Il degrado delle Alpi è dovuto al fatto che pochi le sentano casa nostra. Rocce e ghiacci sono qualche cosa di moralmente ed eticamente inferiore, pochi sono stati educati a rispettarne la dignità. Lo stesso processo per cui non esitiamo a stilare una scala di simpatia nel regno animale: il cane e il gatto sì, il serpente no, la formica quasi sì, il ragno un po’ meno, e via dicendo. Per i minerali si nega un qualsiasi valore, se non quello che si può dare a pietre preziose come diamanti o smeraldi, o comunque a pietra da cui si possa ricavare qualche cosa di utile. E sempre però un valore materiale e monetizzabile. Non è un valore morale che dovrebbe nascere dal riconoscere che persino ciò che è inanimato in realtà gode di una vita sua che a noi non appare, data la lentezza e la lunghezza dei processi geologici.
A me è stato pure rinfacciato il mio mestiere, che è quello di documentare la montagna, con fotografie e libri. Sarebbe meglio, così mi è stato detto, che tenessi per me tutte le cose belle che vedo, di modo che nessuno possa rovinare le montagne “dove vado io”.
Non voglio essere il solo ad andare in montagna. Vorrei soltanto che la gente ci andasse in maniera corretta. Non invadente ma rispettosa della natura dei luoghi dove si trova. Io stesso mi rendo conto di aver compiuto numerosi errori. Un errore classico nell’educazione alla montagna è quello compiuto con la documentazione fotografica e cinematografica, dove spesso le montagne sono riprese dall’alto in una prospettiva che schiaccia e banalizza tutte le vette. Ora, se questo genere di foto è utile a un geografo che debba studiare il territorio, per chi invece voglia educarsi alla montagna occorre un genere di fotografia che non impone la conoscenza della montagna in maniera affrettata e superficiale. Chi dice che una foto dall’aereo è una bella foto, evidentemente non ha mai avuto occasione di rendersi conto della bellezza di una montagna dal basso. La mia missione è quella di fargli conoscere la montagna dal basso e non dall’alto. Il mio principale obiettivo è divenuto quello di educarmi e cercare di educare quanta più gente possibile a vivere la montagna in maniera corretta, in modo che la montagna rimanga quella che è, inalterata e bella.
Montagna usata
Per questo sono contrario alle iniziative editoriali che mostrano la montagna ripresa dall’elicottero, e, per lo stesso motivo, sono contro la pubblicità che sfrutta la montagna. Spesso infatti si utilizzano le immagini “alpine” perché suscitano ancora l’idea di qualcosa di bello, di magico, di incontaminato. E fin qui non vi sarebbe nulla di male, a parte il banalizzare l’idea; ma quasi sempre queste immagini vengono riprese dall’elicottero, così le montagne divengono un semplice sotto fondo. Pensiamo al Cervino, che fa pubblicità a una qualche marca di cioccolato: è un puro e semplice teatrino che fa gioco squallidamente su sensazioni non più vere, perché ormai nell’immaginario della gente il Cervino è un’immagine che non ha più nulla da condividere con la sua leggenda. La riprova viene dal fatto che ormai si va sul Cervino come se si dovesse prendere un taxi. Io penso che sia opportuno impedire ogni volo di elicottero (a meno che non sia un volo di soccorso), anche i voli per portare il cibo ai rifugi andrebbero limitati. Con l’uso dell’elicottero si incoraggia un sempre maggior consumo di cibo e materiali in rifugio; sarà possibile avere menù sempre più variati, lenzuola cambiate ogni giorno, in pratica i rifugi si trasformano in alberghetti di alta quota, e perderanno così tutta l’atmosfera di una volta, diventando sempre più una costruzione di servizio al posto di una istituzione moralmente utile ed educativa, dove è possibile scambiare delle impressioni e imparare qualche cosa. Cosa mai si può imparare in un luogo (come molti rifugi da 60/80 posti) dove ci sono coperto, primo, secondo, formaggio, frutta, dolce, caffè, amaro e conto? Non è possibile imparare nulla, probabilmente conviene andare in un ristorante in città, dove si mangia anche meglio.
Allo stesso modo c’è tutta una serie di attività di cui sarebbe possibile parlare: la mountain bike, le vie ferrate, l’arrampicata (con gli spit di cui molte pareti sono disseminate); per ognuna di queste attività occorre riflettere su che impatto hanno sull’ambiente.
Ma da tutto questo emerge comunque una domanda, ovvero se sia possibile trovare una via di mezzo, una forma di mediazione tra il desiderio di andare in montagna e la necessità di preservarla così come è (o come era). Io penso che questo sia possibile, ma occorre fare un esame di coscienza ed esaminare a fondo tutti gli errori che abbiamo commesso fino ad ora. Solo facendo così potremo cercare di insegnare qualcosa a qualcuno. Altrimenti saremmo solo dei cattivi maestri da non seguire. Io penso che l’uso che si fa dell’elicottero sia preoccupante, soprattutto in certi paesi come la Svizzera che pure è all’avanguardia nella protezione del territorio. Da un punto di vista morale l’attuale gestione dei rifugi e le attività degli elicotteri in Svizzera sono del tutto diseducative.
Montagna vissuta
Preferisco offrire ai miei lettori qualche cosa di più semplice, visioni di paesaggi meno spettacolari o scenografici, ma che siano alla portata di tutti, rinunciando a quello che è impossibile fare. Questo è un discorso che va rivolto soprattutto alle guide alpine, che spesso hanno interesse ad approfittare di determinate facilitazioni, come l’eliski, come certe vie ferrate, perché capiscono che la gente è attirata dall’estremo. Io penso che non vi sia alcuna via ferrata che valga un primo grado su una montagna qualunque, ritengo in altre parole che salire con i propri piedi e le proprie forze sia più sano, più educativo e più bello dell’andare a quattro zampe lungo delle funi artificiali di ferro. Allo stesso modo lo sci fuori pista, soprattutto se nelle modalità dell’eliski, è una forma di violenza alla montagna. Vale di più la gioia di essere arrivati su una montagna, più facile, e poter dire di esserci arrivati con il sudore della nostra fronte, di averlo fatto con la nostra fatica piuttosto che vantarsi di aver raggiunto un picco altrimenti a noi accessibile solo con l’ausilio di un elicottero. E sarà mille volte più bello arrivare, dopo una salita faticosa su una cima, magari più bassa di tante altre vette delle Alpi, e sedersi a contemplare il panorama attorno prima di intraprendere la discesa, piuttosto che uscire frettolosamente dalla cabina di un elicottero sulla vetta del Monte Bianco, inforcare gli sci e buttarsi giù. La rinuncia, secondo me è uno degli aspetti più importanti che dobbiamo riscoprire. La rinuncia fa parte delle nostre possibilità, e le possibilità sono tante e le rinunce possibili sono tante anche loro e nello spazio tra possibilità e rinuncia vi è un’occasione per la nostra crescita. E una crescita in questo senso sarà, oltre che un beneficio per noi stessi, anche un beneficio per l’ambiente.
Complimenti, bellissima riflessione. Che mi ha ha suscitato innumerevoli pensieri, che, se mi è concesso, cercherò di far fluire…
A partire dall’incipit “Il degrado delle Alpi è dovuto al fatto che pochi le sentano casa nostra”. Un’espressione che vale sia per il fruitore a ore sia per l’abitante dei monti, incapaci entrambi, per la maggiore, di non vedere che in quell’ammasso di sassi che un utile mezzo per un proprio tornaconto temporaneo. Perché anche l’abitare sui monti non corrisponde al sentirli casa propria, non necessariamente. Il “corretto” andare/vivere per i monti è un concetto effimero, legato a un senso etico, morale e estetico che richiede una riflessione. Che gran parte dei fruitori della montagna non fa. L’educazione è perciò essenziale perché non si instauri una mentalità distorta, dove la montagna è un luogo da sfruttare. E proprio i professionisti della montagna, Guide Alpine in primis, dovrebbero essere gli educatori di eccezione verso un rapporto sano con la montagna. Il rapporto uomo-montagna è una relazione complessa ma preziosa, che, anche al di fuori di una visione Romantica, dovrebbe essere essenziale e fondante delle professionalità in montagna. E sebbene questo rapporto possa essere ambivalente, disorganizzato o del tutto insano, i professionisti dovrebbero educare ad un rapporto sano, e non stimolare la patologia sociale dello sfruttamento.
Come gran parte dei contesti di vita contemporanea, anche la montagna viene spesso vissuta come luogo per sfidare i limiti imposti (da altri). Ma come è possibile sfidarli, se non si conoscono? Come è possibile sfidarli, se non si toccano? Se non si è mai stati ribattuti dalle difficoltà? Il superamento degli “altrui limiti” viene delegato all’esterno (strumenti, persone, mezzi) e non a se stessi. Il limite dei 4000 viene abbattuto con la funivia o seggiovia, il limite dell’esposizione con la ferrata, il limite dell’allenamento o dell’esperienza con l’elicottero. Ma sono questi veramente limiti del singolo individuo? O sono limiti dettati da altri?
Nell’instaurarsi di ogni relazione l’approccio graduale dovrebbe prevalere. Questo è essenziale per conoscere se stessi in relazione con l’altro (in questo caso se stessi in relazione con la montagna). Ormai non ci si concede più questo tempo. Ma tutto deve essere concesso e ottenuto subito. L’educazione graduale invece potrebbe consentire di conoscere i propri gusti, i propri interessi, i propri limiti, le modalità per superarli e per incrementarli. L'”educatore di montagna” potrebbe accompagnare in questo percorso, vedendo crescere e coltivando un rapporto sano (o corretto, come dice Gogna) alla montagna. Quante persone sarebbero interessate a questo percorso? Credo che il numero ci stupirebbe.
Anch’io “penso che non vi sia alcuna via ferrata che valga un primo grado su una montagna qualunque”.
Cara Mara, di rifugi ne ho visitati parecchi e ho visto cose fatte bene oppure no. Posso però garantirti che ho trovato simpatia, ospitalità e umanità più in quelli piccoli che in quelli grandi. Non ho mai litigato con alcuno, ma per qualcuno di loro nutro un’amicizia che non scorderò neppure quando andrò in giro in carrozzina.
Mi spiace che tu non abbia capito la semplice battuta del “conto”, fa parte di un modo di dire. Fortunatamente non sono nella posizione di dover valutare la qualità di un rifugio dai conti che presenta.
Non ricordo d’aver mai scritto articoletti in lode di qualche rifugio o rifugista. E se l’ho fatto non è stato perché questi non mi ha fatto pagare il conto.
Insomma, che dire? Sei rifugista pure tu? Se sì, ti conviene moderare linguaggio e livore: al rifugio arriva ogni tipo di persone, di certo anche una bella quantità pretenziosa e poco accomodante. Così non fai certo i tuoi interessi.
Se invece rifugista non sei, la tua colorita espressività dimostra solo che qui sei più forse tu ad avere qualche problema (serio o semiserio) di socializzazione.
Cosa mai si può imparare in un luogo (come molti rifugi da 60/80 posti) dove ci sono coperto, primo, secondo, formaggio, frutta, dolce, caffè, amaro e conto? Non è possibile imparare nulla, probabilmente conviene andare in un ristorante in città, dove si mangia anche meglio.
Se un gestore cerca di fare le cose bene tu impari come sono fatte le cose fatte bene, se poi non sai socializzare dinanzi a una vasta scelta di cibi e vivande è un tuo problema (serio!) .
Il conto comunque si paga anche se ti chiami Gogna, se poi ti piacciono i rifugisti che fanno sconti per la speranza di un articoletto , questo si chiama taccagneria schifosa.