Motti, vent’anni di alpinismo torinese

Motti, vent’anni di alpinismo torinese
di Pietro Crivellaro
(pubblicato su Scandere 1984)

Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(3)

Ripubblicare l’articolo I falliti di Gian Piero Motti comparso sulla Rivista Mensile del CAI quattordici anni fa (n. 9, settembre 1972, pag. 526-534), e riproporlo oggi per ricordarne la scomparsa avvenuta al principio dell’estate dell’anno scorso, è senz’altro una buona idea. Il necrologio che ancora si usa nelle riviste d’alpinismo è in generale una formula retorica e in decadenza, e tanto più inadatta alla figura non ordinaria di Motti e alla sua morte per «sfinimento» di questa vita. Così questa forma indiretta di commemorazione, se vale come invito al ricordo di un grande amico e di una grande presenza per l’alpinismo torinese, sarà anche gradita perché riporta alla luce un documento quasi storico dell’alpinismo di questi anni. Affermare in apertura che si tratta di un’idea buona potrebbe sembrare scontato e far anche sorridere come per scoperto narcisismo. In realtà è un modo esplicito per inquadrare subito le ragioni che attribuiamo a questa scelta, suggerita da Manera e Ribetti, per primi, e subito condivisa: uno, è pertinente in questa sede che ha a sua disposizione poche pagine ed è coerente con il disegno di custodire la memoria di Motti attraverso i suoi scritti; due, è un autoritratto, una sintesi di episodi autobiografici, animati dalle passioni del cuore e dai rovelli della mente, pieno dei temi ricorrenti delle sue discussioni, scritto con il suo linguaggio sciolto ed efficace, che va benissimo per dire chi era Gian Piero Motti, come una foto scattata tanti anni fa che viene scelta per essere posta sulla lapide accanto al mazzo di fiori.

Pietro Crivellaro

Poter rileggere I falliti fa provare la soddisfazione di toccare con mano uno dei testi sacri del nostro alpinismo. Pochi titoli ricorrenti che vengono tramandati dalle nuove pubblicazioni e dalla tradizione orale, dati per noti come nozioni fondamentali di dominio pubblico, ma in realtà conosciuti solo dai sacerdoti della cultura alpinistica e venerati di riflesso dalla massa dei credenti e praticanti.

Tra questi occorre ricordare l’inconsueto necrologio per «Ettore Zapparoli» consacrato dalla penna di Dino Buzzati (Rivista Mensile, n. 11/12, 1951, pag. 346-347), ripreso in questo articolo di Motti; e poi The Climber as Visionary di Doug Robinson (Ascent, 1969) tradotto in italiano per iniziativa di Motti (Rivista Mensile, n. 7, 1973, pag. 301-307). A questo fa doverosamente seguito Il nuovo mattino: analisi dell’alpinismo californiano (Rivista della Montagna, n. 16, aprile 1974, pag. 2-12), la più importante enunciazione fatta dallo stesso Motti, dei principi del rinnovamento dell’alpinismo, divenuto col passar degli anni motivo di profonde delusioni. Con l’universale affermazione delle varappes, stanno cadendo in disuso gli scarponi da montagna e tra un po’ si farà a meno anche dello zaino: del pari la partita dell’alpinismo è già stata quasi tutta giocata, siamo agli ultimi minuti dei tempi supplementari, col free climbing che si prepara ad un’allegra invasione di campo. E ancora, Droga e alpinismo (Rivista della Montagna, n. 26, 1976, pag. 304-306) e Alpinismo come trascendenza (ivi, n. 32, 1978, pag. 86-90), i due articoli dello psichiatra torinese Gustavo Gamna, divorati da un sacco di gente, molto chiacchierati e poco afferrati. Fino al caso più recente di Eloye de la dissimulation di Silvain Jouty, che pubblicato dall’oracolare Passage – Cahiers d’Alpinisme (n. 3, Parigi 1979, pag. 41-55) è stato ripreso anche da noi (Rivista della Montagna, n. 53, 1982, pag. 313-318); un articolo che a dispetto dell’impressione di attualità e limpidezza che rivela alla lettura, porta con sé i caratteri dell’intimidazione intellettuale, che lo avviano al destino glorioso e oscuro dei miti. Archiviati gli scritti, sopravvive la memoria dei titoli che passando di bocca in bocca ne consolidano la celebrità: fama crescit eundo.

Gian Piero Motti (a sin) e Gianfranco ai piedi del Bec di Roci Ruta, valle di Lanzo. Foto: Arch. Fam. Motti

A titolo di verifica proviamo a domandarci chi sono i falliti di cui parla il titolo. Ne abbiamo al massimo una nozione vaga, pensiamo a uno sfortunato destino collettivo, avvertiamo sommessi toni di moderna epopea. Così converrà leggere qui sotto la circostanziata risposta e saremo colpiti da un certo stupore nello scoprire che Motti per spiegarlo racconta la sua storia, il sofferto iter psicologico delle sue esperienze di alpinista, si può dire nel momento della massima espansione, che coincide col momento della massima crisi, in cui si opera come un’inversione di tendenza e comincia un processo di distacco. La narrazione della sua storia rappresenta il grande problema dell’alpinismo moderno, il rischio dell’alienazione. È difficile sfuggire ad effetti di riconoscimento e di immedesimazione con la sua storia, perché non leggiamo parole di fascino gratuito che menano il can per l’aia: come di fronte alla confessione in pubblico di un grande alpinista — per avere il coraggio di scrivere così su una rivista di alpinismo è indispensabile essere uno «forte» —, noi ci sentiamo compagni suoi. Ci domandiamo anche noi che senso ha la passione di scalare le montagne sacrificando tutto il resto della vita. Ci misuriamo anche noi continuamente col rischio di sbagliare la vita, col rischio di essere dei falliti. Non è senza significato che il pezzo sia uscito sulla Rivista Mensile, organo ufficiale e un po’ confessionale del CAI, sul quale pesa la stanchezza delle solite cose ripetute e la polvere rituale delle tradizioni dell’ente: ma è ugualmente una testata autorevole anche per i giovani leoni di quegli anni, che se non mostrano l’ambizione di figurarvi, non disdegnano l’occasione di esserne ospitati. Nel processo della scalata al potere delle idee e del prestigio culturale, il bisogno di copertura da parte della solida e indiscussa tradizione è quasi uno stadio obbligato per avere un’udienza. Ed è come un rito di passaggio attraverso l’ortodossia materna, prima di uscir fuori ad affiggere le tesi della riforma. Dopo I falliti sarà la testata più laica e agile della Rivista della Montagna ad ospitare l’evoluzione del pensiero di Motti insieme con la sua assidua collaborazione, fino al distacco paradossale e polemico delle pagine bianche di Zero the Hero (n. 42, dic. 1980, pag. 197-200).

Poco prima de I falliti Motti aveva pubblicato sulla Rivista Mensile Riflessioni (n. 6, giugno 1971, pag. 277-279), che ne è la dichiarata premessa autobiografica e ideologica: anche questa volta una storia — una sosta in rifugio, la conversazione con pochi amici, la notte, la solitudine — alimenta l’analisi delle sensazioni e dei pensieri. È attorno al tavolo del rifugio Bozano in una sera d’inverno, sotto la parete del Corno Stella, che prende avvio il discorso e si formula il problema cruciale: «qualcuno di noi introdusse un discorso molto interessante, chiedendosi che razza di uomini dovevamo essere se amavamo isolarci nella grande solitudine della montagna invernale, se ci attiravano il silenzio, il freddo, la neve… Esaminandoci a fondo, non c’era in noi un forte disadattamento sociale?».

Gian Piero Motti in arrampicata sul Bec di Mea, 1969

Nello stesso periodo compare anche un articolo, sempre di Motti, intitolato: Ad un amico, Paolo Armando, un necrologio sui generis (Rivista Mensile, n. 9, 1971, pag. 421-423), dove si riunisce in maniera esemplare il doppio problema di parlare della morte in montagna: un problema di scrittura e un problema etico. Come si fa a scrivere di un alpinista caduto in parete, evitando di impantanarsi nella retorica della commozione; sfuggire a quei giochetti patetici di dare del tu al morto, di professare fiducia che il morto non è morto senza denunciare bigotte credenze nella vita eterna, piangerlo senza piangere, da vero uomo e da rude alpinista. Motti sfida l’ipocrisia del genere letterario perché ha delle cose da dire: se scrivere è difficile, dispiace ancora di più tacere, soprattutto perché tacendo si somiglia a tutti gli altri silenzi, al silenzio degli indifferenti, al silenzio di quelli che non ne sanno nulla, come al silenzio di quelli che non hanno più voglia di parlarne perché sono impietriti dalla disperazione. Per scrivere che Paolo Armando aveva «raggiunto una forma di alpinismo più matura, più pacata, più serena. Sempre ad altissimo livello, ma senza quell’accanimento, senza quella sorta di rabbia che caratterizza un buon numero di alpinisti, tesi disperatamente a far collezione di salite». E conclude dichiarandosi «consapevole della bellezza e dell’inutilità di questo gioco», e chiedendosi «se veramente ne vale la pena, dove porterà questo gioco, che sempre di più ti prende la mano». Essere falliti vuol anche dire non riuscire più a comunicare, a stabilire rapporti con il resto del mondo per spiegare se stessi, la propria esperienza straordinaria. Lo ripeterà anche nella Storia dell’alpinismo, la sua grande opera che non allinea tanto fatti e persone, ma idee, anime e problemi, una vera storia psicologica. «Ritornati in pianura ci si scopre diversi, mutati, divisi ormai da molti altri da un ponte invisibile. Si vorrebbe cercare di far capire, di comunicare, ma questo è impossibile» (ivi, DeAgostini, Novara 1977, vol. II, pag. 100). Oppure «Una volta tornati in pianura, fallirà il tentativo di comunicare le proprie sensazioni ad altri, in quanto, con amarezza, ci si accorgerà che esse sono esclusivamente personali e incomunicabili. Esse appartengono ad un vissuto troppo eccezionale e troppo lontano dal vissuto quotidiano di chi alpinista non è» (ivi, vol. I, pag. 14). È il blocco della comunicazione che rappresenta il fallimento: quando vengono a mancare i canali della comunicazione — e sembra questa una condizione obbligata per l’esperienza separata degli alpinisti — si allentano i legami con gli altri, vengono a mancare i mezzi essenziali per sopravvivere e per aver gusto di stare al mondo. Così si manifesta il cuore del problema, il nucleo su cui si fonda questo articolo, insieme con buona parte degli altri scritti e della storia di Motti. Al centro sta il problema etico dell’esistenza dell’uomo, il bene e il male, la felicità e il dolore, la libertà e la norma morale, la critica del giudizio, il senso della vita di fronte alla morte. Un problema attorno al quale si sono affaticati i filosofi dall’antichità, da molto prima che comparissero gli alpinisti, fino ad oggi, nella ricerca inesausta di valori sufficienti. I falliti prende le mosse da un passo di Seneca che suggerisce l’esame di coscienza che si conclude con le parole di Guido Rossa, «cose che avranno un valore definitivo»; si prova come un’ombra di vertigine esposti in piena parete a guardare giù gli anni che sono trascorsi, la storia civile dell’Italia che sfiora solo per un momento la storia separata dell’alpinismo. Nel terminare questa lettura è pertinente una riflessione sul significato dell’etica dell’alpinismo. La concezione corrente di etica dell’alpinismo tratta di mezzi leciti e illeciti, di controversie remote e recentissime sui chiodi, le staffe e gli attrezzi artificiali, di friend e resting e via bizantineggiando. Il valore alto dell’etica secondo la filosofia dell’alpinismo è decaduto giù fino alla normativa spicciola della tecnica? Oppure alle piccole regole del nostro gioco abbiamo conferito la dignità del massimo codice morale? Finché nulla giunge a turbare la beatitudine di questo gioco, è gratuito moralismo criticarlo: ognuno attraversa il deserto con la manna che riesce a trovare. Allora forse è conveniente sospendere la lettura de I falliti, è meglio toglierlo dalla circolazione, sequestrarlo per poter conservare soltanto la memoria di un titolo venerando. Allora dovrò riconoscere che quella che all’inizio era sembrata un’ottima idea è invece un’idea pessima. Mi accade un’altra volta di dover concludere con il gesto di Giobbe, che cessa la contesa e tace di fronte a Dio, ponendosi una mano sulla bocca per non parlare più di cose troppo grandi per lui.

Segue l’articolo I falliti.

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Motti, vent’anni di alpinismo torinese ultima modifica: 2019-08-09T05:48:20+02:00 da GognaBlog

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1 commento su “Motti, vent’anni di alpinismo torinese”

  1. Sul traverso del Bec di Mea intere generazioni di apprendisti climber hanno strizzato alla grande. Sotto la placca c’e’ un tetto molto affilato e si era sparsa la voce che, in caso di volo, nel pendolo le corde si sarebbero tranciate sfregando sullo spigolo molto acuminato. Impegnarsi in quel traverso era una prova di ardimento, nonostante le scarpette. Rivedere GPM impegnato con gli scarponi fa rabbrividire e insieme scioglie un nodo di nostalgia per le sue immense capacità. Lo stesso vale per i suoi scritti così ben commentati dall’amico Petrus.

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