Sulle Orientali, la Nord della Ovest di Lavaredo e la Sud-est del Gran Pilastro di Rozes, così come sulle Occidentali, la Major e l’Innominata al Bianco, tutte di scalatori italiani, si affiancano degnissimamente alle grandi invernali realizzate dagli austriaci alla Sud-ovest della Marmolada nel 1950 e dagli svizzeri alla Peuterey sul Bianco nel 1948.
Grandi affermazioni dell’alpinismo invernale 1953
di Armando Biancardi
(da Scandere 1952)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(3), disimpegno-entertainment(3)
E’ un giovane di ventitré anni, quello che per primo sale alla ribalta delle grandi invernali 1953 con tre splendide scalate. Meraviglioso questo fuoriclasse fra i capicorda della nuova generazione, questo Walter Bonatti, operaio alle Ferriere Falk di Sesto San Giovanni, avviato alla difficilissima montagna diciassettenne appena!
Sulla parete nord della Cima Ovest di Lavaredo, dove ad opera della cordata Cassin-Ratti era stata aperta sin dal 1935 una delle più pazzesche vie del mondo dolomitico, in compagnia del coetaneo lecchese Carlo Mauri, che lo alterna nel comando della cordata, egli vi ha realizzato una formidabile prima invernale. Attaccando alle 9 del 22 febbraio e uscendo in vetta alle 12.30 del 24, l’impresa veniva concretata dopo 27 ore d’arrampicata effettiva ai limiti delle possibilità (beh, ma dove sono questi limiti…?) e due tremendi bivacchi. Nella prima giornata furono superati circa duecento metri di parete. Nella seconda, essi si trovarono impegnati a fondo con tratti di vetrato nella sezione già la più dura in condizioni estive, vale a dire, su una estenuante traversata ascendente lunga un centinaio di metri. Il terzo giorno, venne superata tutta la restante parete con ben maggiore andatura date le relativamente minori difficoltà.
Andrea Oggioni e Walter Bonatti
I bivacchi a venticinque sottozero, assicurati ai chiodi, su avare cornici in posizioni scomodissime e specie il secondo in condizioni spaventose, vennero effettuati pressoché in corrispondenza di quelli Cassin.
Ormai, «la quarta conquista delle Alpi», come appropriatamente l’ha chiamata l’amico svizzero Marcel Kurz, ha aperto nuovi orizzonti e nuove possibilità agli strenui ricercatori del nuovo e del sempre più difficile, esattamente gli stessi dell’alpinismo estivo.
L’invernale alla Nord della Ovest di Lavaredo, per essere stata concretata su via già classificata in condizioni estive di 6° superiore, dice chiaramente che anche a questa forma d’alpinismo, fra le più complesse, complete, terribili ed affascinanti, sebbene svolta generalmente in durissime condizioni, con neve ghiaccio e vetrato, giornate più corte e freddo intensissimo, equipaggiamento più pesante e più ingombrante, bivacchi a temperature rigidissime, nessuna difficoltà vi sia preclusa.
E’ solo quindi questione di qualche decennio, giacché nella stagione invernale molto raramente le condizioni della montagna sono ideali, ma anche questa conquista qui sulle Alpi, sebbene più lentamente, vi avrà sviluppo come quella estiva, pieno trionfo, declino e fine identici.
Per riposarsi, i due fenomenali giovani, tre giorni dopo sono sulla Comici-Dimai alla Nord della vicina Cima Grande. Con tale salita, siamo già alla ripetizione delle grandi invernali! Infatti la prima, è dovuta alla cordata condotta dal viennese Fritz Kasparek, uno dei vincitori della Nord dell’Eiger. Realizzata con Sepp Brunhuber il 20 marzo 1938, essa destò a suo tempo parecchia stupefazione, giacché allora ancor valutata di 6°, era la prima ad essere vinta d’inverno in Dolomiti. La via viene divorata dalla cordata Mauri-Bonatti in sole 9 ore e il bivacco evitato con un ritorno a doppie corde sotto il chiaro di luna.
Le ascensioni invernali sono tali, sinché vengono realizzate nella stagione invernale, cioè dal 21 dicembre al 21 marzo. Così come d’estate si scelgono le salite nelle loro miglior condizioni, sarà parimenti logico si faccia altrettanto e a ben maggior ragione d’inverno. Tuttavia, poiché d’estate molti alpinisti hanno invece trovato la salita in condizioni invernali e soprattutto viceversa, la discriminazione fra l’una e l’altra, dovrà essere fatta solo dal calendario. Più che le condizioni d’innevamento, ciò che massimamente differenzia le due salite, è la bassa temperatura e la breve durata delle ore disponibili di luce, cose queste, strettamente connaturate a una stagione che inizia e finisce con due date precise. Orbene, una vecchia tendenza era propensa a far considerare invernali anche le primaverili di fine marzo-prima metà (evviva la larghezza di vedute…) fine aprile. Ora però che le salite invernali si sono ben moltiplicate, sarà più logico risalire a un più corretto criterio restrittivo. Così come all’Everest, se vi saranno dei conquistatori con ossigeno, subito dopo incalzeranno dei nuovi per riuscirlo senza, così nelle invernali, se vi sono stati prima dei salitori più o meno primaverili, subito dopo vi saranno quelli indiscutibilmente invernali…
Il 20 e 21 marzo, ultimi giorni d’un inverno eccezionale per la siccità e la stabilità del tempo, Walter Bonatti ritorna sulla scena con la sua terza stupenda salita. E in compagnia del milanese Roberto Bignami, eccolo attaccarsi alla cresta di Furggen sul Cervino.
Dopo i primi tentativi di Giusto Gervasutti, Gabriele Boccalatte e Guido De Rege che risalgono al 1932, l’attenzione degli alpinisti e dello stesso Gervasutti ancora in seguito, volta all’attività invernale, s’era polarizzata nel gruppo del Cervino su quella cresta. Finché il 28 marzo 1948, gli svizzeri Raymond Monney e Jean Fuchs, dalla Capanna Solvay raggiunta il giorno prima dalla cresta dell’Hörnli, traversavano tutto il versante est per raggiungere la Spalla e la cresta predetta. Essi scalavano quindi gli strapiombi soprastanti e attingevano la vetta dopo una decina d’ore di lotta.
Si trattava d’una prima invernale? Francamente, secondo i criteri restrittivi suaccennati, no. Si trattava poi d’una via integrale e diretta? Per il fatto che la cresta non era stata percorsa dalla base alla vetta, e per il fatto che sugli strapiombi, superati i primi due, essi avevano deviato, non proprio. Solo Bonatti e Bignami quindi, nonostante i loro predecessori, colgono sulla Furggen, affermazione invernale piena e incontrastabile, con una spettacolosa avventura.
«L’alpinismo è lo sport ideale, il vero sport, lo sport vertice. E’ arte a confronto dell’artigianale», si afferma sui quotidiani sportivi commentando l’impresa dei due giovani.
Ci vogliono proprio dei giovani però, per bivacchi alla bella stella con meno venticinque e per strapiombi di 5° e 6° su abissi di migliaia di metri!
Dalle 4 del mattino alle 13.30, essi percorrono la cresta di Furggen sino all’attacco degli strapiombi a più di 4200 metri d’altezza. Di qui essi superano le prime forti difficoltà, che si fanno decisamente estreme su una placca d’una quindicina di metri, dove rintracciano una staffa della cordata francese di Louis Lachenal e Lionel Terray. Ancora qualche tratto superato direttamente e poi, raggiunta una serie di terrazzini, sono costretti dall’oscurità al bivacco. Sino a questo punto essi hanno seguito la via tracciata dai loro predecessori. Di qui, Luigi Carrel, Camillo e Arturo Pellissier, Alexander Graven e tutti gli altri s’erano spostati, gli uni verso destra, gli altri verso sinistra. Da questo punto invece, essi tirano su diritto, superando un forte strapiombo fessurato d’una decina di metri, già vinto la sera precedente, strapiombo dal quale avevano lasciato penzolare una corda per poterlo risalire più velocemente. Ancora un secondo pronunciato strapiombo d’un’altra decina di metri, dove si sgranano i soliti chiodi e le difficoltà toccano un deciso 5°.
Poi l’avventura può considerarsi chiusa. Essi non abbandonano più il filo di cresta sino in vetta per scendere infine dal versante dell’Hörnli. Con un percorso direttissimo, anch’essi in non più d’una decina d’ore, avevano vinto quegli strapiombi cui tanti alpinisti di fama avevano fatto inutilmente la corte.
Un’altra splendida e sbalorditiva realizzazione ci viene offerta verso la metà di marzo dai monzesi Andrea Oggioni e Josve Aiazzi. Essi s’attaccano alla via aperta nel 1944 dai cortinesi Ettore Vecio Costantini e Romano Apollonio, in ventidue ore di scalata effettiva e un bivacco, sull’impressionante Sud-est del Gran Pilastro della Tofana di Rozes, compiendovi la prima invernale.
La durissima impresa, anch’essa già d’estate ai limiti estremi delle attuali possibilità arrampicatorie, ha poco da invidiare all’invernale sulla Nord della Ovest di Lavaredo. Le due salite anzi, possono essere poste su un identico piano: su quella le difficoltà sono un po’ più forti, su questa, un po’ più continue. Con i suoi seicento metri d’altezza e i suoi cinque tetti, essa ha richiesto diciannove ore d’arrampicata effettiva, due bivacchi e una settantina di chiodi, impegnando i due arrampicatori per ben cinquantacinque ore complessive.
Siamo al terzo 6° superiore vinto d’inverno nel regno dolomitico. Ovest di Lavaredo e Gran Pilastro sono infatti i soli che in Dolomiti possano competere per l’eccezionale valore con quello della Sud-ovest della Marmolada, superato dopo due tentativi preparatori, in una ventina d’ore e un bivacco in parete, dagli austriaci Hermann Buhl e Kuno Rainer il 19 e 20 marzo 1950, lungo la via che era stata aperta sin dal 1936 dalla cordata di Gino Soldà e Umberto Conforto. Gli austriaci erano ben attrezzati e ben allenati per quell’impresa! Il 19 febbraio dello stesso anno, avevano già colto fra l’altro la prima invernale del diedro sud-est della Fleischbank, una delle più difficili scalate di tutto il Kaisergebirge. Resta ancor da compiere l’invernale alla Nord-ovest della Torre di Valgrande, cui il Gran Pilastro, per la struttura della parete e per l’andamento quasi rettilineo del percorso assomiglia molto, nonché alla Direttissima della Cima Su Alto e alla Vinatzer-Castiglioni sulla Marmolada di Rocca e poi i sei massimi e come dire, ormai ufficialmente riconosciuti «sesti superiore» del momento in Dolomiti, sono capitolati ed aggiudicati ai migliori arrampicatori.
I due affiatatissimi compagni d’avventura, che insieme già hanno raccolto numerosi significativi e rilevanti successi, attaccano alle 8 del 16 marzo. Con freddo intenso superano i primi 150 metri, dopo essersi esibiti in libera su placche lisce di solida roccia nera e su un paio di tetti che sporgono poco più di mezzo metro. Qui, sono costretti a fermarsi, seppur non siano che le 13. Il capocorda è indisposto e il sole scomparso. Su una piccola cengia inclinata, si apprestano al loro primo bivacco.
Alle 9 del giorno successivo riprendono l’arrampicata superando subito un tetto durissimo che sporge un paio di metri. Quindi, dopo aver armeggiato sul successivo grande soffitto, il capocorda, per la friabilità della roccia, vola, fortunatamente senza conseguenze, per un solo paio di metri. Altro grande soffitto e infine una cengia che attraversa la parete. Qui, con maggior comodità del precedente, trascorrono il loro secondo bivacco.
Il 18 marzo, alle 9, abbandonano la cengia e attaccano decisamente forzando con numerosi chiodi e manovre di corda, un gran rigonfiamento alto appena una quindicina di metri ma che sporge in fuori di ben sette… Nei camini e nelle fessure soprastanti poi, giacché la neve ne ingombra il fondo e la roccia si fa ancora friabile, essi devono impegnare tutta la loro attenzione. Con una lunga traversata sotto un gran tetto rosso infine, essi sono fuori dalle grosse difficoltà e alle 15 sbucano in vetta.
La via era stata ripetuta sino ad allora una sola volta e in sedici ore nel 1950 dalla cordata cortinese di Lino Lacedelli e Luigi Bibi Ghedina, quindi la salita di Oggioni e Aiazzi, oltre che prima invernale, è anche terza assoluta.
Difficile trovar parole per commentare lapidariamente e non banalmente imprese del genere. Chi sa cosa sia quella tremenda parete, dinnanzi a questa invernale, rimane contemporaneamente ammirato e perplesso.
Sulla gigantesca Est del Rosa, due alpinisti milanesi Oliviero Elli ed Emilio Amosso, realizzano poi la durissima prima invernale. Un tentativo a questa parete era già stato fatto nel febbraio 1949 da cinque altri alpinisti milanesi. Costretti al bivacco a 4100 metri, due di essi riportavano però congelamenti tali da dover costringere tutti al ritorno e dover poi soggiacere a numerose amputazioni.
Il 9 marzo, la cordata Elli-Amosso che ha pernottato alla Capanna Marinelli, parte di primo mattino e in dodici ore di aspre fatiche supera i primi ottocento metri. Talune placche di ghiaccio vivo hanno richiesto laboriose manovre di corda. Alle 18.30 a 3900 metri e in pieno canalone, essi si scavano nella neve una specie di igloo e vi bivaccano. Alle 6.30 del giorno successivo riprendono la salita, ma in altre dodici ore di asperrima fatica superano solo poco più di quattrocento metri. Alcuni salti di roccia vetrata e numerosi pendii ingombri di insidiosa neve fresca li hanno costretti a servirsi di numerosi chiodi. Il secondo bivacco, in un’angusta piattaforma, non è così confortevole come il primo e il giorno successivo il tempo cambia. Vento e nevischio li investono da ogni parte. Non mancano che centocinquanta metri all’uscita ed essi li affrontano lungo una cresta espostissima di pietre malsicure. A mezzogiorno, sbucano finalmente al Silbersattel, la sella fra la Punta Dufour e la Nordend. Incalzati però dalla tormenta, essi divallano subito dal versante svizzero, raggiungendo estenuati la Capanna Bétemps verso le 20.
Nel pomeriggio del giorno successivo, scendono per il ghiacciaio del Gorner mentre un piccolo aereo li ricerca. Indi a Zermatt ricevono le prime cure per i congelamenti riportati, congelamenti che in patria li costringeranno al ricovero ospedaliero.
Due altre imprese su ghiaccio oltremodo audaci sono infine state compiute sul Bianco da due cordate di guide di Courmayeur, capeggiate la prima da Arturo Ottoz, la seconda da Gigi Panei.
La prima è stata effettuata sul versante della Brenva, una delle più imponenti e delle più grandiose pareti di ghiaccio delle Alpi, alta com’è più di 1400 metri e larga all’incirca due chilometri. La via seguita è stata la Major, aperta sin dal 1928 dagli inglesi Thomas Graham Brown e Francis Sydney Smythe, detta anche della Sentinella di Sinistra, fra le più lunghe e complesse al Bianco.
La seconda invece, sul versante del Frêney, seguendo quella che è stata definita per antonomasia la più bella via al colosso, la cresta dell’Innominata cioè, aperta anche questa sin dal 1919 dai due Rey, Adolfo ed Enrico con altri, cresta che con quella di Peuterey, è senz’altro fra le più difficili risultando di quella un po’ più dura e un po’ meno lunga.
Queste due grandi realizzazioni di Ottoz e Panei, rappresentano in campo occidentale, ciò che rappresentano in campo orientale le salite di Bonatti e Oggioni. Le due imprese infatti sono le sole che possano competere con la salita della cresta di Peuterey realizzata dalla cordata svizzera di Otto Gerecht, Hannes Husz ed Emil Meier il 28-29 marzo 1948, certo sino a ieri, la più dura ascensione che fosse mai stata compiuta d’inverno sulle Occidentali.
Arturo Ottoz, che come tutte le autentiche guide valligiane, ha sul ghiaccio una pratica e una valentia pressoché insuperabili, ha già al suo attivo clamorose prime invernali come, tanto per citarne una, quella del 28 marzo 1949 al Mont Maudit per la cresta della Tour Ronde (von Kuffner, NdR). Ma anche il suo compagno Toni Gobbi non gli è da meno con due formidabili salite, una alle Grandes Jorasses per la Cresta des Hirondelles il 29 marzo 1948 (con Franco Thomasset, NdR) e l’altra all’Aiguille Noire de Peuterey per la famosa cresta sud il 26-27 febbraio 1949 (con Enrico Rey, NdR).
Le due guide, dopo aver pernottato al bivacco della Fourche, alle 4.45 del 23 marzo, iniziano la loro grande avventura. Dal Col Moore raggiunto alle 6.15, per portarsi all’attacco della cresta di roccia che cade vertiginosa ed a tratti sommersa dal ghiaccio, occorre compiere tutta una lunga traversata. I colatoi hanno una pendenza impressionante ed essi debbono attraversarli con l’apprensione dei seracchi che possono piombare dall’alto. E’ questo forse uno dei tratti più pericolosi dell’intera ascensione. Infatti, abbordata la cresta alle 9.15, una seraccata enorme rovina dall’alto e spazza l’ultimo canale appena appena attraversato.
Il ghiaccio della cresta che li dovrà portare in alto è dapprima in buone condizioni, ma in seguito, risulta ricoperto da una coltre polverosa d’una ventina di centimetri. Scalinando, un paio di bivacchi sarebbero indispensabili. E… campa cavallo che il freddo consolerebbe! Per togliersela quindi il più velocemente possibile e il più a buon prezzo, essi devono fare pertanto affidamento sui soli ramponi senza poter quasi contare su una reciproca assicurazione mentre a tratti si danno il cambio nel comando della cordata. La salita è lunga e pare interminabile. Poi alla fine, sul salto roccioso sotto la barriera dei seracchi, bisogna scegliere fra le due vie d’uscita. Ottoz tenta dapprima quella di destra ma il ghiaccio vivo, scoperto e durissimo, ha corazzato ogni cosa. Con pari risultato, tenta inutilmente Gobbi quella di sinistra. Così fra le due vie possibili, sola una terza, quella di affrontare direttamente lungo un diedro il salto soprastante, dà loro la soluzione. Ci pensa Ottoz a realizzarla con la sua maestria. Di qui si veda, come non sempre la più logica e conseguentemente la più facile via estiva è tale d’inverno e pertanto come certe varianti dirette, siano più costrette dalla convenienza che non spinte dalla velleità.
Sulla barriera terminale dei seracchi, che è il punto più problematico dell’intera scalata, barriera aerea e pericolosa per la quale le due guide avevano nutrito le maggiori apprensioni, il fiuto e la destrezza di Ottoz, ancora una volta trionfano. Non si tratta che d’una trentina di metri, ma non riuscire a superarli, significherebbe rimanere chiusi in una trappola con ben poche probabilità di scampo.
Ottoz apre la via con accorti e delicati colpi di picca, e come s’innalzano lungo un camino, guadagnano una ventina di metri. Sopra il loro capo però, un enorme cornicione a tetto li sovrasta ancora. Ottoz senza esitare, traversa deciso alla ricerca d’un passaggio e lo scova in un seracco con un gran foro interno. Sono le 18.30 quando il compagno lo raggiunge al disopra dell’ultimo ostacolo. La vetta del Bianco a 4807 metri, viene raggiunta in un paio d’ore e di lì fanno presto a filare in un’oretta sino alla capanna Vallot. La loro lotta era durata ben diciassette ore.
Gigi Panei e Sergio Viotto, che realizzano la seconda impresa, partono dalla capanna Gamba dove hanno pernottato, alle 2.15 del 25 marzo. Un balzo poderoso di ben 2200 metri complessivi li attende. Attraversato il ghiacciaio del Brouillard e raggiunto il Col Frêney, essi scalano il Pic Eccles guadagnando alle 5.30 il Colle omonimo che adduce all’attacco degli ottocento metri di vera parete. Proprio qui sorgeva un bivacco fisso, spazzato via da una valanga alcuni mesi prima.
Teresio Valsesia intervista un anziano Oliviero Elli
Il freddo è intensissimo quand’essi risalgono il camino fra due caratteristiche torri rossastre. Il ghiaccio sulle rocce mette a dura prova la loro abilità ed è questo il passaggio più impegnativo dell’intera salita. Essi calzano i ramponi, ma la neve fresca è un’insidia terribile e continua. Attraversano il grande colatoio che solca il centro della parete e, abbordato il colatoio obliquo sotto il grande caratteristico strapiombo, incontrano fortissime difficoltà mentre a Viotto sfugge di mano la piccozza e Panei non può quindi più contare sulla sua assicurazione.
Intanto il tempo volge al brutto, il vento soffia con violenza e il ciclo si oscura. Non si tratta più di salire per vincere, ma con una metamorfosi cui la montagna costringe spesso, di vincere per non morire. Sulla lunga cresta soprastante, affilata e ingombra di neve polverosa, essi cercano d’accelerare i tempi. In un tratto che impegna nuovamente a fondo il bravo Panei, la coltre di neve dopo il suo passaggio si stacca crollando sul secondo di corda. Ma la prontezza e la navigatezza degli scalatori salva la situazione e la corda fa il suo dovere. Dopo una lotta intensa e a ritmo accelerato, durata oltre dodici ore sotto l’incertezza continua, in vista della vetta che raggiungono alle 14, il tempo si rimette al bello ed ormai, nemmeno più la discesa al chiaro di luna può preoccuparli. Essi puntano alla capanna del Col du Midi attraverso il Mont Maudit e il Mont Blanc du Tacul e alle 22 la loro avventura non ha più storia.
Il consuntivo alpinistico della principale attività invernale 1953 dice chiaramente come guide e alpinisti italiani possano ben essere all’altezza di tentare con certa esperienza, indubbia serietà e garanzie di sicurezza una grande avventura himalayana. E ben venga dunque quest’avventura (ne sarebbe proprio l’ora), prima che dal banchetto spariscano i piatti migliori e non rimangano che ossi durissimi o briciole trascurabili (chiaramente qui l’autore si riferisce all’ancora inviolato K2, NdR).
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Bello l’alpinismo invernale, permette con poca spesa e poco tempo di vivere una montagna solitaria e primordiale che altrimenti andrebbe cercata in luoghi remoti del pianeta. L’ inverno riconsegna alla montagna la sua veste selvaggia dei tempi delle prime esplorazioni.
Momenti di gloria.
Grandi..nomi..! per grandi imprese Storia bellissima dell’ Alpinismo passato, ma sempre attuale e vero…..! Saluti……