in seguito il sopravvento gli allenamenti metodici e la mentalità squisitamente sportiva dei nuovi arrampicatori.

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L’introduzione dei mezzi artificiali – 2 ultima modifica: 2023-10-16T05:20:00+02:00 da GognaBlog

5 pensieri su “L’introduzione dei mezzi artificiali – 2”

  1. Se sali attaccandoti a qualcosa, siano essi frends, dadi, chiodi, spit, un cliff, ma anche un cordino infilato in una clessidra o arrotolato intorno ad una pianticella,  è chiaro che È artificiale.

  2. Un tempo (diciamo, quando leggevo “L’assassinio dell’impossibile” di Messner) credevo di capire abbastanza bene cosa si dovesse intendere per “artificiale” e “libera” (sto beninteso parlando di comprensione puramente intellettuale, non di esperienze personali). Ma adesso, con l’evoluzione delle tecniche, degli atteggiamenti e percio’ del linguaggio, mi sono un po’ perso per strada. E quindi chiedo, a chiunque abbia il tempo e la voglia di rispondere ad una domanda, che a tutti voi risultera’ probabilmente cretina:
    Cosa significa, nel linguaggio alpinistico odierno, dire che una certa via e’ stata aperta in artificiale? 1) che sono stati usati dei chiodi, 2) che i chiodi sono stati usati non solo per sicurezza ma anche per progressione  3) che si sono usati anelli per il piede o staffe, 1s)2s)3s) che sono stati messi degli spit (nelle stesse varianti)?  E in parallelo, cosa bisogna fare per “liberare” una via? 1) percorrerla senza toccare chiodi o spit lasciati dai primi salitori, 2) usare i chiödi ma non gli spit, 3) usarli per sicurezza ma  non per progressione, ….?
    E qual’e’ l’atteggiamento nei confronti di dadi, friends e tricam? Se uno sale mettendone uno ogni metro e attaccandosi per tirarsi su, e’ salito  in libera?

  3. Mi piace molto l’idea “di scoprire il proprio cammino lungo la parete”.

    E trovo interessante l’approccio californiano che ritengo accompagni, pur magari inconsapevolmente, chiunque mostri grande talento, non solo in montagna. 

  4. Sempre molto interessante leggere le imprese dei primi alpinisti  per chi ama la montagna da semplice cittadino collegare  posti rifugi con i nomi di scalatori che hanno fatto la storia dell’ alpinismo grazie alla prossima 

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