Libertà fuori e dentro di sé
(relazione di Alessandro Gogna al Convegno Nazionale del CAAI, Caprino Veronese, 11 ottobre 2014)
Lasciatemi partire un po’ da lontano, ma nemmeno poi tanto, partendo dal materiale che usiamo per andare in montagna, che si può grossolanamente dividere in due tipologie. C’è ovviamente anche il materiale che riesce a fare parte delle due tipologie, ma possiamo dividere in materiale per la progressione e quello per la sicurezza.
Sul materiale da progressione abbiamo fatto passi da gigante: senza volerli elencare (siamo partiti dalla corda di canapa…) in decenni e decenni di alpinismo c’è stato un grande progresso. Anche sul materiale per la sicurezza vi è stata evoluzione: dal semplice “otto” al gri-gri, poi al “reverso” e a tutti gli altri aggeggi esistenti per le varie manovre, fino ai nut e ai friend, attrezzi che comunque alla cordata non garantiscono tanto la progressione quanto la protezione, elevandone quindi il grado di sicurezza.
Più sicurezza riusciamo ad ottenere da attrezzatura perfetta, studiata, tecnologica (corde, telefonino, gps, ecc. ), insomma più sicurezza esterna abbiamo, di meno concentrazione interna noi disponiamo.
Ma perché? Cerco di spiegarmi con un esempio: prendiamo un solitario, di quelli che seguono il filone attuale e cioè il free-solo, dove non si ha nemmeno l’imbracatura (scarpette e basta), quindi privo di qualunque attrezzatura e dotato solo delle proprie capacità psico-fisiche e della propria esperienza. Questo individuo avrà un grado di concentrazione riferito alla sua azione sicuramente spasmodico, enorme, mentre invece se la stessa persona compie la stessa azione con tutta una serie di ausili (che poi è la normalità) che gli permettono maggiore sicurezza è chiaro che la concentrazione è minore se paragonata alla prima ipotesi.
A questo proposito sarebbe molto bello (lo dicevo a Predazzo qualche giorno fa) se le scuole di alpinismo facessero provare agli allievi per un giorno, un’ora, un minuto le antiche attrezzature, facendoli arrampicare come si arrampicava una volta. Non per far risaltare la bravura di quelli di una volta, ma semplicemente per far capire in un flash cosa ha significato l’evoluzione.
E’ già stato detto precedentemente da Carlo Zanantoni che la sicurezza sta diventando una mania della società, “società sicuritaria”, cioè una società che impone tutta una serie di vincoli, suggerisce e vende una serie di dogmi che spingono tutti verso quella magica parola che è “sicurezza”.
Con questa parola si vorrebbe evitare qualunque esposizione a qualunque rischio.
Portando un esempio semplice, le mamme sono state le prime a recepire questo messaggio e a dire al bambino “non correre perché sudi…”, mia mamma non me l’ha mai detto, al massimo mi diceva “non andare in mezzo al fango perché dopo devo ripulirti…”, esortazione che ha ben altra filosofia.
Questo per dire che siamo in una società che ci spinge a stare seduti sulla sedia e vivere tutto virtualmente senza sperimentare quello che è la realtà.
Sugli alberi è naturale che i bambini continuino a salire, ed anche a cadere… facendosi anche male… perché questa è sempre stata la logica dell’infanzia… in questo modo si cresce, ci si crea una individualità, ti crei dei desideri senza essere sempre legato a un cordone ombelicale.
E poi c’è una “dimenticanza” pericolosissima: non viene evidenziato che non si dichiara che la sicurezza non è mai al 100%. Tutti parlano delle cose sicure, anche il CAI aveva fatto anni fa un manifesto con la dicitura “montagna sicura”.
“Montagna sicura”! No certamente, perché la montagna non sarà mai sicura, ognuno di noi potrà utilizzare ciò che vuole, esperienza, attrezzatura e conoscenze, ma l’incertezza su quello che è il tuo destino rimane ed è questo messaggio che deve passare alla società, mentre culturalmente avviene proprio l’opposto.
Se una ferrata è appena stata costruita con tutte le caratteristiche moderne di sicurezza, è “certificata”: una parola da temere assolutamente poiché gravemente pericolosa.
Purtroppo più sicurezza è disponibile e più (e gli avvocati che mi seguiranno lo spiegheranno meglio) vi sarà la ricerca del responsabile in caso di incidenti e qui non si parla della parola “responsabilità” in senso umano ma “responsabilità giuridica” e cioè quella responsabilità per cui sei passibile di giudizio, quindi con la possibilità di essere anche sanzionato e/o “punito”.
La responsabilità giuridica va letteralmente a braccetto con “sicurezza”.
Non ho il tempo materiale per dimostrarlo, ma da un’analisi che ognuno può fare potrà dedurlo per conto suo.
Il “Signor Rossi” non può andare come e dove vuole in qualunque modo facendo ciò che desidera. Due anni fa al Festival di Trento si elogiava il GPS affermando che con esso si poteva realmente andare ovunque: ebbene, questa è pura follia, una bugia pubblicitaria che non ha fondamento reale, un inganno del marketing.
La certezza della totale sicurezza in presenza di questi ausili è pura utopia.
La verità e che se questo “Signor Rossi” vuole fare ciò che vuole deve prima farsi le sue esperienze diventando quindi “responsabile”. Non “responsabile giuridicamente” ma responsabile di ciò che lui stesso causa con le sue azioni.
Noi l’abbiamo fatto, in questa sala quasi tutti siamo Accademici, Guide Alpine insomma tutti con un background notevole di esperienze acquisite.
Non ci è stata regalata l’esperienza, non l’abbiamo comprata né trovata per strada ma solamente acquisita gradualmente e accresciuta nel tempo.
Pertanto la sicurezza indotta, e con tale termine intendo quella che si può comprare utilizzando i vari strumenti del mercato, quella che porta a una minore concentrazione, porta anche a meno responsabilità, con una diminuzione della responsabilità individuale inversamente proporzionale all’utilizzo intenso di tecnologia.
Attenzione, questo non significa che non bisogna utilizzare attrezzature esterne, non voglio estremizzare, sto solo cercando di portare l’attenzione su alcuni punti importanti.
Responsabilità. Prima abbiamo parlato di sicurezza ora affrontiamo il capitolo “Responsabilità”.
Cosa è la responsabilità, ma partirei col dire cosa non è.
Sicuramente non è tanto responsabile colui che va in montagna dominato dall’adrenalina, con il gusto del rischio a tutti i costi, della performance estrema tipo “o la va o la spacca”.
Questa persona potrà sicuramente fare delle cose pregevoli: però le farà correndo dei rischi notevoli, proprio perché schiavo di questo suo carattere, delle sue debolezze, di questa “malattia”.
La responsabilità la si acquisisce e questo tipo di alpinisti poco o nulla hanno fatto in questo senso. Evidentemente l’egocentrismo di queste persone, l’inflazione del proprio io oltre i livelli consentiti, portano a correre grossi rischi con una responsabilità tendente a zero.
Ed è quindi ora che per la prima volta pronuncio la parola “libertà” e giungo quindi al nostro tema.
La parola libertà non può esistere se non è connessa con la responsabilità.
Una persona responsabile che ha fatto le sue scelte è libera mentre una persona non responsabile potrà fare quello che vuole ma non è libera, poiché non è libero chi fa quello che vuole ma è libero chi ha scelto che cosa fare.
Credo addirittura, considerando che siamo in un consesso di Accademici, di persone che l’alpinismo l’hanno vissuto per una vita o lo vivranno per una vita, ebbene io credo che nel futuro si misurerà qui il prossimo alpinismo, che è sempre evoluto e cambiato nel tempo: lo si valuterà con la quantità di responsabilità che gli applicheremo, non esclusivamente sui gradi di difficoltà.
Questo significa quantità di libertà, infatti se una persona è responsabile vuole dire che ha scelto, ha scelto tra tante possibilità che aveva e le ha valutate in piena libertà. Anche se non le ha vivisezionate una per una, perché ognuno sceglie a suo modo e si può essere molto istintivi senza essere analitici. Ma della scelta v’è obbligo.
Ci sono parecchi filtri che confondono la lucidità della scelta.
Per esempio immaginatevi dei gruppi di scialpinisti che salgono verso una cima con condizioni non idonee e vedendo i primi che sono arrivati in vetta e affrontano già la discesa pensano “se sono saliti loro, possiamo farlo anche noi”. Questo è un filtro, poiché non è detto che un fatto vissuto da un altro prima di te aumenti la tua sicurezza, stai semplicemente facendo “il pecorone” dietro a qualcun altro, quindi non hai scelto, cioè non sei stato e continui a non essere libero.
Oppure prendiamo una cordata di due alpinisti che salgono a comando alternato: a un certo punto a uno dei due spetta un tiro che lui si accorge subito non essere alla sua portata. Magari lo sapeva anche prima, vi sono relazioni, informazioni e quant’altro per conoscere prima la difficoltà… ma ci prova lo stesso: e nel momento in cui ci prova, si trova in pericolo. Potrebbe anche rinunciare, ma non lo fa subito… e più sale più rischia di farsi del male.
Domanda: perché è andato su, quando invece avrebbe potuto dire al compagno “vai su tu, sei più forte, è meglio per entrambi” oppure dire “torniamo indietro, abbiamo sbagliato a scegliere questo itinerario”?
La famosa traversata della via Cassin alla parete nord della Cima Ovest di Lavaredo
Eppure andare solo perché è il suo turno nell’alternanza e perché non vuole apparire un codardo di fronte al suo compagno è una grande sciocchezza. Chiunque potrebbe dirglielo!
In quel momento la sua non è stata una scelta libera ma viziata dal filtro dell’emulazione, dal filtro del piccolo orgoglio che ognuno di noi ha.
Abbiamo parlato prima dell’istintivo, una categoria a me particolarmente simpatica, io credo di averne d’istinto, ma certamente meno di altre persone.
Uno che aveva un istinto grandioso era Angelo Dibona che andava ovunque, dal Delfinato alle Dolomiti, facendo prime ascensioni notevolissime, pazzesche, con clienti e in luoghi dove non era mai stato prima: era solo l’istinto a spingere questo grande personaggio.
Non vi erano calcoli e nemmeno materiali dietro queste salite e nemmeno quelle tecniche di sicurezza che comunque sono venute molti anni dopo.
Un altro personaggio che ho visto come istintivo è Manolo… ma ce ne sono tanti altri.
Poi vi sono le persone riflessive, e qui mi sento già più vicino, quelle che hanno bisogno di riflettere, valutare, leggere, confrontarsi e dopo di che decidono che cosa fare.
In entrambi i casi c’è libertà di scelta: il riflessivo perché ha fatto un’analisi mentre l’istintivo perché ha un dono. Quest’ultimo sarà in difficoltà solo quando quel “dono” gli verrà tolto. E quel dono è tanto meno in pericolo quanto il soggetto starà attento a non cadere in certe sicurezze, in certe ipersicurezze… tipo ”l’ho fatta duecento volte, cosa vuoi che mi succeda la duecentounesima”.
Avendo escluso le categorie degli egocentrici e degli adrenalinici, rimangono i riflessivi e gli istintivi: loro sono l’esempio della libertà che noi cerchiamo.
Spiro giustamente parlava prima di “ideale”, un valore estremamente importante che nella nostra società odierna sembra avere poco peso. Però è vero che l’ideale nella storia ha fatto progredire la vita umana, nel nostro caso l’alpinismo. E ritengo che non si possa cancellare così facilmente, l’ideale c’è, rimane nella persona che segue il suo istinto, una sua volontà. E anche il riflessivo, in certe regole che si è imposto di seguire, trova il suo spazio di libertà.
Nelle imprese alpinistiche si può fare una distinzione. Le imprese possono essere creative o possono essere nate da una competizione.
Faccio un esempio.
Georg Winkler che sale sulla sua torre omonima, da solo, a 17 anni, senza nessuno intorno. La torre non era certamente una meta di nessuno, probabilmente non aveva avuto nessun tentativo. Ebbene, quella è stata una impresa creativa, un’impresa della fantasia. Winkler ha visto una foto, un disegno e sulla base di questi dati scarni va e sale.
Ci sono stati tanti esempi creativi, mi vengono in mente Boardman e Tasker sul Changabang, gli è riuscita un’impresa incredibile per quel tempo, sono andati là e hanno fatto. Avevano certamente una grande esperienza, ma nessuno aveva in mente il pilastro ovest del Changabang.
L’esempio contrario che mi viene in mente è la Nord delle Jorasses. Certamente una grandissima impresa, poiché in questo contesto non vogliamo sminuire nulla. Ma a monte vi era una competizione, vedi la Nord dell’Eiger, competizioni incredibili durate per anni.
Si era già quasi arrivati alle soluzioni, perciò chi la risolve, pur bravissimo, deve anche dire grazie agli altri “competitors”: mentre nei casi di creatività il salitore non dovrà ringraziare nessuno.
Questo per introdurre la pericolosità della competizione, anche e soprattutto in termini di libertà.
Qualche tempo fa qualcuno voleva identificare l’alpinismo come competizione, ma se l’alpinismo è una forma d’arte, e lo è, e su questo siamo tutti d’accordo, l’accostamento non regge.
Se l’alpinismo fosse soltanto competizione, allora per fare la più grande impresa si potrebbero mettere insieme gli alpinisti per una gara. Allora occorrerebbe, per avere un opera d’arte, prendere cento pittori, metterli assieme in uno studio enorme e dire “mettevi lì e fate un’opera d’arte, così vediamo chi la fa più bella”.
Pura follia, perché il pittore ha bisogno della sua solitudine, della sua concentrazione e non della competizione con altri.
La competizione è pericolosa esattamente come quel famoso materiale del quale parlavo all’inizio, cioè il materiale per la sicurezza. Perché la competizione è quella situazione mentale in cui l’alpinista, o meglio l’individuo, non è più a contatto strettissimo con la natura e con la montagna, non ha più come partner la montagna, unico punto di riferimento, ma ha a cuore la volontà di vincere i suoi competitori. Se no, che competizione sarebbe?
Ciò è molto pericoloso, limitando l’istintività pone in situazione a rischio fisico. Ed è soprattutto è un fattore che limita la libertà di scelta, cioè la libertà che è in noi, di fare o non fare un’azione. La competizione è fuorviante perché allontana dalla montagna e da noi stessi.
Sono convinto che il rapporto tra la montagna e l’alpinista sia essenziale, dove la montagna fa sempre la parte del padrone, del più forte. Purtroppo certi alpinisti, in certi momenti, e chiunque di noi può essere ingannato, non si accorgono di modificare questo salto tra noi e la montagna, un dislivello che diminuisce se siamo in competizione con qualcuno, perché non interessa più la montagna, che diventa un semplice sfondo di palcoscenico e non più il partner. E nel momento in cui viene a mancare questo dislivello tra noi e la montagna viene meno quella scarica incredibile di energia, di forza, di bellezza e di arte che si ha invece quando realmente noi entriamo in contatto con la cosa più bella di una scalata, cioè l’inseguimento di quel nostro obiettivo che abbiamo scelto “liberamente”.
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Ma come si fa a non accettare la valanga, il terremoto, l’alluvione?? sono eventi naturali e come tali dovrebbero essere accettati punto e basta. Quello che non dovrebbe essere accettabile sono le azioni dell’uomo sulla natura che non fanno altro che ingigantire e rendere più pericolosi questi eventi naturali.
Sono queste azioni/interventi che dovrebbero essere evitate e condannate con severità. Invece si fa esattamente il contrario. Si stupra la natura, avviene la calamità, si fanno i soliti discorsi di rito i primi giorni ma poi tutto torna uguale a prima. Fino al prossimo distastro.
Perché avviene questo? Semplicemente perché fa comodo e sopratutto perché muove DENARO!!
L’alpinista invece che va a cercare l’avventura solo per il proprio gusto personale, senza scopo di denaro, “che ci vai a fare? non ti pagano mica”, è un emerito imbecille e anche un costo per la società in caso di soccorso. Quindi da condannare.
Le morti sul lavoro, in fondo in fondo, alla fine non dico siano scusate ma si cerca sempre di addolcirle.
Chi muore in montagna è condannato.
Questa Alberto è una bella domanda alla quale personalmente non so rispondere. Noto però che la sensibilità delle persone è in generale cambiata.
Forse dipenderà dal fatto che i nostri genitori hanno visto la guerra (alcuni addirittura due), forse dal fatto che una volta si facevano più figli e, pertanto, si era un po’ meno sensibili nei confronti dell’eventuale perdita di uno di loro, forse perché la vita era in generale più dura, forse perchè c’era più disciplina, forse perché la scienza dava meno risposte, forse.. non lo so, però è sotto gli occhi di tutti che certe cose oggi non si tollerano più oppure le si tollerano di meno.
Oggigiorno la valanga non è più accettata, così come il terremoto, il maremoto, l’alluvione, ecc.. Non si accetta più che la natura faccia il suo corso, è sempre colpa dell’uomo. Anche di fronte a catastrofi una volta considerate inevitabili bisogna sempre cercare un responsabile, scadendo a volte nel ridicolo (come si fa ad incolpare un sismologo, è assurdo). E più si accumula sapere e più si va a caccia di responsabilità.
Può essere che ci siano i classici poteri forti, palesi od occulti, intenti a sottomettere la società ma se quest’ultima non si ribella significa che tutto sommato gli va bene così.
Stiamo vivendo una situazione assurda nella quale a fronte ad una riduzione della responsabilità personale, intesa come principio etico e pratico di convivenza, aumenta la responsabilità giuridica. Tutto ciò è paradossale perché si arriverà al punto di giudicare persone assolutamente inconsapevoli di ciò che fanno (ed in parte sta’ già succedendo con le nuove generazioni).
Per tornare all’alpinismo, se no si divaga troppo, bisognerebbe sicuramente insegnare ad essere responsabili delle proprie azioni però bisognerebbe anche piantarla d’incensare personaggi che vivono di exploit. Quantomeno bisognerebbe mettere in guardia dal fenomeno dell’emulazione e far rientrare tutto nei giusti binari. Bisognerebbe insegnare che raggiungere una vetta non è poi così importante, quantomeno non lo è rispetto al beneficio interiore ed esteriore che si può ottenere tramite un percorso tendente ad un continuo miglioramento delle proprie capacità psicofisiche in un ambiente estremamente stimolante.
In questo modo, oltre a ridurre gli incidenti, si darebbe un’immagine diversa dell’alpinista in seno alla collettività, la quale non lo vedrebbe più come uno scapestrato che mette a rischio la propria ed altrui incolumità bensì come un ricercatore di sè stesso.
Penso che questo blog sia estremamente utile per questo tipo di percorso anche se la strada da fare è lunga in quanto il mito dell’eroico alpinista superman aleggia ancora nelle menti di molti amanti della montagna.
Siamo sicuri che questa ricerca della “sicurezza” della società di oggi sia solo dovuta alla evoluzione, quindi un fatto naturale della storia umana ? Oppure non sia una mascherata scusa che in verità nasconde l’iniziativa di qualcuno/qualcosa volta a controllare le persone per limitarne la possibilità di fare delle scelte personali e quindi di limitarne la libertà!!
Forse ci si dovrebbe porre il problema del perché si è giunti alla società sicuritaria. Aldilà delle singole opinioni al riguardo credo che per poter interagire proficuamente a tutti i livelli sarebbe opportuno argomentare con cognizione di causa.
Spesso, per es., mi domando per quale motivo atteggiamenti che all’epoca in cui ero piccolo venivano comunemente accettati oggi non sono più tollerati. Se una maestra delle elementari dava uno schiaffo ad un alunno era normale che quest’ultimo ne prendesse un altro se non due dai propri genitori. Oggi la mestra in questione finirebbe sotto processo dopo essere stata giudicata mediaticamente primancora che dal tribunale.
Io non so dare una risposta, eventualmente posso avanzare delle ipotesi, però mi limito ad evidenziare che ad un certo punto della storia, magari non dall’oggi al domani, qualcosa è cambiato.Ciò che ieri era normale oggi non lo è più.
L’alpinismo non è, ovviamente, rimasto immune da questo cambiamento di mentalità e, pertanto, quello che una volta era classificato come incidente oggi viene catalogato come colpa di qualcosa o di qualcuno. Non credo si tratti solamente di una questione economica (anche se i soldi fanno la loro parte) ma che si tratti piuttosto di una questione di sensibilità la quale muta con l’evoluzione della specie.
Sicuramente in tutto ciò giocano un ruolo fondamentale anche le scoperte scientifiche. Più si scoprono dei legami e, pertanto, delle cause-effetto più è facile attribuire delle responsabilità. Il punto della questione è che questi legami non sono sempre così facili da percepire.
Per es., se scalo una montagna non sempre mi rendo pienamente conto del mio livello di attenzione. Un venir meno, o semplicemente un calo, di quest’ultimo elemento, determinante in attività di lunga durata, non sempre si manifesta con dei sintomi ben precisi. Di questo però, in sede di attribuzione di responsabilità, non se ne tiene assolutamente conto e, pertanto, l’unico modo per non avere dei guai è quello di starsene comodamente seduti in poltrona.
Viviamo in un’epoca in cui l’errore umano è sempre meno accettato e questo probabilmente perché abbiamo tali e tanti strumenti a disposizione da ritenere di poter essere sempre nella condizione di fare la scelta giusta. Se non te la senti stai a casa. Il problema è: chi può realisticamente sentirsela al 100%? Se ci pensiamo un attimo nessuno. Nemmeno a stare seduti davanti alla TV ci si può senitre sicuri al 1000 per 1000 perché potrebbe venire un terremoto e seppellirci sotto le macerie di casa nostra. Si badi bene, anche per questo genere di eventi diventa sempre più difficile parlare di calamità perché ci sono i sismologi che dovrebbero avvertire in tempo la popolazione, i soccorsi che dovrebbero attivarsi immediatamente, ecc. ecc., il tutto in un delirio generale tendente a scaricar barile per paura di vedersi attribuire delle responsabilità.
L’idea che si possa avere tutto sotto controllo è un’emerita idiozia però ci illudiamo di poterlo fare e chi si discosta, cantando fuori dal coro, va giustamente punito (questa almeno è l’opinione dei più). Pertanto, la libertà individuale è in definitiva una chimera in quanto strettamente connessa con l’idea che un popolo si fa di essa.
In tutto ciò vi è però una certa ipocrisia in quanto ci esaltiamo di fronte alle imprese di alcuni personaggi che incarnano l’ideale del superuomo. Nell’alpinismo questo ideale è stato incarnato fin dagli albori e oggi, sebbene non ne se ne parli più usando la stessa retorica del XX secolo, si continua a ritenere che chi sale un ottomila sia un superatleta e chi invece perisce sotto una valanga nelle dolomiti sia un emerito deficiente.
Nessuno, salvo i pochi addetti ai lavori (ma non sempre), pensano che forse il primo ha avuto del culo mentre il secondo è stato più sfortunato.
Io non sono contrario alla tecnologia così come non sono contrario alla ricerca della verità, semplicemente mi piacerebbe che nella nostra società, e, quindi, anche a livello giuridico, tornassero ad essere usati un po’ più spesso termini come “fortuna”, “sfortuna”, “fatalità”, ecc., perché non siamo delle macchine ma non possiamo nemmeno vivere sotto una campana di vetro. Che poi si debba fare tutto il possibile per evitare il peggio è un altro discorso.
L’alpinismo dovrebbe essere solo competizione/sfida con se stessie con la montagna. Ma spesso e volentieri è con gli altri. Basta vedere la storia dell’alpinismo con la corsa alle prime di una parete, alla prime invernali, alle prime solitarie. Quindi una sfida anche con gli altri per essere i primi a fare una certa impresa.
Questa sfida è un condizionamento ma è anche uno stimolo.