La questione della via ferrata del Cabirol è ben nota ai lettori di GognaBlog. Si vedano eventualmente:
27 aprile 2016: https://gognablog.sherpa-gate.com/le-indagini-sulla-via-ferrata-del-cabirol-capo-caccia/
22 giugno 2016: https://gognablog.sherpa-gate.com/accompagnare-in-sardegna/
2 dicembre 2016: https://gognablog.sherpa-gate.com/qualche-riga-sulla-via-ferrata-del-cabirol/
15 dicembre 2016: https://gognablog.sherpa-gate.com/esercizioabusivo-in-montagna/
16 maggio 2017: https://gognablog.sherpa-gate.com/lotta-continua-capo-caccia-dintorni/
13 ottobre 2017: https://gognablog.sherpa-gate.com/sardegna-ferrata-selvaggia/
Il Gruppo d’Intervento Giuridico, dopo aver accertato al di là di ogni dubbio l’assoluta mancanza di autorizzazioni, si domanda ora:
Lettura: spessore-weight**, impegno-effort**, disimpegno-entertainment**
Che fare di una via ferrata senza autorizzazioni?
a cura del GRIG (Gruppo d’Intervento Giuridico Onlus)
(già pubblicato su gruppodinterventogiuridicoweb.com il 5 dicembre 2017)
Dalle richieste di informazioni ambientali effettuate (26 aprile 2016, 15 ottobre 2016) dalle associazioni ecologiste Gruppo d’Intervento Giuridico onlus e Mountain Wilderness Italia è emerso che la Via Ferrata del Cabirol, sulle falesie di Capo Caccia (Alghero), non è munita di alcuna autorizzazione, di alcun genere [1].
Come tutti sanno, la parete rocciosa di Capo Caccia è tutelata con specifico vincolo paesaggistico (decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.), mentre la fascia dei mt. 300 dalla battigia marina è tutelata con specifico vincolo di conservazione integrale (legge regionale n. 23/1993). Rientra, inoltre, nella zona di protezione speciale – ZPS ITB013044 e nel sito di importanza comunitaria – SIC “Capo Caccia (con le Isole Foradada e Piana) e Punta del Giglio” (codice ITB010042) ai sensi della direttiva n.92/43/CEE sulla salvaguardia degli habitat e nel parco naturale regionale “Porto Conte” (leggi regionali n. 31/1989 e s.m.i. e n. 4/1999). E’, inoltre, contigua all’area marina protetta “Capo Caccia / Isola Piana”.
Non si può che ricordare che, solo due anni fa (16 novembre 2015), il Corpo forestale e di vigilanza ambientale, “su segnalazione del direttore del Parco naturale regionale di Porto Conte”, aveva “deferito all’Autorità giudiziaria un giovane, appassionato di sport estremi di alta quota, per aver deteriorato, in concorso con altri in via di identificazione, le falesie rocciose del Promontorio di Capo Caccia, nel Parco di Porto Conte. Le falesie si trovano infatti all’interno di un sito protetto dalla Direttiva comunitaria habitat e nel Sito di importanza comunitaria ‘Capo Caccia e Punta Giglio’ e sono quindi tutelate da diversi vincoli di natura ambientale. Il personale forestale della Stazione e della Base navale di Alghero ha contestato al giovane di avere realizzato, senza alcuna autorizzazione, diversi fori nelle falesia del promontorio per inserirvi dei cilindri di metallo ad espansione, piastrine e bulloni di ancoraggio attraverso cui tendere nel vuoto una fettuccia elastica per praticare lo slacklining. Tra le ipotesi di reato, oltre quelle sanzionate dall’articolo 733 bis del Codice penale per deterioramento di habitat in aree protette, sono state contestate le violazioni alle norme di tutela del Parco che vietano attività e opere che possono compromettere la conservazione del paesaggio e dell’ambiente naturale”.
In parole povere, per realizzare opere simili bisogna avere preventivamente le necessarie autorizzazioni ambientali. Soprattutto quando vengono realizzate in aree di elevato interesse naturalistico.
Sembrerebbe ovvio, no?
Gabbiano reale (Larus michahellis)
Al Gruppo d’Intervento Giuridico onlus non interessano minimamente diatribe in proposito fra arrampicatori su roccia, scalatori, alpinisti o chiunque altro come emergono dai social network per ragioni sconosciute e irrilevanti ai fini della salvaguardia di un ambiente straordinario e unico.
Interessa, invece, che questi interventi di “turismo attivo”, come li si voglia definire, che portano guadagni a chi accompagna comitive e gruppi, siano rispettosi delle normative di tutela ambientale – e conseguentemente autorizzati – e che la loro fruizione si svolga in condizioni di assoluta sicurezza.
Interventi, come le vie ferrate, piuttosto diffuse nell’Italia settentrionale, sembrano ormai moltiplicarsi in Sardegna, come recentemente sarebbe avvenuto a Tavolara (Via Ferrata degli Angeli) e al Pan di Zucchero di Nebida (Sentiero dei Minatori), ambedue aree di grande rilievo naturalistico e tutelate con vincoli ambientali.
Sono interventi autorizzati? Da chi e con quali atti?
In assenza di autorizzazioni ambientali e urbanistico-edilizie sull’Appennino Parmense è stata posta sotto sequestro preventivo (maggio 2015) la Via ferrata del Monte Trevine.
Alghero, Capo Caccia, Punta Cristallo
Stupisce, piuttosto, per quanto è dato vedere, il sostanziale lassismo da parte delle amministrazioni pubbliche coinvolte, Regione autonoma della Sardegna in primo luogo: le associazioni ecologiste Gruppo d’Intervento Giuridico onlus e Mountain Wilderness Italia hanno recentemente sollecitato (24 novembre 2017) le amministrazioni pubbliche competenti ad adottare i provvedimenti di legge riguardo quanto emerso sulla Via Ferrata del Cabirol, auspicando definitiva chiarezza sulla reale situazione, sia con l’obiettivo della salvaguardia ambientale sia per garantire la sicurezza a escursionisti e fruitori di Capo Caccia.
Nota 1
[1] Precisamente:
* con nota prot. n. 4518 del 3 maggio 2016 la Direzione generale dell’Agenzia regionale del Distretto idrografico della Sardegna (Servizio Difesa del suolo) ha comunicato che “l’intervento … ‘Ferrata del Cabirol’ insiste su un’area caratterizzata nella cartografia vigente del Piano di Assetto Idrogeologico (PAI) da una pericolosità molto elevata da frana di livello Hg4. Tale livello di pericolosità è stato determinato nell’ambito dello ‘Studio di dettaglio e approfondimento conoscitivo della pericolosità e del rischio di frana nel sub-bacino n. 3 Coghinas-Mannu-Temo. Progetto di variante generale e di revisione del piano di assetto idrogeologico della Regione Autonoma della Sardegna’, adottato in via definitiva con Delibera del Comitato Istituzionale dell’Autorità di Bacino n. 1 del 16.06.2015. Il livello di pericolosità da frana molto elevato Hg4 dell’area era comunque già vigente nella cartografia PAI precedente, la cui prima approvazione delle Norme di Attuazione risale alla Deliberazione della Giunta Regionale, in qualità di Comitato Istituzionale dell’Autorità di Bacino, n. 54/33 del 30.12.2004. Allo stato attuale, non risulta a questo Servizio alcuna istanza di presentazione di uno studio di compatibilità geologica e geotecnica dell’intervento in questione, ai sensi dell’art. 23 delle Norme Tecniche di Attuazione del PAI. Si specifica che, a seguito dell’approvazione della L.R. n. 33 del 15 dicembre 2014, la competenza relativa all’approvazione di tale studio è attualmente attribuita ai Comuni”. La Direzione generale dell’Agenzia regionale del Distretto idrografico della Sardegna (Servizio Difesa del suolo) ha nel contempo chiesto riscontro al Comune di Alghero – Ufficio tecnico;
Gabbiano reale mediterraneo (Larus michahellis). Foto: C.B., S.D., archivio GRIG.
* con note prot. n. 9297/PNM del 4 maggio 2016 e n. 22906 del 31 ottobre 2016 il Ministero dell’Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare – Direzione generale Protezione della Natura e del mare ha chiesto al Servizio Valutazioni ambientali (S.V.A.) della Regione autonoma della Sardegna, al Comune di Alghero e al Corpo forestale e di vigilanza ambientale (S.T.I.R. Sassari) informazioni in merito, “con particolare riferimento all’applicazione della Direttiva 92/43/CEE ‘Habitat’”;
* con note prot. n. 19611 del 17 maggio 2016 e n. 40686 del 20 ottobre 2016 il Servizio Tutela del Paesaggio di Sassari della Regione autonoma della Sardegna ha comunicato di aver chiesto ai competenti Servizi del Comune di Alghero informazioni in merito alle eventuali autorizzazioni paesaggistiche rilasciate in sede sub-delegata (definite “necessarie”), in quanto non risultano atti presso i propri archivi;
* con nota prot. n. 10188 del 24 maggio 2016 il Servizio Valutazioni Ambientali (S.V.A.) della Regione autonoma della Sardegna ha comunicato che “non sono presenti agli atti dello scrivente Ufficio procedimenti di valutazione ex art. 5 DPR 357/07 e s.m.i. in merito ad alcun intervento simile nella località di Capo Caccia, Alghero”;
* il Comune di Alghero (Servizio pianificazione ed edilizia privata), recentemente sollecitato (15 ottobre 2016), ha comunicato (nota prot. n. 40686 del 22 novembre 2016) “che agli atti dell’Ufficio non risultano istanze volte al rilascio di titoli abilitativi e di autorizzazione paesaggistica” e che, quindi, “per quanto di competenza, si provvederà all’avvio delle attività connesse alle funzioni di vigilanza sull’attività urbanistico – edilizia”.
2
Anch’io ritengo che se una cosa è illegale non va fatta e basta. Se poi fosse la legge a essere sbagliata, occorre battersi per cambiare la legge (e l’infrangerla dovrebbe essere al massimo l’extrema ratio!)
Nello specifico della ferrata del Cabirol a capo Caccia, poi, parrebbe che lo scopo dell’opera (assolutamente abusiva) fosse semplicemente procurare un po’ di lavoro da accompagnatore (altrettanto abusivo) al ferratore.
Non lo credo nemmeno io ma questo non può essere una scusa per giustificare certi atti illegali.
Un atto può essere illegale per colpa o per dolo. Le due cose hanno un peso diverso, Nel dolo c’è la volontaà. Nella colpa no.
E allora cosa vogliamo fare passarci sopra?
Così facendo, tanto non c’è malizia, chiunque potrà farsi la sua ferratina.
Che male c’è ?
Che fare di una via ferrata creata senza autorizzazioni?
Ci sono tante risposte, considerando in primis la natura, la storia e le motivazioni che hanno spinto qualcuno, credo esperto del luogo, a mettersi in gioco per un progetto tanto impegnativo.
Non mi è possibile pensare che una persona possa alzarsi un mattino e costruire una ferrata e per di più con lo scopo preciso di danneggiare l’ambiente; non è sensato che un essere ragionevole si carichi dell’onere di acquistare cavo, chiodi, ficconi ecc., che sul mare richiedono acciaio inox e quindi costosissimi, e faticare, azzardare così a lungo; fino a rischiare esposti, querele, condanne e dure critiche. No, mi rifiuto di pensarlo!
Vorrei per un attimo mettermi dall’altra parte: ma chi glielo fa fare?
Troppo spesso assistiamo a un abuso di parole, tante addirittura minacciose, altre addirittura mi limito poco buone, che invece, al contrario, possono essere utilizzate per raccontare, per dialogare e magari condividere, per trasmettere, per valutare se un progetto possa essere utile e non soltanto dannoso e da togliere di mezzo.
Quando poi le parole passano ad atti concreti di denunce, sanzioni e condanne bisogna stare molto attenti, perché si possono generare dei torti, delle profondo ingiustizie, insomma il male genera male.
A mio parere non bisogna vedere tutto come inquinante; ci vuole una via di mezzo. Mi spiego meglio: bisogna accettare anche dei compromessi per il bene comune. La vita insieme è fatta di tanti e piccoli aggiustamenti, ma è importante non solo accettare il disaccordo, ma anche cercare di mantenere un positivo livello di comunicazione.
Mi vengono spontanee delle riflessioni: perché non proviamo a mettere qualche fiore nel cannone valutando la possibilità di migliorare un tracciato già esistente, se veramente non danneggia l’ambiente e può essere un’opportunità, naturalmente coinvolgendo chi di dovere: proprietari dei terreni, Club alpino italiano, provincia, comuni e altri Enti.
In Dolomiti e anche nella famosa Valle del Sarca, quasi tutte le pareti frequentate hanno dei percorsi di discesa con cavi e gradini artificiali e che richiamano una marea di appassionati. Conosco qualche alpinista contrario ai sentieri attrezzati, alle vie chiodate con Spit e rese meno pericolose magari con qualche tronco d’albero per fermare le pietre pericolanti, ma poi ne sono ipocritamente frequentatori per scalare in sicurezza e rientrare agevolmente.
Non conosco la realtà delle vie ferrate, particolarmente quelle in Sardegna, ho esperienza invece di Angeli… scusate della via degli Angeli sull’isola di Tavolara che, come ho scritto nel mio precedente intervento proprio su questo Blog, ritengo molto bella e un’alternativa necessaria ai tanti sentieri che un tempo salivano in vetta e oggi purtroppo interdetti. Un percorso che, in parte, ha ripristinato quello antico “delle Scale”. Sì perché un tempo non così lontano su Tavolara esistevano più sentieri che salivano in cima: la via normale a Punta Cannone, il selvaggio percorso di Passo Malo, la “Via delle scale” fatto sparire dal tempo e dalla vegetazione per riapparire più recentemente con resti arrugginiti e abbandonati che qualche buon anima ha generosamente rimosso. Purtroppo i primi due itinerari partono dalla stradina, ora militare – zona preclusa – . E tutto ciò spiega la necessaria, utile, presenza di una via sull’infinito crinale di Tavolara, non soltanto per raggiungere la vetta con un panorama da mozzafiato, ma anche come via di discesa per gli alpinisti che salgono le numerose vie aperte sul versante mare. Il ritorno, per terra dalla magnifica scogliera, è complesso e stancante e quando, sotto la calura del sole, si raggiunge la ferratina degli angeli – un centinaio di metri di cavo indispensabili per superare alcuni salti verticali – credetemi è come incontrare un Angelo. Poi… per carità, di tutto si può fare a meno.
Ci sono tante risposte, considerando in primis la natura, la storia e le motivazioni… Tavolara, una piccola isola poggiata come da una mano misteriosa in un mare da sogno, un lembo di terra abitato, soprattutto nel passato e oggi, base militare a parte, spopolata per gran parte dell’anno.
Nel 1930 gli abitanti dell’isola contavano venti persone che costituivano quattro nuclei familiari, due insediati sullo Spalmatore di fuori e due sullo Spalmatore di terra. Nei primi anni quaranta sull’isola si verificò un primo aumento demografico, dovuto dapprima all’impiego di manodopera per il disboscamento per fornirsi di legna per i forni della calce, poi per la necessità di braccia per accudire all’aumento dei capi di bestiame (ovini, suini e bovini) e infine a effetti immigratori di famiglie ponzesi dedite alla pesca del corallo e dell’aragosta, allora abbondanti su tutta la costa.
Così, col passare del tempo, Tavolara diventò un appoggio abituale, quindi i ponzesi chiesero e ottennero dal proprietario dell’isola di potersi costruire delle casette nelle quali alcune famiglie di pescatori si stabilirono definitivamente. Nel 1952 il censimento registrò una popolazione di 61 abitanti. In quegli anni, visto l’aumento considerevole dei residenti, venne aperto un negozio di generi alimentari e commercio ittico ed il Provveditorato agli studi di Sassari compie il tentativo di aprire una scuola. Rimarrà aperta un anno soltanto, soprattutto perché le varie attività lavorative non permettevano ai giovani una regolare frequenza.
Racconta Italia Murru “regina di Tavolara” e mamma di Carlo, Tonino e Maddalena: “Piegavo la schiena davanti alle trenta fornaci. Alla fine degli anni quaranta cominciarono ad arrivare i pescatori ponzesi, con le loro famiglie. A Tavolara eravamo sessanta abitanti, c’era una drogheria, la tabaccheria di Augusto Molinas e pure la scuola per i bambini. Una stanza unica, coi banchi di legno e il tetto con un buco sopra la cattedra: era l’unico divertimento per i ragazzini, che non appena la maestra si accomodava, strisciavano sulle tegole e facevano pipì. L’ultima partita di calce l’abbiamo venduta nel ’54. Non si guadagnava più come una volta, così con mio marito ed i miei figli decidemmo di spegnere i forni”. Anche da Punta La Mandria dove ora sale la Via degli angeli salivano molti itinerari e di questi c’era testimonianza con vecchie scale e resti fortunatamente da qualcuno rimossi.
Negli anni settanta l’insediamento della base NATO nello Spalmatore di fuori allontanò le famiglie degli addetti al faro e i pastori con il loro bestiame.
Con il passare degli anni, la popolazione dell’isola diminuì sempre di più per il continuo esodo verso il vicino e più accogliente Porto San Paolo.
Sottoposta dal comune di Olbia a stretti vincoli per quanto riguarda l’edificabilità, l’isola non ha che pochissime case, le stesse da oltre un secolo, alcune abbandonate e decadenti. I sentieri, prima frequentati dagli abitanti o dai lavoranti della calce che li percorrevano per procurarsi le pietre o le piante per i forni, sono stati inghiottiti dalla vegetazione. Chi si reca sull’isola lungo la stradina delle calchere, da poco ripristinato, non può non rimanere colpito dalla situazione di degrado: la maggioranza delle case diroccate o restaurate in malo modo, cartelli di divieto, i forni della calce pieni di rifiuti di ogni genere, addirittura vecchi materassi stracciati nella vegetazione e ciò che colpisce sono le recinzioni dappertutto. Molti ecologisti, amanti della natura, si metterebbero le mani tra i capelli davanti a tale spettacolo.
Per contro, chi si avventura lungo questo sentiero che conduce a Punta La Mandria e alla contestata vai degli angeli non può fare a meno di godere di una vista unica sul mare e sulla costa, dei profumi del mirto, del rosmarino e delle tante specie di piante, alcune endemiche.
Da poco, grazie all’Area Marina, sull’isola c’è un altro interessante e bel percorso e chiunque si reca in questo luogo d’incanto può rendersene conto, godendo di una natura praticamente intatta: passeggiando dalla spiaggia di sabbia bianca dello Spalmatore di terra, fino a visitare il piccolo cimitero dove si trovano le tombe del primo re di Tavolara, e dei suoi discendenti e familiari. D’estate c’è anche un gazebo con esperti pronti a dialogare e informare il turista. Insomma qualcosa si sta muovendo e l’isola di Tavolara, meraviglia dell’umanità, per i suoi aspetti naturalistici, di collocamento, di clima e di storia, è sicuramente candidata, nonostante le limitazioni oggettive presenti, per uno sviluppo turistico-culturale in linea alle esigenze, agli usi, ai costumi e naturalmente all’ospitalità dei suoi pochi abitanti. E lo sviluppo di Tavolara, per le sue peculiarità, passa inevitabilmente anche attraverso l’escursionismo e l’alpinismo. E gli appassionati di montagna sono anch’essi strani “animali” che, seppur ospiti rapiti di un paesaggio di rara bellezza, per degli attimi ne diventano parte integrante.
Alcuni dei reati contestati seguiranno ormai il loro corso, si puo’ pensare forse a qualche rimedio amministrativo.
In particolare, per la violazione paesaggistica a condizione che sia stata contestata la violazione di cui all’art. 181, comma 1 (e non quella del comma 1-bis) del D.Lgs. 42/2004, sembra possibile suggerire un acceramento di “compatibilita’ paesaggistica” (art. 181, commi 1-ter e 1-quater del D.Lgs. 42/2004, reperibile su http://www.normattiva.it); richiesta in genere da presentare al Comune (in Sardegna e’ da vedere quale Autorita’ e’ competente, anche per la presenza di apposite leggi regionali). Se venisse accertata la “compatibilita’ paesaggistica” (che e’ cosa diversa dalla verifica di sicurezza geologico-tecnica, da accertarsi con apposita separata relazione, eventualmente contenente prescrizioni e proposte di opere di stabilizzazione) l’opera potrebbe permanere (per quanto attiene al solo profilo paesaggistico).
In assenza di “compatibilita’ paesaggistica” invece, e’ solo la rimozione delle opere (da perfezionare di intesa con gli Enti, se no si compie un altro reato, e comunque un compito dell’Ente competente e’ ordinare il ripristino dello stato dei luoghi – “rimessione in pristino”) che puo’ far estinguere il reato (art. 181, commi 1-quinquies del D.Lgs. 42/2004, sempre a condizione che sia stata conteststa la violazione di cui all’art. 181, comma 1 – e non quella del comma 1-bis – del D.Lgs. 42/2004).
Per quanto riguarda invece la realizazione di un percorso su terreno naturale e la sua fruizione, la normativa di riferimento e’ tutt’altra: si tratta di non arrecare disturbo ad habitat e specie protette della Rete Natura 2000. Il riferimento nazionale e’ il DPR 357/1997, ma ogni regione ha le sue norme applicative.
In ogni caso, occorrerebbe fare (prima della realizzazione della ferrata, a rigori, per cui alcune sanzioni resteranno, come per l’eccesso di velocita’ che lo paghi anche se dopo hai rallentato) una “valutazione di incidenza” dell’opera comprensiva di un’ipotesi di sua fruizione. Si verifica in buona sostanza quale effettivo danno viene arrecato a habitat e specie protette.
Se l’incidenza fosse nulla (ipotesi improbabile) l’opera potrebbe (per il profilo naturalistico – ambientale) permanere ed essere utilizzata. Se invece si accerta un certo grado di incidenza, la normativa prevede la possibilita’ di prevedere delle forme di “mitigazione”, ad. es. su diverse falesie italiane in zone protette il divieto di arrampicare in determinati periodi di nidificazione, oppure la delocalizzazione – spostamento di un tratto del percorso lontano da determinati habitat di specie animali o vegetali.
Quale e’ la pecca in tutto questo sproloquio ? E’ che per provare a fare tutte queste cose, anche a sanatoria, bisogna “averne titolo”, ad es. essere proprietari dei terreni; mentre qui chi ha realizzato la ferrata non ha verosimilmente alcun titolo ed ha trattato quei terreni come di nessuno, senza accordarsi con la proprieta’; di modo che chi ha veramente titolo a presentare le eventuali richieste e documenti risulta probabilmente “persona offesa” dalle violazioni: diventa tutto piu’ complicato. In ogni caso, e’ con la persona o Ente proprietario che occorre trovare ormai un accordo preliminare su come affrontare il problema.
Se quando furono scalate e chiodate le vie classiche delle Dolomiti i Grandi di quell’epoca poterono operare in un terreno vergine, d’avventura e per cosi’ dire “fuorilegge”, oggi non si puo’ prescindere, anche nella realizzazione di nuovi sentieri e ferrate (quali “minialterazioni” del territorio, potenzialmente impattanti anche perche’ mutano fortemente la frequentazione antropica) da un accorto approccio preliminare, che preveda l’ accordo formale con la proprieta’, la presentazione di diversi documenti agli Enti ed infine la paziente attesa di una risposta, con eventuale successiva fase di mediazione (ad es. per trovare una forma di mitigazione degli impatti, o per stabilire quali opere di messa in sicurezza geologico tecnica della parete sono da adottare).
In bocca al lupo
Che fare? Che facciamo noi piuttosto. Vedere per anni lo scempio delle norme violate in modo spudorato, l’ambiente naturale violato senza nessuna regola, le norme di sicurezza disattese (non ultimo gli abusi di professione) aspettando il morto, e non vedere nessun atto concreto (basterebbe andare là con un bel tronchese e tagliare i primi 100 metri di cavo per impedirne l’accesso e apponendo adeguati cartelli firmati dal sindaco, intanto) da parte delle autorità fa venire la depressione e lo sconforto nel constatare che questo paese è un totale disastro, dove i furbi la fanno sempre franca. Io mi sono stufato di leggere per anni, anni, che non succeda nulla di nulla. Allora hanno ragione i disonesti a fare quello che gli pare. Che fare quindi? Aspettiamo il morto, come sempre.
Come fanno i sindacalisti convinti: si potrebbero fare dei picchetti e fermare le attività “industriali”. Ma loro lo fanno per guadagnarci bene e i picchetatori idealisti no, quindi non so se funzionerebbe.