L’alpinista bergamasco sull’emergenza climatica in quota: «Le norme ci sono già, manca la cultura. La natura è da preservare, non uno svago. Altro che bandiere rosse come in spiaggia: per limitare i rischi bisogna cambiare approccio alla montagna».
Simone Moro: “Inutile chiudere o vietare la montagna”
di Max Cassani
(pubblicato su lastampa.it/montagna il 22 luglio 2022
Simone Moro è uno che in montagna ci va da sempre: «Da quando avevo 13 anni sulle vette di casa delle Orobie», dice. Poi da adolescente sulle Dolomiti e dal ’92 sulle grandi vie himalayane, la sua specialità. Da allora l’alpinista bergamasco ha compiuto 70 spedizioni di cui 20 d’inverno, è salito sulla cima di otto dei 14 Ottomila della Terra, di cui detiene il primato del maggior numero di ascensioni in prima invernale: l’ultima delle quali sul Nanga Parbat nel 2016, assieme allo spagnolo Alex Txikon e al pakistano Ali Sadpara. Oggi ha 54 anni: in pochi hanno vissuto da vicino il cambiamento climatico e la metamorfosi dei ghiacciai quanto lui.
Moro, le temperature salgono, i ghiacciai si sciolgono, i pericoli in quota aumentano. Allarmismo giustificato o esagerato, secondo lei?
«È giustificato eccome, finché non si reagisce al problema con chiusure e proibizioni della montagna tanto per pulirsi la coscienza. Certo che esiste il surriscaldamento globale: è talmente evidente, nessuno può negarlo. L’uomo è solo un acceleratore di un processo naturale».
Oltre ad arrampicare, lei pilota anche l’elicottero. Che testimonianza in prima persona può dare del cambiamento climatico in quota?
«In 30 anni di attività alpinistica ho dormito su tutti i ghiacciai del pianeta, dalle Alpi al Caucaso, alle Ande, alla Patagonia fino all’Antartide. Ho visto con i miei occhi il ritiro ma soprattutto l’assottigliamento dei ghiacciai. È come se dallo spessore di 20 coperte si siano ridotti a quello di un lenzuolo, con tutto ciò che ne consegue. Come accaduto sulla Marmolada, il cui ghiacciaio si è aperto come un’anguria. Altro che crollo di un seracco come molti hanno detto».
Qualcuno sostiene che ci sia una certa ricorrenza storica negli sbalzi climatici. Secondo lei questa è veramente un’estate diversa da quelle passate?
«Per esperienza posso dire che negli ultimi 30 anni in Himalaya fa in media sempre meno freddo, con picchi di gelo che farebbero credere l’esatto contrario. Ora è il momento degli eccessi meteorologici, causati dal surriscaldamento del pianeta che fa scontrare masse d’aria diverse tra loro».
Limitare o addirittura chiudere le vette d’estate con decreti e ordinanze: può essere una soluzione per tutelare i frequentatori, oppure – come sostengono per esempio le guide alpine – così facendo si toglie responsabilità a chi va in montagna?
«Con i divieti non solo il problema non si risolve, ma si sposta sulle montagne: è una spirale pericolosissima. Senza contare che i divieti in quota creerebbero solo un gruppo di fuggiaschi. Senza educazione, la gente continuerà a morire per crollo delle pareti o di nevai apparentemente innocui. Sarebbe come sperare di risolvere il problema degli incidenti stradali impedendo alla gente di guidare la macchina, o vietare i matrimoni per evitare i divorzi. Quella di normare un ambiente naturale non è certo la soluzione».
E quale può essere, allora, la soluzione?
«Non certo le bandiere rosse paventate in maniera folkloristica da qualche governatore, come si fa sulle spiagge quando c’è mare grosso. Il fatto è che bisogna cambiare approccio alla montagna. Adattare il proprio comportamento alle mutate condizioni climatiche per limitare i rischi, che sono connaturati all’alta quota. Il rischio zero non esiste. Più che nuove norme, che già ci sono, bisognerebbe fare cultura. La montagna non è un’alternativa di svago, è un ecosistema vivo da preservare: andrebbe insegnato che sono proprio i comportamenti di ciascuno di noi a incidere sul pianeta».
E a chi potrebbe spettare il compito di educare alla montagna: alle guide alpine? Agli scienziati?
«In realtà una figura unica sarebbe limitante. Di certo le guide alpine sarebbero titolate a farlo. Così come il CAI, che ha nel suo statuto la promozione della montagna. Potrebbero farlo anche geologi e glaciologi, o gli stessi alpinisti. Dopo di che ci sarebbe da cambiare anche la narrazione delle terre alte: non se ne può più della “montagna assassina” in prima pagina solo quando accadono fatti di cronaca».
L’altro giorno il suo collega Marco Confortola ha annunciato di rinunciare a scalare il Nanga Parbat perché fa troppo caldo e non ci sarebbero le condizioni di sicurezza. Anche lei è sempre stato un paladino del valore della rinuncia. Che ruolo possono avere gli alpinisti come lei nel comunicare un corretto approccio alla montagna?
«Marco Confortola è una guida alpina e un alpinista specializzato sugli Ottomila. Come alpinisti abbiamo una responsabilità, che è anche quella di comunicare correttamente la montagna. Dunque se dici che non ci sono le condizioni, evidentemente sarà così. D’altronde con queste temperature sul Nanga Parbat ci sono seracchi pericolosissimi. Una guida alpina o un alpinista che rinuncia a una vetta, non è uno sfigato. Al contrario. La sicurezza prima di tutto. Dunque da suo collega non posso che approvare la decisione, se la motivazione è quella».
Il commento
di Carlo Crovella
Simone Moro accenna alla necessità di cambiare l’approccio alla montagna e suggerisce di passare attraverso corsi di introduzione e perfezionamento. Lui stesso dice che l’organizzazione didattica del CAI è predisposta a tale fine: in effetti vanta quasi un secolo di esperienza generale (le prime Scuole del CAI risalgono agli Anni Trenta del Novecento) e dispone di una diffusione capillare a livello nazionale.
Un altro canale di formazione alpinistica è certamente quello delle Guide alpine, sia su iniziative individuali che in organizzazioni strutturate (in pratica: corsi e Scuole come quelli del CAI).
Fin qui le sue affermazioni non fanno una piega. Il punto sul quale Moro glissa è quello davvero critico: l’ipotesi della formazione/introduzione ad un sano andar in montagna è un’opportunità o un obbligo? Ovvero è un qualcosa di più, lasciato alla scelta individuale, o un passaggio inevitabile, senza il quale non si è legittimati a praticare alpinismo (intendendo con questo termine tutte le discipline della montagna)?
Il punto è tutt’altro che marginale, anzi è il vero problema cruciale dell’intera questione. Se lasciamo la scelta alla maturità individuale, ci troveremo frotte di individui che, per i più disparati motivi (ignoranza, superficialità, ribellione, supervalutazione delle proprie capacità, ecc.) non aderiranno: l’ipotesi è quindi fallace, non si farebbe che tronare al modello attuale, dove le Scuole CAI esistono ma molti non ci vanno per partito preso.
Bisognerebbe allora introdurre un elemento che certifichi l’avvenuta partecipazione alla formazione: in pratica un pass, una patente. Il modello è ampiamente diffuso nella società. Se vuoi guidare un automezzo, devi avere la patente, che prendi dopo apposito esame. Per prepararti all’esame puoi appoggiarti ad una Scuola Guida, ma puoi anche presentarti da privatista. L’importante è avere la patente, conseguito a esame superato.
Stante l’irrequietezza congenita degli italiani, se non si inserisce un elemento che certifichi la partecipazione alla formazione (in parole povere: un pass, una patente), le parole di Moro, apparentemente di gran buon senso, risultano aria fritta. Non per colpa di Moro: è dato di fatto oggettivo.
Il punto saliente è che, se non troviamo una soluzione alla regolamentazione qualitativa dell’andar in montagna), ci penseranno le autorità. Infatti l’orizzonte dei prossimi anni non potrà che prevedere ulteriori peggioramenti ambientali, perché, anche nell’irrealistica ipotesi di immediata inversione delle relative politiche, le conseguenze impiegheranno alcuni anni a determinare l’inversione sul terreno. Inverni sempre più siccitosi ed estati sempre più torride dovrebbero tradursi in un aumento esponenziale dei rischi oggettivi in montagna.
Sapersi muovere a dovere, cogliere l’attimo giusto, rinunciare quando necessario o addirittura saper stare a casa (nonostante i muscoli frementi di “voglia”) sarà la sfida degli alpinisti di domani. La montagna è strutturalmente cambiata rispetto ai decenni scorsi: darwinianamente parlando, sopravviveranno gli individui che sapranno meglio adattarsi alle “nuove” condizioni dell’andar per monti. Impararle “prima” è meglio che “scoprirle” sulla propria pelle.
Il commento della Redazione
Moro giustamente non accenna a patentini di sorta. L’opinione di Crovella è indubbiamente omogenea al suo pensiero, ma questa redazione pensa che l’introduzione di un qualunque tipo di patentino o di pass stravolga la natura stessa dell’alpinismo, ne tarpi il germe rivoluzionario che ne è alla base e alla fine quindi sia dannosa proprio per la formazione di individui responsabili.
La patente stradale è necessaria in quanto autorizza a guidare in un ambiente nel quale l’iniziativa del singolo non è accettabile: si deve guidare in un preciso modo e nel rispetto di regole immutabili.
In alpinismo invece abbiamo sempre accettato che la sicurezza si debba acquisire con la propria esperienza su montagne diverse, con compagni disparati, su difficoltà varie e con pericoli del tutto non dipendenti dall’individuo: in questa dimensione ciò che soprattutto dobbiamo continuare ad accettare è il concetto che il rischio-zero è utopico. Il concetto di limite, tanto importante per la libertà quanto per la sicurezza, si ritroverebbe impastoiato in una definizione collettiva del tutto opposta a quella che l’individuo dovrebbe scoprire valida per se stesso. Perché un patentino autorizzerebbe ad agire là dove solo il nostro giudizio dovrebbe essere operativo.
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La formazione/corsi con tanto di “patentini/certificati frequenza” non risolvono nulla come accade nel mondo del lavoro.
Legge 81/, un sacco di corsi di tutti i tipi , un vero affare per docenti ed esperti di vario tipo. Ma si continua a morire lavorando…….
Commenti 60 e 61: geniale
Sig.Gheroppa @60.
Fino a rifritta sono anche d’ accordo ,meno sulle parole di Moro /patente…dove le hai lette?ma forse al solito sono io lo sconvolto.
Saluti?
Gheroppa, che quelle parole le abbia proferite Moro invece non mi meraviglia neanche un po’.
Grande James! The sex machine.
400 morti in montagna, compresi casi di infarto, malori.
750 morti fra mare fiume laghi
Dunque di cosa stiamo parlando?
Di far prendere la patente di ” spiaggia ” alla casalinga di Voghera e al commercialista di Rogoredo?
Oppure di chiudere tutte le zone ove vi sia presente dell’ acqua balneabile e non?
Se poi spostiamo il discorso sul costo e tipologia del soccorso necessario allora dobbiamo multare chi fuma chi beve, mettere in galera o vita chi si droga o drogava e ora è sotto cura di metadone.
Dunque di che si sta parlando? Aria fritta e rifritta.i
Che parole come.montagna e patente le abbia proferite Moro mi sconvolge perfino un po’.
su questo non sono completamente d’accordo.
Le decisioni si prendono, a volte si sbagliano, anche per inesperienza, ma anche perche siamo umani. Se lo sbaglio è piccolo si riesce a cavarcela e questo ci servirà per crescere. Se invece è grosso è dura.
Sì, bella la nota di Tiziana.
Tuttavia è ancora centrata sapere e sull’avere.
Chi si muove senza saperi e senza averi ma è in relazione con il terreno alza il rischio di non combinare pasticci.
Diversamente dovremmo avere averi e saperi per ogni nuova situazione della vita.
Bello il commento @56
@Riva Guido, volevi dire “conciso” ho hai detto appositamente “circonciso”? 😉
Non sei mai tu che prendi la montagna, è lei ferma e immobile che ti ospita. Siamo briciole di fronte a questi massicci, con un temporale improvviso o una via sbagliata lei rimane lì per altri millenni e te sparisci. È con questa umiltà che dovremmo affrontare certe discussioni e capire che valendo poco più di nulla, è sempre lei che decide per te. Ovviamente se si riduce l’argine di rischio con formazione, esperienza, molte meno immagini illusorie social sarebbe tutto più semplice per raggiungere l’obiettivo. E come dice Paolo al commento 38 anche un valido approccio all’attrezzatura e a cosa non può mai mancare, soprattutto a come utilizzarla. Tony Curz non sarebbe mai morto sull’Eiger se il suo compagno avesse avuto un caschetto nel 1936. Siamo pieni di possibilità ma nell’epoca del “tutto facile e possibile” anche ingnoranza in questa materia gioca brutti scherzi. Una passeggiata invernale senza ramponi e su come utilizzarli sui Sibillini si rivela fatale. Invece di capire chi ha l’idea migliore facciamo tesoro dei suggerimenti di tutti. Qualcosa di buono ne uscirà fuori per forza.
Imporre una “patente” per andare in montagna sarebbe come imporre di imparare a nuotare a chiunque vada in spiaggia.
E sono comunque sicuro che qualcuno sia convinto che anche quest’ultima sia una buona idea…
@53 Credo ti sia sfuggito il mio commento 44 in cui contestualizzo.il discorso sulla patente e ne preciso meglio il posizionamento nella scala delle priorità
Moro ha ragione, e il commento di Crovella è semplicemente agghiacciante. L’idea di normare tutto, anche la montagna, con patentini e multe, è una follia e stupisce che a proporla siano dei montanari (non solo Crovella quindi, ma anche delle guide che magari parlano in modo non del tutto disinteressato). Come se il fatto di avere la patente ci risparmiasse dall’avere milioni di morti sulle strade. La via maestra, invece, sta nella cultura, nella informazione, nella formazione e nella educazione. Tutte cose faticose e poco gratificanti dal punto di vista elettorale, quindi si preferisce la scorciatoia dei divieti, degli obblighi, dei patentini. Vade retro, Satana!
@ Gallese al 27 e 36. Scusa Paolo se sono stato circonciso! Però vedi che anche facendo come fa il Crovella alla fine c’è sempre qualcuno che non capisce. Quando affermo che “L’alpinista e l’alpinismo non sono cose astratte perché la montagna è la continuazione della pianura.” intendo dire che quello che l’alpinista fa in montagna attraverso l’alpinismo è una prosecuzione sotto altre forme di quello che già fa quotidianamente giù in pianura, come qualità, stile e obiettivo di vita. Non puoi essere alpinista solo in montagna. Essere educati è indispensabile, prima lo si fa meglio è.
Ci vorrebbe un patentino per scrivere su internet
A mio parere l’approccio con la natura in genere, ha un fondamento culturale e morale. Che si affronti una giterella in un parco collinare, un ottomila himalayano, un giro del mondo in barca a vela…. La patente per la montagna ha la stessa valenza di quella stradale e nautica. Sicuramente a molti non impedisce di assumere comportamenti irresponsabili, se non criminali….
Fabio ho scritto “sorridare” ma avrei voluto usare ben altro termine.
Questi “personaggi” prima di fare i “messia” sarebbe bene che si guardassero per se e agli esempi che hanno dato.
Tutti a parlare di montagna. E le falesie che sono vicine a quasi ogni città? E l’arrampicata sugli alberi? E i lavori di manutenzione a casa propria? Se uno sale su una sedia per cambiare la lampadina anziché usare la scala a norma gli vietiamo di stare a casa? Le regole hanno un senso per rendere possibile il soccorso, la sicurezza personale può essere, per elementari motivi pratici, solo un problema personale
«A me la proposta di formazione “CULTURALE” di Moro mi fa un pò “sorridere”.Proprio da lui, con la sua montagna trasmessa in diretta dai campi delle montagne Himalayane o con la sua partecipazione alla ridicola trasmissione-gara con la Balivo al monte Bianco.»
Alberto, a noi due l’ipocrisia provoca reazioni differenti: a te fa sorridere, io storco il naso. ???
Comunque, come in tanti altri casi, vale il detto: «Fate come dico, ma non fate come faccio».
Le scuole sono utili perché spesso insegnano le tecniche necessarie, ma non possono sostituire l’esperienza della montagna né tantomeno la padronanza del proprio corpo. Del resto gli sportivi si misurano piuttosto con la tecnica e all’ambiente naturale preferiscono l’ambiente artificiale come dimostra per esempio il successo delle ferrate o delle biciclette. In entrambi i casi la montagna diventa superflua perché l’interesse si concentra sulla competenza tecnica: se non ci fosse un livello tecnico da superare non ci sarebbero né ciclisti né ferratisti. Prima di insegnare qualche tecnica sarebbe meglio selezionare gli allievi sugli itinerari dove è sufficiente usare i piedi o al massimo le mani.
A me la proposta di formazione “CULTURALE” di Moro mi fa un pò “sorridere”.
Proprio da lui, con la sua montagna trasmessa in diretta dai campi delle montagne Himalayane o con la sua partecipazione alla ridicola trasmissione-gara con la Balivo al monte Bianco.
Ovvio che la mia priorità preferita è quella che, a monte di tutto, risolverebbe ogni problema. Ovvero la montagna della 3 ESSE: Scabra, Spartana, Scomoda. Infatti (come ho spiegato mille volte) la massa consumista (che è il vero cancro della montagna) detesta la scomodità: si defilerebbe, dedicandosi ad altre attività. Torneremmo ad avere una montagna selvaggia, o cmq molto poco antropizzata, e quindi davvero regno della libertà.
QUESTA E’ L’OPZIONE PRINCIPE
Se si scarta questa ipotesi principale, si entra in una miriade di sotto-ipotesi: divieti (sia quantitativi che qualitativi), restrizioni, numeri chiusi, prenotazioni obbligatorie, ordinanze, ecc ecc ecc… E’ interessante la proposta di Moro, idea che condivido: occorre CAMBIARE MENTALITA’ (dei cannibali, ovviamente) e al tal fine è fondamentale la “formazione”.
Ma è qui che casca l’asino, almeno l’asino italico. Se noi fossimo caratterizzati da un elevato tasso di senso civico individuale, come i tedeschi, i britannici, gli scandinavi, allora ci si potrebbe fermare alla proposta di Moro. Il punto è che il popolo italico è comprovatamente infingardo, menzognero, irriverente, gaglioffo, voltagabbana, furbastro ecc ecc ecc (leggere la Storia d’Italia di Montanelli per apprendere le cause storico-antropologiche del fenomeno): fidarsi di tutti gli italiani è impresa da svitati.
Una scelta secondo la proposta Moro non può basarsi poi sulla semplice speranza che tutti i frequentatori delle montagne scelgano individualmente di fare formazione. Occorre rendere OBBLIGATORIA la formazione, il che non può che esser comprovato da un attestato finale della formazione. Tale attestato, nel linguaggio quotidiano, può esser semplicemente chiamato “patente”. Ad essa sarà presumibilmente collegato un codice alfanumerico (tipo SPID), che servirà per accedere alla montagna e per controllare informaticamente i movimenti. Non è necessario ipotizzare un esercito di forestali che corrono dietro agli alpinisti… Il controllo informatico avviene utilizzando la tecnologia del sistema cellulare (come per gli spostamenti dei telefonini da cellula a cellula). Per mappare il tutto, basta un server in una cantina. Il sistema in automatico farà partire le sanzioni e le eventuali sospensioni (tempooranee o definitive) della “patente”.
Per evitare questo modello stile Grande Fratello della montagna, si può tagliare la testa al toro e semplicemente far tornare la montagna scomoda e spartana: no impianti, no styrade, no nuovi rifugi (quelli storici reindirizzati ad un modello d’antan), no segnavia, no spit, no ferraste… ecc ecc ecc La montagna come l’hanno trovata i nostri bisnonni. D’ora in avanti, pochi si avventureranno in una montagna del genere e quei pochi non possono che avere la mentalità “matura” e “consapevole”. Viceversa le masse di cannibali NON amano la scomodità e quindi si autodefilerebbero da sole.
Se però non accettiamo una virata strutturale verso le 3 ESSE, non restano che le sotto-ipotesi, di cui la patente è una delle tante, ma non coisì lontana dalla realtà come appare ai più, oggi.
Obbligo di patente, materiali obbligatori, ecc. …ma perché non anche l’obbligo di visita medico sportiva, allora: in fondo, l’infarto è tra le cause più frequenti di morte in montagna!
Scherzi a parte, io credo che a questo giro l’occasione per una discussione sana sia stata sprecata. Ci siamo buttati sul terreno degli obblighi e dei divieti: invece di cogliere lo spunto dall’intervista di Simone Moro (“Più che nuove norme, che già ci sono, bisognerebbe fare cultura”, dice Moro) ci siamo fatti condizionare dalla postilla velenosa di Carlo Crovella (forse messa lì apposta per scatenare la discussione?).
Ringrazio Lorenzo Merlo per averci comunque provato, e per la segnalazione di un suo precedente post che ho letto con interesse.
CAI e riCAI….
Questa decantata formazione dei suoi Istruttori è tale, che se il migliore di loro dovesse sostenere il più blando degli esami all’ENSA di Chamonix, verrebbe bocciato appena passa dalla porta di ingresso.
Ma di cosa stiamo parlando?
Qui c’è chi si arroga diritti di saperla lunga solo perché si è autotitolato da un organo mediocre del quale è lui stesso il tutore e si inserisce il “lavoro” di termini altisonanti: Nazionale, italiano, formatore, presidente… Patetico.
Affinchè quello che si dice nel commento 38 non avvenga MAI, diciamo chiaro che la montagna deve restare un luogo dove ognuno è libero di andare. Punto.
perchè allora non corsi obbligatori a chi si rovina la salute con droga e alcool e che sicuramente causa al sistema sanitario danni ben più onerosi dell’alpinismo.
Siamo seri per favore.
E poi si ricade nell’errore consueto: avere buoni materiali non mi salva la vita se non ho ESPERIENZA.
E non me la faccio se non ho l’umiltà di riconoscere che MI SERVE.
Questo è il problema vero.
Buongiorno Paolo, anch’io sono marchigiano e mi sono formato sulle stesse montagne.
Ma spero che quello che dici non avvenga MAI!
Le parole “sovvenzionato dallo stato” farebbero esplodere un putiferio, politico ed economico. Non solo non è realizzabile, ma non vorrei mai fosse lo stato a dirmi cosa devo fare in montagna. Ce lo ritroviamo tra i piedi abbastanza nel quotidiano.
E non devo essere obbligato a comprare niente che non decida io con le mie tasche e la mia esperienza. Mi consigli semmai.
Per non parlare delle perturbazioni economiche che le ditte metterebbero in piedi per accaparrarsi il mercato.
No no, per carità!
Salve a tutti, sono un amante della montagna che da buon marchigiano si diletta in trekking sui Sibillini, sul Gran Sasso e sui monti della Laga. Per anni ho ritenuto l’accesso alla montagna una cosa da esperti o quanto meno che andasse guadagnato gradatamente con dosi massicce di esperienza ma purtroppo non è così semplice valutare/controllare l’esperienza delle persone. Quindi, invece che rendere più difficile l’accesso alla montagna togliendo le corde fisse e le ferrate per i rifugi come diceva il commento 35, mettiamo l’obbligo di un corso base di montagna (gratuito e sovvenzionato dallo stato) necessario all’acquisto dei materiali più tecnici, come scarponi ramponabili, ramponi, imbraghi, set da ferrata ecc…, un po’ come il porto d’armi per i cacciatori, quantomeno chi vuole attrezzature di un certo livello deve dimostrare di saperle usare. Chi vuole svolgere attività avventurose ma rischiose (anche per chi gli sta vicino), deve avere la motivazione giusta che lo porti ad iscriversi ad un corso base pur di poter comprare un articolo indispensabile per quello che vuole fare. Visto che è inutile/impossibile vietare gli accessi montani più pericolosi e d’altro canto è difficile far fare i corsi preparatori alle persone, la cosa più semplice è restringere la possibilità di acquisto di una specifica fascia tecnica di prodotti senza i quali certe cose non si riescono a fare. Questo ovviamente non risolverebbe il problema inquanto si amplierebbe il mercato dell’usato e del prestito però quantomeno sarebbe un segnale per far capire che la montagna è si di tutti ma non è per tutti, perché gli errori li si pagano cari e l’inesperienza può far morire sia a 600m che a 4.000m.
È inutile e nocivo pretendere di difendere le persone da loro stesse, si perde libertà e, stante l’impossibilità di telrguidare le persone, non si guadagna sicurezza. Ma se, facendo un calcolo su quanta gente va sul percorso xy e sulla percentuale prevedibile di incidenti dovuti ad una situazione eccezionale, si conclude che il Soccorso Alpino sarà tutto assorbito dal percorso xy… beh, il percorso xy va vietato. È un problema di gestione di risorse non inesauribili, non un problema personale di chi va sul percorso xy.
Guido, commento 30. Che vuoi dire? Non mi sembra di aver considerato l’alpinista o l’alpinismo “cose astratte”. Puoi spiegarmi meglio?
Il patentino non ha senso. Piuttosto informate ed avvertire, con iniziative e azioni potenti e concrete. E di nuovo rendere le montagne meno accessibili. Via le corde fisse, via le ferrate per facilitare accesso ai rifugi. Meno rifugi o al limite rifugi che sia degni di tale nome e non alberghi-ristoranti. Montagna piu’ difficile e meno accessibile = meno gente sulle vie e presumibilmente piu’ preparata. In ogni caso la montagna deve restare terreno di liberta’, dove purtroppo o per fortuna la selezione naturale rimarra’ continuera’ a farla da padrone.
@25 per Esperienza diretta e pluridecennale, so che la correlazione inversa fra come “ci si muove in motagna”, a vista di osservatori terzi (quale posso essere io, per esempio mentre me ne vo per i fatti miei in gita), e la maturità e soggetto è davvero molto molto rara. Può esistere, per carità, ma comprendi subito da mille altri risvolti. Come parla, cos dice, l’orario in cui si muove in montagna, cosa sta facendo… i segnali per focalizzare a vista i cannibali e, all’opposto quelli con la testa sul collo sono Ben chiari e un formatore esperto li coglie al volo. L’errore esiste sempre, ma è davvero così raro che, a livello probabilistico, lo si può quasi escludere. Bisogna aver l’occhio e l’orecchio giusto, questo sì.
@31 Invece vedrai che la realtà porterà proprio lì. Chi è lucido lo vede già, si attrezza a titolo personale per evitarlo e cerca di convincere gli altri per evitare il disastro. Chi ha le fette di salame a lato degli occhi, non “vede” il futuro e sbattera’ sonoramente il naso.
Mi sono ricordato che ho già trattato il tema “formazione” nel secondo di due articoli consecutivi pubblicati sul GognaBlog il 30/9/2019 e il 1 /10/2019. Ovvero 3 anni fa (in realtà mi.occupo di questi temi da decenni e lo slogan “più montagna per pochi” ha una quindicina di anni circa). Nel primo di questi due articolo tratto le negatività della montagna iperaffollata (i famosi “cannibali”), nel secondo espongo come vedo il modello che potrebbe evitare il tutto. A tal proposito proprio per sollevare il CAI sia da eccesso di “sfruttamento” degli istruttori volontari, sia per aprire la formazione di base ai professionisti, cioè Guide alpine, op sono complessivamente propenso a preferire la formazione di base (quella che potrebbe teoricamente condurre all’attentato, alias patentino) ai professionisti. Così garantiamo il loro coinvolgimento economico. Ovviamente bisogna costruire un modello organizzativo capillare che consenta sia al cittadino di Trapani come a quello di Udine di poter frequentare questi corsi di formazione vicino a casa loro. Chi fosse interessato alls mia analisi approfondita del tema, nonché a scoprire cosa prevedo che dovrebbero fare, in quel modello, le Scuole CAI (che ipotizzo sempre incentrate su istruttori volontari), può leggere direttamente l’articolo:
https://gognablog.sherpa-gate.com/piu-montagna-per-pochi-2/
Il giorno prima (30/9/2019) trovate la prima parte.
Circa Scuola Parravicini, non ho stretti rapporti personali, perché a Milano conosco più a fondo l’ambiente, le vicende e alcune persone della Scuola Righini di scialpinismo. Tuttavia la Parravicini è la prima scuola di alpinismo italiana (1936 mi pare) e da lei sono arrivate le persone (Carletto Negri in particolare) che hanno creato la Commissione CAI delle scuole di alpinismo, che, fondatasi in anni po’ recenti con la consorella dello scialpinismo, forma oggi la CNSASA, cioè il cardine nevralgico dell’intero sistema didattico del CAI. Sistema che, ricordo, e’ ormai capillare sull’intero territorio nazionale. Esiste quindi un consolidato “modello didattico CAI” che viene periodicamente aggiornato e che viene insegnato dal Brennero a Siracusa e da Bardonecchia a Gorizia.
Crovella, abbi pazienza, del tuo pensiero, al netto delle infarciture inutili con le quali lo confezioni, c’è ben poco da capire ed è tutto riassumibile in due concetti che ci stai propinando da anni. “Più montagna per pochi”, in alternativa al patentino. Entrambi irrealizzabili e direi anche, dal mio punto di vista, indesiderabili. Fattene una ragione, vivi sereno e concedici una pausa dalle tue soluzioni e/o proposte da scuola elementare.
@ Paolo Gallese. L’alpinista e l’alpinismo non sono cose astratte perchè la montagna è la continuazione della pianura.
DinoM (24) e Crovella n. 17 >> Apprendo con piacere che i corsi CAI sono affollati, anche da giovanissimi, e mi scuso se ho dato l’impressione di voler screditare il lavoro benemerito di tante persone. La mia domanda riguardava in realtà i contenuti, ma diciamo che con i vostri commenti mi avete invogliato, perlomeno, a riprendere in considerazione l’istituzione e ciò che ha da offrire. E comunque, non ho mai detto né pensato che “il CAI fa schifo”.
Però sì, Crovella, lo ribadisco: sei un disco rotto (https://dizionari.corriere.it/dizionario-modi-di-dire/D/disco.shtml), e non perché esponi idee che non mi piacciono, o che trovo per certi versi molto ingenue.
Dal mio punto di vista sei reazionario e identitario, e fin qui siamo nell’ambito delle opinioni, ma il punto è un altro: è che il tuo argomentare è pieno di fallacie (https://patrimonilinguistici.it/fallacie-logiche/ >> fallacia n. 8, direi evidentemente, ma anche la 11, la fallacia delle “randellate”, 18 e 19, fallacie delle “ganasce”, ecc. ecc.). In altre parole, secondo me non sai discutere.
Probabilmente fuori da qui sei una persona diversa. ciao
Paolo: non sono un esperto nel campo ma già esistono tantissime attività con la scuola d’obbligo. Il problema sono sempre le persone. E’ praticamente impossibile trovare istruttori negli orari lavorativi compatibili con le scuole.
Scusate mi è venuto in mente di chiarire che quando io parlo di lavorare nel mondo della scuola, parlo di quella dell’obbligo, non nel mondo dell’alpinismo.
E mi piacerebbe che qualcuno ogni tanto raccogliesse l’invito a parlarne qui. Se consideriamo “andati” gli adulti, forse, per il futuro del corretto approccio alla montagna, ma direi agli ambienti naturali in generale, varrebbe la pena lavorare sui bambini di oggi, soprattutto quelli che abitano le città.
E qui sì, vedrei il CAI, con la sua forza istituzionale, parlare al MIUR. Anche se poi sono certo si litigherebbe tutti su “cosa” andare a dire nelle scuole. Ma questo sarebbe un altro discorso.
Però che ne dite? Ce ne sarebbe bisogno? Sarebbe utile?
Non risolverebbe il problema oggi, ma darebbe un aiutino domani.
Curiosità: cosa sai davvero della Parravicini del CAI di Milano, scuola nazionale storica?
19, Carlo: vedo come cammina, come si muove, come mette i piedi, che zaino ha…
Bravo Carlo. Poi incontri su un sentiero il mio amico Andy Parkin, lo guardi tutto storto e traballante, scomposto come pochi, vestito da britannico, zaino vecchio stantio e tri dici: “Quello non è formato”. Peccato sia Andy Parkin e “formati” come lui sono pochi al mondo…
Anch’io come Crovella, lavoro nelle Scuole da tanto tempo. Tutti i corsi sono sempre frequentatissimi e, purtroppo, il numero degli istruttori è sempre minore. I percorsi formativi e l’aggiornamento sono sempre più impegnativi e pressanti soprattutto quelli specifici di didattica e metodo; essere buoni alpinisti non è sufficiente per essere anche buoni formatori. Non possono essere lasciati alla buona volontà metodi, organizzazione e struttura dei corsi. La richiesta al CAI di corsi e formazione è in crescita esponenziale ma le risorse sono limitate. Mi stupisco sempre quando al Soccorso vengono destinate ingentissime risorse e alla prevenzione (scuole) nulla. Quindi direi che il problema è offrire un adeguato numero di corsi e aiutare, anche economicamente gli Istruttori CAI. Non parlo di una retribuzione (tipo GA) ma almeno riconoscere le giornate di formazione e aggiornamento. Non è in questione la “volontarietà” (valore imprescindibile) dell’istruttore che mal si sposerebbe con l’economicità dei costi dei corsi, ma almeno tenere sollevati i volontari dai costi di materiali ( corde etc) e giornate (lavorative perse) della formazione.
Il numero di persone che fanno qualcosa, qualsiasi cosa, è direttamente proporzionale alla quantità di regole messe in atto da chi governa e controlla, non sarà bello, ma è cosi e non vedo come si possa impedire. Patentini non ne faranno mai perche’ non è praticabile , siamo troppi, e in montagna poi, ai governi centrali o locali, non interessa la formazione ma solo lo scarico di responsabilità. Lo abbiamo visto in ambiti molto più importanti della montagna, come la sanità e la scuola , dove hanno buttato a lavorare, con grosse responsabilità, gente senza alcuna formazione, solo perche serviva tappare dei buchi, succede ogni anno eh? (a parte delle lauree tutte teoria, prese senza nessuna o poca esperienza pratica). però poi gli fanno firmare dei fogli informativi ( pura burocrazia) dove gli fanno assumere le responsabiltà se sbagliano. E, casomai se sbagliano, li processano e gli fanno pagare i danni….Poi tra i tanti buttati allo sbaraglio, capità pure gente intelligente che si adatta e impara a fare il proprio mestiere, ma grazie a tentativi ed errori, mica perchè glielo dice qualcuno prima. Questo nelle cose grandi come i servizi pubblici, ora tra un pò anche nei settori privati dove conta fare soldi alla svelta, figurarsi formare i lavoratori. Avete visto per caso che gente lavora nei cantieri? Date un’occhiata e vi rendete conto, altro che montanari improvvisati. E li pagano pure..Allora voi pensate, in Italia, dico: in Italia, che perdano tempo a far fare i patentini a chiunque voglia farsi un giro in montagna? ma via! faranno molto prima a vietare qua e la qualcosa ( alt: non troppo! perche in montagna girano un sacco di soldi: le funivie devono andare, i ristoranti e i rifugi pure, gli accompagnatori anche, gli hotel devono riempirsi e tutta quella gente, i turisti, deve andare nelle località turistiche no? Sennò come campano tutte le attività?Allora succederà soltanto, che a fare le cose più impegnative, tipo roccia-ferrate ecc metteranno le assicurazioni obbligatorie, cosi qualcun altro ci fa altri soldi. Se poi gli alpinisti, escursionisti, mountain bikers, o fungaioli continueranno a farsi male, beh, peccato, ma le autorità saranno apposto e le assicurazioni pure, il turismo anche. Fa schifo? Benvenuti nel nostro mondo. sarebbe bello educare la gente, e una minoranza ci riesce anche, bravi continuare, ma le percentuali preparati-impreparati, sui grandi numeri non cambieranno: sempre un sacco di impreparati in giro. La massa deve andare in montagna e ci andrà sempre di più.
Intervento 19, la perfetta dimostrazione dell’adagio: “Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti”
@20 guarda che, come al solito, non hai capito niente. In primis non hai idea di quanto sia capillare il modello didattico del CAI, cioè delle sue Scuole: le trovi dal Brennero fino a tutto il Sud. In più ho già anticipato che accanto alla formazione CAI (che per me resta la più idonea, anche perché ha 100 anni circa di esperienza logistico-organizzativa) si possono prevedere altre iniziativa extra CAI, es Corsi privati, eventualmente tenuti da Guide ecc. Ovviamente vale un concetto territoriale: il tipo di di Trapani seguirà i corsi nella sua area e NON quelli organizzati in VdA. Magari andrà in VdA se vorrà formarsi anche in termini di alta quota, ghiacciai ecc, cose che presumibilmente a Trapani non trova.
In ogni caso, il dibattito per ora è a livello ideologico, a tavolino per così dire. Se Moro afferma l’opportunità della formazione, io aggiungo che, conoscendo i polli italici, è inutile prevedere un sistema di formazione alla montagna, se non metti poi una verifica con tanto di attestato. Se ci affidiamo alla libera scelta individuale, tanto vale lasciare le cose così come stanno. Ma le cose, così come stanno, non vanno bene, a tal punto che molto opinion leader (come in questo caso Moro) suggeriscono la formazione per “cambiare la cultura”, come specificato nel sottotitolo. Se ci aspettiamo di cambiare la cultura del cannibali senza “obbligarli” a farlo con tanto di documento finale che attesti la frequenza alla formazione… buona notte al secchio…
Anche in questa occasione, Crovella ha colpito nel segno, all’inverso però. Dimostrando di non aver minimamente analizzato le insormontabili difficoltà della sua proposta. Oltre alla questione etica, già sottolineata da altri interventi, c’è una questione pratica irrisolvibile: chi, quando, dove, su quali terreni, in quali stagioni, con quale meteo esamini i richiedenti patentino, che saranno milioni? Chi è di Trapani lo facciamo andare in valle d’Aosta per esaminare come si muove in ambiente innevato? E i milioni di turisti che provengono da tutto il mondo sulle Alpi dovranno passare per le forche caudine dei Crovella appena oltrepassato il confine? E i milioni di merenderos che ambiscono solo a mettere le gambe sotto al tavolo del rifugio? Anche quello è andare in montagna ed è sottoposto a tutti i rischi che ne derivano. Dai per favore, un po’ più di concretezza e meno sciocchezze.
@14 per sintesi spesso utilizzo il termine “alpinisti” per indicare un concetto molto più ampio, ovvero i “frequentatori della montagna”: alpinisti in senso stretto, escursionisti, scialpinisti, ripidisti, byker, runner… cioè tutti quelli che si recano in ambiente montano.
In molti interventi, ho mille volte specificato l’uso specifico che faccio del termine “alpinisti” (come sopra definito): lo faccio per non rubare altro spazio al Blog. Come può constatare l’autore del 13, ogni volta occorrerebbe ripetere tutto da zero. Se salto un piccolissimo passaggio, c’è sempre qualcuno che chiede spiegazioni…
Circa la valutazione del 10% maturo fra gli alpinisti, essa avviene attraverso semplice osservazione da parte di un individuo che ha 40 anni di formazione alla spalle. Un nostro “allievo” (che magari ha fatto il corso 30 anni fa) io lo riconosco da distante, prima ancora di riconoscerlo come persona attraverso i lineamenti del viso. Ma vedo come cammina, come si muove, come mette i piedi, che zaino ha, come è vestito, che orario sta rispettando, che itinerario sta seguendo ecc ecc ecc. Si comporta così perchè è stato “formato” secondo i criteri CAI, che dovrebbero essere applicati da TUTTE le scuole CAI, non solo dala scuole torinesi…
Viceversa quando vedo gente che parte dall’auto alle 5 del pomeriggio, che calza le infradito su ghiacciaio, che non hanno la pila nello zaino, che non si lega come Dio comanda… ebbene li codifico a vista come cannibali. E purtroppo sono oggi la stragrande maggioranza di chi frequenta la montagna (“alpinisti” come sopra definiti). Magari volteggiano sull’8c, ma come approccio mentale sono indiscutibilmente dei cannibali. E sarebbero i primi a necessitare di corsi di formazione, tenuti dal CAI o non dal CAI. Invece proprio perché fanno (per talento naturale) l’8c, hanno una ribellione congenita a iscriversi ai corsi e, di conseguenza, non si “elevano” dal loro status di cannibale. Sono questi gli individui che generano la conclusione di cui al mio commento immediatamente precedente.
Claudio, forse qui trovi qualcosa.
Se no, dimmi.
https://gognablog.sherpa-gate.com/il-volume/
@13 Il disco rotto dipende dal fatto che ogni volta ci possono essere lettori/ascoltatori che sono al loro primo passaggio: è a loro che mi rivolgo e quindi “spiego” pazientemente le cose da zero.
D’altra parte, visto che a livello di politica nazionale siamo in campagna elettorale, coloro che tengono i comizi (o interventi televisivi o interviste ecc), mica cambiano parere ogni giorno. Il candidato XY ieri a Catanzaro ha esposto i suoi concetti e i suoi programmi, oggi a Udine dice le stesse cose (sennò che credibilità ha?), domani a Torino ripeterà le stesse identiche cose… Per cui il mio disco rotto è addirittura garanzia di coerenza e univocità di pensiero.
Sui temi di montagna, se mi segui anche oltre il Gogna Blog, io ho una posizione univoca : articoli (qui e altrove), libri, interviste, conferenze ecc hanno contenuti coerenti, sennò che posizione ideologica sarebbe la mia???
A te il disco appare “rotto” (cioè ti infastidisce) solo perché espongo idee che non ti piacciono, ma ti assicuro che ci sono numerosi altri che invece condividono dette idee e applaudono la mia attività di diffusione di tale impostazione ideologica.
Circa i Corsi CAI, perdonami ma visto che mi fai una esplicita domanda, mi devi concedermi di ripetere cose che dico strutturalmente (e qui casca l’asino: se mi accusi di essere ripetitivo e noioso, perché devo rispiegarti concetti che ho già espresso mille volte – anche qui sul Blog???). Cmq sul tema Corsi CAI io non condivido la valutazione di scarsa appetibilità. Anzi a Torino, dove abbiamo numerosissime Scuole CAI (molte delle quali sono di primaria importanza a livello nazionale) i Corsi sono affollatissimi, anche da giovani e giovanissimi. Molto spesso le iscrizioni on line si chiudono in meno di due minuti: sold out immediato. Abbiamo diversi Gruppi giovanili, molto attivi e dinamici, che preparano i ragazzi (circa 11-17 anni), per cui la richiesta per i successivi corsi, quelli da “adulti”, è sempre superiore alla disponibilità. E’ un cruccio per noi “dirigenti” (attivi o ideologici), perché vorremmo poter coinvolgere molte più persone, ma sinceramente ci sono proprio dei limiti oggettivi. Infatti abbiamo Scuole con organici istruttori da oltre 50 persone (molti sono titolati o addirittura Accademici), più di così cosa possiamo fare??? Solo in città abbiamo 3 Scuole di alpinismo e 2 di scialpinismo, cui si aggiungono le Scuole dell’hinterland (di scialpinismo arriviamo a circa 10), copriamo tutte le possibili attività che si svolgono in montagna, dall’arrampicata libera al dry-tooling, dallo sciescursionismo allo snowboard alpinismo, coinvolgendo ovviamente tutto l’escursionismo (estivo e invernale-ciaspole). Tutti, tutti, sottolineo TUTTI, i corso CAI della nostra area registrano SEMPRE il sold out delle iscrizioni. Per cui il concetto di “rendere più attraenti i corsi CAI” a me è del tutto sconosciuto. Inoltre la gente rimane nell’ambiente delle Scuole anche dopo aver terminato i corsi, spesso le Scuole sono contesti dove nascono amicizie pluridecennali e sono efficacissime “agenzie matrimoniali” per unioni durature di tutta la vita, anche perché basate sulla condivisione della passione per la montagna.
Può darsi che Torino sia un’isola felice. Ma sinceramente, in oltre 40 ani da istruttore titolato, ho gironzolato anche in mille altre scuole CAI, sia piemontesi che di altre regioni, sia di grandi centri metropolitani (es Milano) che in piccole località. Io ho sempre e solo visto gruppi umani molti attivi, allegri, attraenti, dove si va non solo per imparare ma anche per divertirsi insieme e conoscere nuovi amici… se l’immagine che offre un ambiente è “positiva”, non può che attirare nuovi proseliti, specie se giovani.
Ed è qui che voglio arrivare: chi (giovane o vecchio, poco rileva) trova il CAI noioso, istituzionalizzato, burocratico, pachidermico… e nel CAI nel suo insieme ci mette dentro anche i Corsi CAI, è perché è “prevenuto” verso il CAI. Poco possiamo fare, noi “caiani”, per correr dietro a chi NON vuole proprio far parte delle nostre fila, sia come associazione che come attività formativa. I “non caiani”, che siano 15enni o 90enni, dicono “che scifo il CAI” a prescindere e lo dicono in particolare per l’eventuale coinvolgimento formativo. Cioè c’è una ribellione aprioristica. E io ho verificato che spesso quelli che poi vanno in montagna alla “cappero” (i famosi “cannibali”, come li si chiama in un certo gergo da me praticato) sono quelli che hanno una ribellione aprioristica verso tutto e verso tutti: ribellione verso le regole, verso gli obblighi, verso le verifiche, verso il rispetto nei confronti dell’ambiente e degli altri, ecc ecc ecc. A questi, ai cannibali ribelli, è inutile che noi caiani perdiamo tempo a correre dietro… tanto non vorranno MAI fare corsi CAI per partito preso. Però, proprio per mancanza di adeguata formazione, spesso questi cannibali ribelli sono degli squinternati sia in montagna che nella vita tout court, e in montagna sono quasi sempre quelli che finiscono per trovarsi nei pasticci.
Il punto è (concedimi di ripetermi nella conclusione…) che per colpa di questi squinternati, purtroppo crescenti di numero in modo esponenziale, eventuali interventi restrittivi delle autorità coinvolgeranno TUTTI gli alpinisti, compresi quelli maturi e ben formati. Ecco perché abbiamo interesse far sì che riducano la loro presenza in montagna.
Eccerto che è così!!
Lo stile Cina vogliono fare.
completamente d’accordo.
Quante volte da bimbetti ci siamo sbucciati ginocchia e testa ?? O giocando con archi, frecce e fioda abbiamo anche rischiato di più e qualcuno si è fatto anche molto male? Molte volte!!
Quindi di che si parla ?!?!
Impariamo ad assumerci le proprie responsabilità.
Il terreno d’avventura è avventura, la natura deve essere natura vera.
Altrimenti te ne stai sul divano a rimbarbirti col mertaverso.
La domanda è: quanti alpinisti “maturi” si vedono in giro oggi? Io ne vedo pochissimi, meno del 10%. A giudicare dai fatti di cronaca la sensazione è che si concepisca la montagna proprio come il contesto dell’assenza di regole autocontenitive.
Fatta la tara a tutto il resto, mi pare che qui si pongano 2 problemi.
Uno semantico, di definizione: cosa è un’alpinista, da cosa è definito e come lo si riconosce.
A seguire il secondo problema sono i dati di riferimento.
Da dove viene quel 10%?
Quali sono i fatti di cronaca citati?
La mia sensazione è che gli alpinisti (a eccezione degli scialpinisti) siano decisamente calati in numero negli ultimi 30 anni e che sia calato anche il livello medio delle loro realizzazioni: per verificarlo basta andare a vedere quante poche ripetizioni hanno molte vie classiche un tempo superfrequentate.
Ma non mi pare proprio che il numero medio o la percentuale degli “sprovveduti” sia aumentata, anzi!
Il problema credo sia nella tipologia di frequentatore medio della montagna, che è aumentato in numero e molto peggiorato in qualità, ma non è in nessun modo assimilabile a un alpinista.
A meno che si abbia tanta, tanta insopprimibile voglia di regolamentare, legiferare, irregimentare e reprimere.
1) lorenzo merlo (numero 8): grazie, quello che scrivi è molto interessante (leggerei anche un approfondimento, se possibile).
2) Crovella (numero 9): è inutile rimestare sempre le stesse cose, come un disco rotto. Scrivi: “c’è un altro fenomeno (…) che si gioca sopra le nostre teste: la società sicuritaria, proprio perché punta a garantire la sicurezza (…) (?!) non può non adottare un ferreo controllo (che è esattamente quello che proponi tu, peraltro!) quindi (…) il trend è ben chiaramente indirizzato >> infatti, dico io, bisogna opporsi a questo trend, e di conseguenza: no lasciapassare, no patenti, no divieti indiscriminati ecc.
Poi, a parte la fallacia che è alla base del tuo ragionamento, parti proprio da un punto di vista reazionario che non posso condividere, poiché dove scrivi “conoscendo i nostri polli italici” trasudi sfiducia nelle persone. Io invece credo nell’auto-organizzazione, “la convinzione che gli esseri umani non hanno bisogno di essere minacciati con sanzioni per essere in grado di giungere a ragionevoli intese gli uni con gli altri, o per trattarsi a vicenda con dignità e rispetto” (David Graeber) >> forse similarmente si potrebbe parlare dell’abilità di muoversi in sicurezza nell’ambiente naturale (e qui, mi pare, si potrebbe innestare il discorso di lorenzo merlo), abilità che però non si insegna inculcando regole e partendo comunque dal concetto che la persona che hai davanti è un “pollo italico”.
Ripeto, è inutile che continui a ripetere le stesse cose: quello che vuoi dire si è capito. Piuttosto, siccome se ho capito bene sei un formatore CAI di pluridecennale esperienza, rispondimi su questo punto: non credi che i corsi del CAI dovrebbero essere più attraenti, soprattutto per i ragazzi?
Experience is simply the name we give our error
vale in qualunque attivita’ della vita, ancora di piu’ in montagna.
un corso, un amico che ti porta qualche volta, pure uno ”bravo” che ti scorrazza aggiro per anni, sono solo un punto di partenza per una frequentazione consapevole della montagna.
ognuno deve fare i propri errori per imparare veramente
(idealmente tanti, ma non troppo grandi…)
figurati te quanto ”il patentino” potra’ risolvere i problemi
(se non quelli del portafogli del certificante di turno…)
in paesi piu’ civili, esiste il concetto di Terrain d’aventure
che libera amministratori e proprietari di terreni da responsabilità legali.
in questi paesi, quando tentazioni securitarie appaiono, si risponde cosi’:
https://www.montagnes-magazine.com/actus-tribune-montagne-doit-rester-espace-liberte-face-tentation-tout-securitaire
firmato non solo dal GHM (qualcosa di simile lo scrisse il CAAI)…ma anche da CAF intero, Guide…fino al sindaco di Chamonix.
La cultura dello ”spazio di liberta’ ” non e’ quella di 4 anarchici, come la descrive Crovella, ma quella di una bella fetta di popolazione che ambisce, ancora, a spazi dove la natura sia padrona.
p.s.
io, personalmente, leverei il soccorso, e affiancherei al concetto di Terrain d’aventure quello di E mo’ so cazzi tua
…ma visto che il soccorso e’ storicamente nato ”da alpinisti, per alpinisti” ne posso capire l’esistenza.
e siccome siamo abbastanza caritatevoli dal soccorrere/curare tossicomani/alcolisti/schumacher_de’_poveri/obesi_volontari/tabagisti/etc., condivido il fatto che debba rimanere gratuito, indipendentemente dalla colpa/negligenza del malcapitato.
e lo dico da persona che ha fatto 3 corsi CAI e per un certo periodo ho fatto anche da aiuto istruttore… Quindi penso che si, la formazione va bene su base volontaria, ma è proprio l’esperienza e il buon senso che devono prevalere.
Per richiamare un classico: il patentino è una cagata pazzesca.
Mi trovo completamente d’accordo con la redazione e con il commento n. 5
E’ ovvio che il modello ottimale è quello imperniato sull’autoregolamentazione individuale: l’alpinista maturo “sa” quando, come e dove fare gite. Sa stare a casa, quando le condizioni lo impongono. Non ha bisogno di certificazioni, né di autorizzazioni. La domanda è: quanti alpinisti “maturi” si vedono in giro oggi? Io ne vedo pochissimi, meno del 10%. A giudicare dai fatti di cronaca la sensazione è che si concepisca la montagna proprio come il contesto dell’assenza di regole autocontenitive.
Il combinato disposto fra l’enorme esplosione numerica dei frequentatori della montagna (dal 2000 circa in poi) e il drastico peggioramento del quadro ambientale (che ha notevolmente esasperato i pericoli oggettivi) rende necessaria la formazione, anzi essa è molto più necessaria del passato. Ma, conoscendo i nostri polli italici, se lasciamo la scelta della formazione a singole decisioni individuali, proprio quelli che ne avrebbero più bisogno non la adotteranno, “per partito preso”. Chi vede nella montagna il regno della libertà sfrenata, non si piega al passaggio della formazione, si ribella a priori.
Va benissimo lasciare che la montagna sia il regno dell’autonomia più indiscussa. Però, vista l’aria che tira fra gli attuali frequentatori, mettiamo in conto la crescita esponenziale degli eventi di cronaca dal contenuto negativo (morti, feriti, dispersi…). Basta che ci accordiamo e non strilliamo, a posteriori, alla montagna assassina…
Da “ferreo” formatore pluridecennale quale sono, io non posso che ritenere più adeguata la scelta antitetica: formare tutti, obbligatoriamente. E, purtroppo, un attestato finale non può che essere l’unico elemento che certifichi l’avvenuta formazione. Chiamatelo diplomino, chiamatelo patentino, chiamatelo pass… la definizione è solo una convenzione.
Al di là della mia preferenza individuale sul piano ideologico, c’è un altro fenomeno che sfugge ancora ai più e che si gioca sopra le nostre teste. La società sicuritaria, proprio perché punta a garantire la sicurezza a tutti e ovunque sul territorio, non può non adottare un ferreo controllo di chi agisce in ogni momento. Quindi, al di là delle nostre preferenze individuali sul piano ideologico, il trend è ben chiaramente indirizzato verso un modello che stringerà sempre di più le ganasce. Ordinanze restrittive, divieti per motivi ambientalistici, numero chiuso, obbligo di prenotazione… ecc ecc ecc non sono che escamotage, anche un po’ ipocriti, per scremare gli accessi. A questo punto non è più schietto il modello della patente? Almeno si sa chi piò e chi non può andare in montagna. Oggi invece apparentemente si dice a tutti che possono andare e poi si mettono bastoni fra le ruote in termini burocratici. La conseguenza è che tali impicci coinvolgono indistintamente tutti, compresi gli alpinisti maturi.
Fermo restando che a mio parere il modello più adeguato è far tornare la montagna scabra, spartane, scomoda: la massa non ama la scomodità, si indirizzerà verso altri lidi, per cui non avremo bisogno né di patentino, né di altri meccanismo di regolamentazione degli accessi…
La questione è profonda.
Il punto 1 è scoprire che si può osservare il proprio comportamento.
Che si può scoprire quando ci muoviamo tenendo conto dell’interlocutore e quando invece avanziamo concentrati soltanto su quanto vogliamo affermare.
Col punto 1 consolidato, muoversi attraverso la relazione diviene una modalità disponibile. In essa, quando viene a mancare, risiede la consapevolezza della nostra responsabilità su tutto.
Di pari valore è anche la consapevolezza del corpo-proprio, per usare un gergo psicomotorio.
Un altro pozzo d’infinita profondità formativa che la scuola italiana non ha mai assunto, lasciando a qualche consapevole insegnate di educazione fisica l’inziativa per le proprie classi.
L’educazione psicomotoria dovrebbe essere la prima materia, non l’ultima. Vai a dirlo al corpo docenti di un qualunque liceo.
“Se vuoi guidare un automezzo, devi avere la patente, che prendi dopo apposito esame”
Beata ingenuità. Quanti automobilisti regolarmente patentati che non rispettano nessuna regola, e quanti imbranati e quanti incidenti. In uno stato, del resto, che non ha neanche le risorse per far rispettare il codice della strada, si vuole forse codificare il “sano andar in montagna”, mettere in atto un sistema di controlli, cos’altro? “Favorisca patente e apra lo zaino: ce l’ha il telo termico?”
Per quanto riguarda i divieti, poi, il discorso è simile: come dice giustamente Paolo Gallese, il divieto è lì a tutela di un’amministrazione, non a tutela della sicurezza dell’alpinista. Infatti nessuno controlla niente. L’importante è che il cartello sia lì, esposto.
Giusto dunque parlare di formazione, che non sia ridotta però a enunciati di regole e codici comportamentali. Mi interessa quello che scrive lorenzo merlo (numero 4) su “modalità di relazione vs. modalità di affermazione”: è giusto, ma come insegnarlo, specialmente ai ragazzi?
Nel mio piccolo, mi limito ad osservare che certe guide dovrebbero essere più guide e meno commercianti (“sicurezza garantita” e “finire la giornata, magari fermandosi su una spiaggia per un bel tuffo e un aperitivo al tramonto”, roba che è stata promossa quattro giorni fa da questo blog), mentre il CAI potrebbe forse rimodulare la propria offerta pensando di più ai giovani (e mi vengono in mente certi istruttori di scialpinismo che intimano a ragazzini molto più bravi di loro a sciare di “rallentare”, per dire).
Che bello! finalmente una proposta nuova e sensata , una novità assoluta ,un piccolo ma necessario sacrificio di pochi in nome e a favore dell’ intero mondo , salvare il pianeta e forse la galassia .
Non vedo l’ora che nelle località montane si sfruttino i genitali(avevo scritto geniali ma rileggendo ho apprezzato il T9) banchi a rotelle e si riempiano le aule di futuri alunni del sole e delle rocce , prima però ci dobbiamo dividere al solito per chiarire una volta per tutte chi farà parte del fondamentale corpo docente e speriamo anche decente.Quale metrica e maniera adottare?Dilemma…Personalmente mi orienterei verso Monte/ssori sperando non costi troppo ma capisco che in tempi bui e freddi come questi il metodo Metropolis di F.Lang sarà preferibile per le moltitudini di alpipatentatialpinisti all’ orrizzonte.
Insomma si farà a capate come al solito.
Un caro saluto a tutti.
Immaginiamo per un attimo che queste benedetto patentino venga istituito. Quanto tempo passerebbe prima che una tragedia imponderabile coinvolga un bel gruppo di neopatentati? Poco perché la montagna è fatta così.
A quel punto saremmo daccapo. Anzi no. A quel punto, constatato che nemmeno il patentino può evitare gli incidenti, non rimarrebbe che fare l’ultimo passo e vietare sistematicamente certe attività, in certi luoghi, in certi periodi. Questo è l’unico percorso logico che potrebbe instaurarsi una volta reso obbligatorio il patentino.
Tanto del valore dell’andare per monti, almeno per me, deriva proprio dalla consapevolezza che in montagna si può sbagliare. Si tratta di qualcosa di intrinseco alla frequentazione della montagna che nessun patentino può annullare.
La guida di un veicolo implica il rispetto rigido di tante regole che non lasciano spazio all’interpretazione del singolo. Accettiamo di seguirle per tutelare la nostra incolumità e quella degli altri, usufruendo di un servizio essenziale nella nostra quotidianità. Sarebbe possibile regolamentare allo stesso modo la frequentazione delle montagne? No, anche perché di andare in montagna non ce lo prescrive il medico.
Leggo che Guide e Cai potrebbero formare opportunamente.
La loro azione, la loro politica era e credo sia quella di formare tecnicamente.
Non ho mai sentito in nessuna loro politica, il principio che “è il terreno a dire la verità”.
Senza una modalità di relazione, con la modalità di affermazione il terreno resta un oggetto sul quale consumare passione e tempo libero. La concezione fa il mondo.
Siamo lontani poi dalla natura come organismo. Siamo ancora al rispetto della natura e all’ecosistema fragile. Pecette che non spostano la cultura consumistica, tranne per una carta buttata in meno.
Fate l’inchino, passa il Progresso.
Dice bene Gallese si chiude per salvare la responsabilità delle amministrazioni. Ma un cambiamento di cultura in senso ampio richiede decenni. Più semplice un cambiamento in senso limitato, chi va in montagna lo fa a suo rischio e pericolo, passasse dal punto di vista giuridico questa minima ovvietà il problema sarebbe risolto o reso intellegibile a chiunque.
Premetto di essere d’accordo con la redazione. Sono contrario a qualunque forma di patente. Anche perché, diciamolo, il CAI o chi per esso può darmi le nozioni e la pratica di alcune tecniche, ma non potrà mai darti l’esperienza necessaria che si acquisisce negli anni. E l’ambiente montano è così vario e caotico che nessun corso ti può preparare. Al massimo può sensibilizzarti a una condotta, ma la cosa finisce qui.
La responsabilità è il vero problema, una dimensione cui la società ci sta disabituando a meno che non si tratti di soldi. E la falsa immagine di una Natura che ci stiamo costruendo.
Per quanto riguarda i divieti c’è a mio parere un’incomprensione di fondo del problema: le autorità chiudono non perché stia a cuore la nostra “sicurezza”, bensì la loro. Un amministratore, in questa società burocratica e iper normata, rischia continuamente il sedere, quindi chiude per quello, aggravando il contesto di comprensione del vero problema, che è culturale.
Sarebbe ora di cominciare a parlare di montagna per quello che è, ma questo cozzerebbe con l’immagine da luna park che tanto denaro porta ad un’economia in perenne sofferenza, da quando è diventato difficilissimo proseguire le attività tradizionali.
È un problema che, onestamente, io, piccolo alpinista da due soldi, non saprei come risolvere.
Nel mio piccolo, lavorando con le scuole, posso solo fare la mia parte nel tentativo disperato di aumentare la cultura necessaria. Una lotta difficile, spesso complicata dall’arrivo pachidermico di enti come il CAI, che spazzano tutto con la forza del nome.
E qui si ritorna al tema dell’esperienza, che ho imparato da grandi vecchi, lontani dagli enti. O sulla mia pelle.