Hermes il Messaggero

Metadiario – 69Hermes il Messaggero (AG 1977-001)
La Val Codera
Una forra profonda alcune centinaia di metri, scavata nel vivo granito, difende l’imbocco della Val Codera. Da Novate Mezzola l’accesso sembra precluso. A sinistra le cicatrici di numerose cave sul Monte Avedée, a destra un ripido crestone impercorribile. Eppure dietro a queste “Colonne d’Ercole”, là dove non arriva l’auto, è una lunga valle, porta d’ingresso di quel regno di granito che si estende dalla Valchiavenna al Monte Sissone. Una valle che, come tutti i solchi di così cospicuo dislivello in pochi chilometri di sviluppo, alterna i dolci paesaggi di boschi e radure con i val­loni realmente infernali che cadono a picco dalle montagne incom­benti.

Nell’interminabile Val Codera roccia e vegetazione sembrano dividersi equamente gli spazi, ma è l’asprezza della prima a dare il carattere. La Val Codera, che nel 1668 contava 400 anime in 38 famiglie, ha subito negli ultimi decenni uno spopolamento considerevole. I contrabbandieri non passarono mai di qui: inutile e impossibile anche per loro. Il turismo è qualcosa, ma solo da ieri. Nell’800 i viaggiatori si guardavano bene dal mettere piede in una valle che non portava a nessuna montagna famosa, che non aveva bagni termali, cui non si poteva accedere a dorso di mulo. Così i cacciatori del tempo non poterono neppure trasformarsi in guide alpine come in altre valli più fortunate. Lo sci, anche oggi, è del tutto impraticabile. Soltanto il duro lavoro alle cave ha rallentato il processo di emigrazione. L’assenza di strade car­rozzabili a legame con il mondo è maggiormente responsabile degli ultimi abbandoni in cerca di fortuna altrove.

1 gennaio 1977. Nella e la SDkippy poco prima dell’abbandono.

Da Novate, una mulattiera larga un paio di metri, a gradini di solidi lastroni di granito e ripiani acciottolati, si alza sorretta da possenti muraglioni attraverso un bosco di latifoglie poi, verso i 600 m, comincia a snodarsi con tratti anche scavati su un abisso veramente impressionante. Passammo accanto ad una vecchia cava di granito di san Fedelino. Poi raggiungemmo uno slargo naturale sovrastato da una cappelletta, con un panorama bellissimo sui laghi di Como e di Mezzola. Poi scendemmo in una valletta di betulle spoglie, olmi e castagni per poi risalire alla frazione Avedée 790 m. Qui si aprì la vista sulla parte mediana della Val Codera, circondata da forre e burroni ogni dove. Seguendo l’artistica mulattiera giungemmo a Codera 825 m.

Il villaggio di Codera fa parte dei ricordi più intimi. Era Capodanno 1977, in alto si vedeva il biancore della neve dicembrina, sopra alle case degra­danti e circondate da castagni spogli; la locanda era calda di buonumore e di polenta taragna con l’insalata. Alcuni comignoli fumavano. I pochi abitanti rimasti anche in quella stagione si aggiravano operosi, alcune donne trafficavano nella parte della casa attrezzata per la vita all’aperto, gatti sornioni erano rag­gomitolati al sole di una bella giornata senza vento. Si udivano colpi secchi e cadenzati di martello su piccoli blocchi di grani­to. Aldo Penone, il falegname, lavorava piatti e ciotole di legno che avrebbe venduto l’estate dopo. Celestino Pisnoli riordinava il piccolo museo della valle, voluto dall’Associazione Amici di Codera. Una donna anziana, vestita di nero, usciva dalla chiesa di san Giovanni Battista: dentro, aveva pregato il Cristo che appare a due Santi in adorazione. Sul muro di una casa gli artigli di un’aquila servivano da attaccapanni.

Codera

Il quadro naturale che racchiude la valle è assai severo: ciò non è dovuto solo alla nudità e al vigore delle cime circostanti: è l’accesso all’alta valle, l’impraticabilità apparente di alcuni pascoli, le distese enormi di ganda che dall’alto assediano l’erba. L’impressione è condivisa da tutti coloro che sono saliti fin quassù. Oltre ad una certa quota, oltre alle ultime colonie di ontano nano, quando i lastroni di pietra rimangono i soli inquilini del nostro campo visivo e risuonano dei nostri passi, allora le montagne attorno si risvegliano dal lungo sonno dell’anonimato. In basso, contrafforti, valloni dirupati e risalti ci nascondevano quelle cime che ora invece si delineano. Da quest’alta distesa di placconate giganti questi nuovi profili danno finalmente forma a ciò che prima era solo un nome.

Salita al Monte Cazzola (Alpe Devero)

Da Codera la mulattiera continuava in leggera salita oltrepassando le baite di Corte 839 m e Tiune 945 m tra immani conoidi di detriti scaricati dai valloni di entrambi i lati della valle. Dopo Stoppadura 1190 m e superato un rado bosco, giungemmo a Bresciàdega 1241 m. Lì la mulattiera era sconvolta dai lavori per la costruzione di una strada di uso locale, non collegata con il basso della valle. Poi arrivammo al rifugio Brasca 1304 m.

Eravamo in quella zona limite dove si entra in punta di piedi con timido rispetto, dove il granito eroso dai ghiacciai e dai venti ha costruito un tempio naturale.

In quel luogo “sacro” non c’erano cappelle o stazioni della via crucis, però ugualmente ci sembrava di sgranare un rosario, per fare in modo che il tempo diventasse una meditazione sospesa.

Oltre al rifugio Brasca la neve ormai profonda ci ricordava che quelli erano luoghi da evitare, un tempo si saliva lassù solo se c’era bisogno, rincorrendo un camoscio o una pecora smarrita.

E’ però curioso che a vivi ricordi di questo genere, in apparenza così edificanti, io debba associare un episodio la cui realtà mi lascia ancora oggi tristemente perplesso. Come fu possibile che Nella ed io salissimo a Codera con un cane che amavamo e ne fossimo tornati senza? Certo abbiamo lasciato Skippy in buone mani, non so perché i proprietari dell’osteria di Codera si siano innamorati del nostro cane… ma di fatto, l’abbiamo mollata a loro, presi dal nostro nuovo ma egoistico processo di vita che ci vedeva entrambi sempre più spesso lontani dall’Italia. Non la vedemmo mai più…

Salita al Pizzo Bandiera (Alpe Devero)

Dopo il mesto e imperdonabile abbandono, varcammo su due bellissimi ponti di pietra prima il fondo della Val Codera, poi quello della Val Ladrogno. Risalita una scalinata di pietra in mezzo al castagneto spoglio ci trovammo alle baite di Ci. Superata la Val Grande, e tralasciato il villaggio di Cola, abitato solo d’estate, la nostra intenzione era di percorrere il Trecciolino, il sentiero pianeggiante che collega il piccolo bacino di Tiune con gli impianti idrici di Campo. Entrammo nell’impressionante Vallone di Revelaso, ai piedi del gigantesco e selvaggio Sasso Manduino. Questo percorso è assai istruttivo, soprattutto perché si sten­ta a credere che l’uomo abbia potuto sopravvivere da queste parti. L’a­sprezza dei luoghi ha pochi uguali e ci fece riempire di ammirazione per il lavoro sudato di secoli. Abbandonammo il sentiero pianeggiante in corrispondenza del Sagrà di Pagan (Sagrato dei pagani), due massi avelli che testimoniano la presenza celtica. Da lì raggiungemmo la graziosa conca verdeggiante di San Giorgio, le sue case, piccoli gioiel­li di granito, e la chiesetta romanica. Girato un costone e oltrepassata una cava cominciammo decisamente a scendere in un bellissimo bosco per una ripida mulattiera lastricata in perfetto stato e con qualche passo esposto, fino a raggiungere Novate Mezzola.

Un vetta al Pizzo Bandiera, 9 gennaio 1977.

Tutto il 1976 era stato un anno di grandi letture, filosofie e religioni orientali, ma soprattutto l’epicentro erano prima la psicoanalisi freudiana e poi la psicologia analitica junghiana. Assieme a Nella eravamo stati ospiti per qualche ora di Fosco Maraini nella sua bellissima villa di Firenze. Il 7 gennaio 1977 mi scrisse una graditissima lettera in cui mi ringraziava “di cuore per il bellissimo Mahachakravajrapani Yab-yum” di cui gli avevo fatto omaggio. E aggiungeva: “Da autentico tibetano di spirito sai che la sua apparizione fantastica e mostruosa non deve spaventare, anzi fa allegria e dà sicurezza, come danno sempre i ‘difensori della fede’! Ho gradito molto il tuo libro (Alpinismo di Ricerca, NdA). Figurati quando ho visto Pania Secca e Cadini di San Lucano ho capito subito di spartire con te anche reconditi gusti alpinistici. Se vorrai davvero un giorno pensare ad una libreria orientalistica, di cui in Italia c’è gran bisogno, ricordati che, pur non potendo partecipare in maniera completa alla ventura, sarò felicissimo di aiutarti, di darti tutto il succo della mia esperienza, naturalmente senza alcun corrispettivo, perché tu possa partire bene avviato. Associati però in qualche modo ad un bravo e avveduto commercialista, perché in questi giochi è facile rimetterci le penne finanziarie, anche se uno vince sul piano morale”.

Sullo spigolo Dorn al Torrione Magnaghi Centrale. 30 gennaio 1977.

Un po’ di scialpinismo
Dall’8 al 10 gennaio 1977 andai per la prima volta all’Alpe Devero, con Angelo Recalcati e gli amici Franco ed Elisabetta Strada. Era nevicato di fresco e l’atmosfera era davvero magica. Salimmo già il primo giorno sul Monte Cazzola 2330 m, poi al Monte Bandiera, dov’erano con noi anche Guido Bossi, una Tullia e un Piero. Ricordo che a un certo punto stavo battendo la pista su un pendio, un po’ distaccato dagli altri, quando avvertii un fruscio sospetto: un qualche strato di neve minacciava di staccarsi, così tornai dagli amici per seguire poi il fondo del vallone. L’ultimo giorno nevicava, non riuscimmo neppure a raggiungere la Diga di Crampiolo.

Il 30 gennaio portai l’Angelo Recalcati ad arrampicare. Lui aveva già un minimo di esperienza, ma di certo non si era mai trovato in pieno inverno e dopo una nevicata a salire lo spigolo Dorn al Torrione Magnaghi Centrale! Eppure se la cavò egregiamente.

Il 5 febbraio Nella ed io portammo a Sondrio l’amico Giorgio Daidola, espertissimo scialpinista: assieme a Franco Gugiatti, Maurizio Gnudi e altri dieci amici valtellinesi e valchiavennaschi salimmo tutti assieme a pernottare in una baita e il mattino dopo, ben presto, partimmo alla volta del Pizzo Rodes, una classica scialpinistica che per alcuni però (tra cui Nella) si rivelò un po’ troppo lunga e impegnativa. Ma arrivammo tutti in cima, chi prima e chi (molto) dopo…

Ancora con Angelo Recalcati e Franco ed Elisabetta Strada, ma questa volta con in più Nella, il 26 febbraio da Champorcher andammo con gli sci a pernottare all’Alpe Dondena. La meta era la Rosa dei Banchi, ma la mattina c’erano un vento e un freddo proibitivi. Salimmo in cima, per la cresta sud-ovest, solo Angelo ed io, in mezzo a una vera tormenta. Rinchiusi nei sacchi piuma, gli altri tre erano rimasti in baita senza neppure osare di accendere ancora il fuoco… Franco, in milanese, disse a Nella che avevamo “un bel becco”.

In vetta al Torrione Magnaghi Centrale dopo la salita dello spigolo Dorn. 30 gennaio 1977.

Ci fu un’altra splendida escursione il 5 e 6 marzo, questa volta alla capanna Corno e al Blinnenhorn 3378 m. In partenza eravamo i soliti coniugi Strada e Recalcati, più Guido e Giovanna Bossi e Walter Gandini (il mio vicino di casa). Ma anche lì, per questioni di allenamento, arrivammo in cima al Blinnenhorn solo Angelo, Franco ed io.

La nuova conoscenza con il ticinese Romolo Nottaris portò me e Nella a fare una capatina ad Arolla (Vallese) e alla Cabanne de Vignettes. Era il 16 aprile ma nessuno quel giorno della nostra numerosa compagnia riuscì ad andare oltre.

Altra numerosa brigata il 24 aprile verso il rifugio Vittorio Emanuele II, da Pont Valsavarenche. Il 25 salita al Gran Paradiso con gli sci, assieme a Nella, Alberto Costa, Enrica Costa, Michele Costa, Anna Costa, Franco Strada e un amico sardo.

Ricordo che fu in quel periodo che iniziai un mio percorso interiore. Scelsi con cura l’analista: era il dr. Lino Tosca, che aveva lo studio in piazza sant’Agostino a Milano e mi riceveva per un’ora ogni mercoledì. Fu un’esperienza che durò, con qualche interruzione di mesi, per tre anni circa: i colloqui con quell’uomo e con i miei sogni mi cambiarono la vita, dandole un indirizzo preciso al quale non ho mai abdicato, neppure oggi. Tosca e le mie letture junghiane mi aprirono alla vastità e alla ricchezza dell’universo interiore, un mondo che spesso cozza con le convenzioni e con quanto magari fino a quel momento perseguito. Un universo che ti costringe a prendere decisioni che si riveleranno giuste solo in seguito e che anzi all’inizio appaiono impossibili, a volte autolesioniste.

L’ascensione al Pizzo Rodes (Alpi Orobie valtellinesi)

L’8 maggio ripresi a scalare, e lo feci con un compagno d’eccezione, Gian Piero Motti. Con noi, sulla via della Fessura alle Rocche di Biollé, era anche il giovanissimo Marco Scolaris. Poi il 15 maggio fu la volta di Finale Ligure, ormai diventata il centro d’arrampicata più famoso in Italia. Ci andai con Piero Ravà e salimmo la Rocca di Perti per la via Flavia e per la via Luisella con variante Calcagno. Assieme a noi, sulla prima, era anche Gianni Calcagno con un suo amico, Nando.

Il 24 marzo 1977, da Fallowfield (Manchester), mi aveva scritto Joe Tasker, che l’anno prima, assieme al compagno Pete Boardman, era stato protagonista della fantastica impresa al Changabang. Siccome aveva in programma, perché invitato, di partecipare alla fine di maggio al Festival di Trento, mi chiedeva se potevo arrangiargli una visita al calzaturificio Asolo (per il quale io lavoravo). Cosa che ovviamente feci volentieri.

Quasi in vetta al Pizzo Rodes, 6 febbraio 1977.

Un altro personaggio con cui intrattenevo rapporto epistolare era Gigi Mario, l’ex bancario romano diventato nel corso del tempo maestro Zen e aveva anche aperto una scuola in Umbria, a Scaramuccia. Anche lui, in una lettera del 29 maggio 1977, mi interpellava per questioni di materiale, scarpe Asolo, zaini Lafuma. All’inizio della missiva mi ringraziava perché aveva saputo che desideravo che alcuni conoscenti in comune lo salutassero gentilmente da parte mia, ma aggiungeva anche che non gli risultava che noi ci conoscessimo. “Anche io, sebbene non con l’autorità delle tue scalate, parlo di un ‘alpinismo di ricerca’, anzi bisognerebbe dire di ‘ritrovamento’ e addirittura non uso neanche la parola ‘alpinismo’ per non partire già fuori strada. Ma naturalmente con pochissimo successo, anche se quelli che vengono ad ascoltare le mie rarissime conferenze si mostrano d’accordo con le mie tesi. Il difficile comincia quando si parla delle terapie e allora spariscono tutti”.

Il 2 giugno gli risposi. Dopo una digressione volta a descrivergli cosa stavo vedendo dalla finestra (canarini ingabbiati e passeri), gli confermai che ci eravamo già incontrati tanti anni prima, ai Massi di San Nicolò (Pozza di Fassa), nel 1964. Gli precisai che ero assieme ad alpinisti che certamente erano suoi amici, Franco Mangia, Salvatore Bragantini, Paolo Cutolo. Quanto alla ‘ricerca’, beh, forse eravamo noi i ‘ricercati’, o gli ‘esclusi’, visto come la gente scappa quando gli si propone di risolvere dei problemi… Infine naturalmente passavo al discorso pratico di zaini e calzature. Consumismo, paura in alpinismo e coraggio di parlarne furono gli argomenti di una sua successiva lettera, del 6 giugno. Ci si stava avviando a una reciproca conoscenza e ne ero felice.

Angelo Recalcati lascia l’Alpe Dondena per salire alla Rosa dei Banchi, 27 febbraio 1977.

Hermes il messaggero
(scritto nel 1981)
1977, maggio. Da molto tempo ormai mi sentivo esiliato. Per alcune ditte produttrici di articoli per alpinismo svolgevo un lavoro che mi portava spesso a contatto con i più svariati ambienti, tra le sezioni del CAI più lontane tra loro sulla carta e per mentalità. Proponevo agli istruttori delle scuole merce con sconto e facevo così una sorta di promozione per le ditte. Ciò mi costava perché contribuiva ad un esilio più punitivo. Non solo non avevo più l’alpinismo da spartire con loro, ma addirittura ero passato dall’altra parte, dal lato del commer­cio. In realtà non avevo abbandonato le mie gite con gli sci, non avevo mai completamente smesso di arrampicare, ma era come se tutto ciò non dovesse essere saputo. Volevo ricostruirmi partendo dalle mie stesse ceneri, dovevo distanziarmi da coloro che vogliono essere sem­pre fedeli al proprio personaggio. E perché di ceneri vere si trattasse occorreva che anche gli altri le riconoscessero come tali, senza essere sfiorati dal dubbio. Ma ero stufo di guerra, ero stufo di esilio. Anch’io come Ulisse aspettavo su un’isola che Hermes il messaggero venisse a chiamarmi.

Ma dai tempi di Itaca ad oggi molto è cambiato. Hermes fu nel frattempo chiamato Mercurio, in seguito venne evocato solo nei pro­cessi alchemici e solo di recente gli si è ridata una qualche importan­za. Oggi Hermes rivive nei camionisti, meglio ancora nei conduttori di T.I.R. Sono i messaggeri, presiedono al traffico internazionale di merce e tramite l’autotreno sono i re delle strade. Ai piedi Hermes portava i calzari alati, oggi i camionisti hanno i pneumatici; entrambi sono composti d’aria. Viaggiano giorno e notte, per loro non esiste lo spazio né il tempo.

Angelo Recalcati quasi in vetta alla Rosa dei Banchi, cresta sud-ovest, 27 febbraio 1977

Avevamo idea di andare a Trento, al Festival della Montagna. Nessuno ci aveva invitati, ma ci sembrava bello comparire ugualmente e magari conoscere qualche straniero, inglese o francese; ci sembrava utile tastare il polso all’alpinismo, capire in anticipo le nuove direzioni e le nuove sensibilità. Avevamo programmato di partire il giovedì mattina. Alle ore 13 del lunedì precedente ricevetti una telefonata:

«Pronto, qui è uno degli Scoiattoli di Cortina. Sei Alessandro Gogna?».
«Sì, sono io».
«Ah, ero qui di passaggio con il camion, volevo salutarti».
«Ma per che cosa è, per questioni di lavoro, per gli Scoiattoli?».
«Volevo salutarti, se non ti disturbo».
«No, no, vieni pure alle 15, se hai l’indirizzo. Dove sei adesso?».
«Sono a Concorezzo, ma ti trovo, sta tranquillo».

Franco Strada sale verso il Blindenhorn, 6 marzo 1977.

Trascorsi le due ore che mancavano all’appuntamento ponendomi un mucchio d’interrogativi. Chi era costui e cosa voleva? Io non conoscevo nessuno degli Scoiattoli, se non di nome. Non ho mai parlato con nessuno di loro. Da chi ha avuto il mio indirizzo? D’ac­cordo, sulla guida telefonica. Ma lo stesso qualcosa non quadra. E poi cosa c’entra il camion?

Alle 15 esatte suonò alla porta. Era un tipo piccolino ma robusto, giacca nera da camionista, un leggero odore di stantio, di fumo e di vino. Accento veneto. Entrò con fare rispettoso, ma con sicurezza. Lo feci sedere, gli offrii del vino piemontese.

«Questo dolcetto non credo lo beviate spesso dalle vostre parti!».
«Infatti no, dalle nostre parti è tutta un’altra roba. E poi, quando sei in giro, non puoi mai bere bene, in questi bar e ristoranti l’è tutta una roba andante…».

Mi raccontò che aveva fermo il camion in dogana a Concorezzo, un paese a circa 20 km da Milano. Il discorso andò subito sulle strade, sulla vita del camionista, sulle avventure che capitano a loro ogni giorno, sulla nebbia.

Verso il Blindenhorn, 6 marzo 1977.

Io cercavo di portarlo un po’ sulla mia strada e intanto riempivo i bicchieri e facevo il caffè.
«Ma, scusa, tu come ti chiami?».
«Io mi chiamo Romolo Pezzei».
«Ma sei anche guida alpina, oltre che camionista?».
«Certo che sono guida».
«Ma quando svolgi l’attività di guida?».
«D’estate, d’estate. Il resto del tempo giro col camion».

Non mi soddisfaceva per nulla quel dialogo e perché era un po’ forzato e perché mi sembrava di suggerire tutto io. Ma d’un tratto il Pezzei ebbe un’uscita che mi tolse qualche dubbio:
«Ci vieni anche tu a Trento, al Festival? C’è un convegno sulle guide alpine e saremo presenti anche noi».
«Certo che vado, parto da qui giovedì mattina».
«Sarebbe importante che venissi anche tu, c’è bisogno di gente come te per far capire come stanno le cose!».
«Ma io non sono guida».
E che importa? Tu devi venire e basta. Lo sai che ti hanno invitato…».

Salita da Arolla al Col des Vignettes, 16 aprile 1977.

Mi consolai, almeno non era un impostore del tutto. Ma volli ugualmente andare a fondo e gli chiesi se gli Scoiattoli lo avevano incaricato di qualcosa con me, ma Pezzei mi diede una risposta assai vaga, probabilmente non capiva che io mi riferivo alle promozioni di materiale alpinistico. Pensai che forse stavano organizzando una spe­dizione.

«Certo che l’anno scorso è stata proprio una tragedia quella vostra dell’Huascaran!» buttai là. Erano morti due Scoiattoli nel tentativo di salire la parete nord.

«Ah, quella c’è rimasta proprio sul gozzo» fu la risposta, senza aggiungere altro. Più tardi però disse: «Vorremmo organizzare una spedizione in Himalaya. Là sì che ci sono delle grandi montagne. Per esempio il Cerro Torre…».

Nascondendo la mia sorpresa per le sue scarse cognizioni geografi­che, gli mostrai una fotografia e lui senza esitare mi additò il progetto di via nuova: con il dito tracciò esattamente il percorso di Maestri…

«Comunque potremmo parlarne con tutti voi al Festival» dissi conciliante.
«Allora vieni, eh? Guarda che sei stato invitato».
«Io non sono stato invitato, non mi è arrivata nessuna lettera da Trento».
«Sì, sei stato invitato».

Verso la vetta del Gran Paradiso dal rifugio Vittorio Emanuele II.

Lo lasciai da solo con un pretesto e corsi nell’altra stanza a telefonare alla Segreteria del Festival. Ebbi conferma che non ero stato invitato, né come ospite né come osservatore alla tavola rotonda sulla professione di guida alpina. A questo punto pensavo che il Pezzei aves­se orecchiato da chissà chi quello che mi aveva detto e che comunque non era mai andato in montagna, né sulle Ande né vicino a Cortina. Pertanto volevo solo togliermelo dai piedi. Per di più la conversazione languiva, perciò mi alzai e gli feci capire che avevo altre cose da fare. Mi raccontò ancora di avere un rifugio al Passo di Giau, vicino a Cortina. Lo teneva sua moglie e rendeva abbastanza bene. Ormai si era alzato e si era rimesso il giaccone. Mi ringraziò del vino e dell’ospitalità, poi mi disse che se passavo dalle sue parti avrei dovuto andare a trovarlo nel suo rifugio. Lo assicurai che certamente non avrei mancato di salutarlo e di bere un bicchiere con lui. Era già sulla porta quando si piazzò sui due piedi e a indice puntato mi disse:
«Guarda che se non vieni… ti metto una bomba!».

Non avevo ben chiaro se si riferisse a Trento, al suo rifugio o a chissà che cosa, ma ormai ci stavamo salutando definitivamente. Sulle scale mi disse:

«Ci vediamo a Trento, quindi. Conosci quel bar-pasticceria che c’è in piazza del Duomo? Noi saremo lì».

Vetta del Gran Paradiso, 25 aprile 1977.

Stavo ancora raccogliendo le idee, quando suonò il campanello. «Scusa, avresti mica 5.000 lire da prestarmi? Vorrei comprare qualco­sa per mia figlia qui a Milano e i soldi li ho dimenticati nel camion».

Tirai fuori 10.000 lire e gliele diedi. L’obolo imprevisto mi fece almeno realizzare che il povero Romolo avrebbe bevuto ancora un po’ prima di tornare a Concorezzo e magari non le avrei mai più riviste. La serata scorse tranquilla. Nella ed io stavamo per andare a dormire, quando a mezzanotte suonò il telefono.

«Sono Romolo, sono al ristorante La Baia, a Concorezzo. Ti telefono perché sono arrivato tardi in dogana e avevano già chiuso. Non posso entrare, non posso dormire nel camion». Sapevo che La Baia esiste veramente a Concorezzo.
«Non c’è posto lì alla Baia?».
«No, qui non c’è posto. Potresti venirmi a prendere?».

Dal rifugio Mezzalama verso il Castore, 19 giugno 1977.

La voce era un po’ esitante e roca. Era di certo ubriaco. Non esitai a rispondere che non avevo alcuna intenzione di passare a prenderlo. Se voleva poteva venire per conto suo. Poteva chiamare un taxi, l’avrei pagato io.

Ero sconcertato. Un uomo, non sapevo chi fosse, mi aveva telefo­nato e mi aveva imposto con le buone di andare al Festival, tirando in ballo bombe e minacciosi “noi”. Di certo era però anche un alcoolizzato che con la montagna non aveva nulla a che fare. Avevo anche paura a farlo salire in casa a quell’ora. Se non fosse stato solo? Telefonai ad Aldo Anghileri, perché sapevo che conosceva parecchi Scoiattoli e gente che girava attorno al loro ambiente. Con voce assonnata mi rispose che non l’aveva mai sentito nominare. Allora telefonai al presidente stesso, Lorenzo Lorenzi. Non so come prese la mia telefo­nata notturna. Ci pensò un momento, poi come illuminato disse:

«Ah, ora ricordo! Romolo Pezzei! Sì, avevano un rifugio. No, ma non è uno Scoiattolo. Sì, fa il camionista, è uno di qua. Non è cattivo, è stato un po’ dentro qualche volta, ma niente di grave. Sì, sì, mandalo via».

Dopo le scuse, lo salutai. Decisi di togliere elettricità all’apparta­mento. Poi staccai il telefono e andai a dormire.

Salita al Castore dal rifugio Mezzalama, 19 giugno 1977.

La Paganella
A Trento, come previsto, andammo e non incontrammo Romolo Pezzei. Forse il noi cui si riferiva erano gli dei dell’Olimpo? L’escur­sione al Festival fu una bella avventura. Per me c’erano tutti quelli che contavano e ci trovammo molto bene assieme, specialmente una sera in un bar-pasticceria di piazza del Duomo.

A fine maggio, a Trento, non incontrai solo Tasker e Boardman. Feci amicizia con i coniugi francesi Isabelle e Henry Agresti e con il mitico Patrick Cordier. La mattina del 29 maggio ci dirigemmo tutti su una via facile, dato il tempo assai incerto, la via normale della parete sud-est della Paganella. Eravamo in otto: Patrick e Tina Cordier, Henry e Isabelle Agresti, Gian Piero Motti e Roberto Bonelli, Joe Tasker ed io. In cima, alla stazione della funivia (oggi smantellata), era nella ad aspettarci. Marco Furlani, promettente grande alpinista, si domandava che cosa ci facesse lì da sola quella ‘bella ragazza’. Ovviamente venne a sapere chi stava aspettando: di fronte a quei ‘nomi’ Marco Furlani si ritirò in buon ordine. Ancora oggi ne ridiamo assieme…

Quella mattina eravamo fuori dell’Hotel Città di Trento ad aspettare Cordier, ospite infelice di cotanto lusso. Aveva appena fatto colazione e si era appena trattenuto a stento dall’alzarsi in piedi e urlare “je vous aime” a tutti! Con noi, ricordo che c’era anche Tiziana Weiss, che presentai a Gian Piero.

In vetta al Castore arrivano anche le cordate provenienti dal rifugio Quintino Sella al Felik.

Finale Ligure
In giugno ci furono due uscite a Finale Ligure: assieme a Piero Ravà cominciai la lunga mia esplorazione personale di tutte le strutture, ma c’erano anche i giovanissimi liceali Marco Lanzavecchia e Luca Mozzati, oltre al vecchio amico Giovanni Favetti. Il 4 giugno, con Nella feci il Diedro-camino a Monte Cucco, con gli altri il Diedro Rosso e la via della Torre sempre a Monte Cucco. Il 5 al Bric Spaventaggi, via Superpanza e al Bric dei Frati la via Francesca. Il 6 maggio, al ritorno a Milano, dopo essere salito con Nella sulla via normale del Torrione Grande del Castello della Pietra, ci ritornai in cima assieme a Luca e Marco per la via diretta della parete sud (via del Caminetto Pisoni-Galletto). Con i due salii anche sulla via normale del Torrione Piccolo.

Tornati a Finale l’11 giugno, fu la volta del Bric Scimarco, via del Pilastro del Re, con Alessandro Grillo, Mauro Oddone e un certo Gianni; il giorno dopo, ancora con Grillo e gli stessi, la mia prima volta sul Bric Pianarella, via dei Calcagni. Nel pomeriggio portai Nella alla Rocca di Perti, pilastro nord-est,  sulla via dei Purchin.

Il 18 giugno non ricordo più come mai mi ritrovai a salire al rifugio Mezzalama per salire il giorno dopo, con il Bis e un gruppo di suoi amici, la vetta del Castore.

Verso la metà di giugno avevo ricevuto, targata “Guardian Lodge, Kathmandu, 5 giugno 1977”, una lettera di Andrea Gobetti, che era partito come vagabondo hippy per il viaggio della sua vita. La lettera è troppo lunga perché io possa riportarla qui: garantisco solo che lo spirito non gli faceva certo difetto. Era il solito irriverente Andrea, con il quale a poco a poco pianificammo la sua partecipazione al trekking in Sikkim che avevamo in programma per ottobre.

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Hermes il Messaggero ultima modifica: 2021-04-10T05:22:00+02:00 da GognaBlog

6 pensieri su “Hermes il Messaggero”

  1. 6
    Guido Bossi says:

    Complimenti, bella memoria! Tanti anni sono passati e tante avventure sono state vissute! Grazie

  2. 5
    Alberto Benassi says:

    Sono stato in val Codera nel 1989 poi ci sono ritornato per la fine dell’anno del 1990 con un gruppo di amici pernottando e festeggiando alla locanda di Codera.  
    Feci conoscenza di  Gualtiero Colzada che poi mi inviò una serie di relazioni di vie che aveva aperto.

  3. 4
    albert says:

     Appunto: salopette, pantaloni al ginocchio e ben 2 giacche a vento..e parte delle tredicesime filarono  via..strano che il marchio sia impegnato ormai in altri sport.

  4. 3
    Carlo Crovella says:

    Forte la foto con la classica saloppette del periodo!

  5. 2
    albert says:

    Festival di Trento del’77, ad una delle serate partecipammo in gruppetto proveniente dalla val di Fassa.Con un  conoscente  della valle  incontrato per caso scambiaste   due chiacchere ,  ti ci presento’  , stritolata  di mano,  e poi ognuno ando’per la sua strada. Non appartenevamo al gran giro, piu’che altro eravamo di quelli della massa anonima che comprava le attrezzature e l’abbigliamento a prezzo intero  con la prima tredicesima …e guardava ai documentari in concorso .

  6. 1
    Simone Di Natale says:

    Ho dei bellissimi ricordi della Val Codera. Ultimo dell’ anno di 4/5 anni fa..circa.
    Andrea aveva appena preso in gestione la Locanda.
    Fuori c’ era una cariola che serviva a riportare a casa la sera l’ ubriaco di turno. La brocca di vino era presente sul tavolo a tutte le ore del giorno e la sera i ragazzi del posto partivano con chitarra e voce fino alle ore piccole. Unico abitante stabile il pastore di capre…soggetto da film.
    Ricordo una passeggiata nel cuore della valle fino al Brasca sprofondando nella neve. Lì fuori, fra gli alberi accesi un fuocherello perchè alla mia compagna e a mio figlio si stavano congelando mani e piedi. Mi dissero che quel posto non vedeva un raggio di sole da novembre a Marzo.
    Il trecciolino era chiuso per via del ghiaccio.
    A Cola il proprietario di una delle abitazioni, appassionato di orsi, ne stava scolpendo uno in un blocco di neve e ghiaccio.
    Posti bellissimi..unica nota stonata qualche visita dell’ elicottero che faceva servizio taxi per qualche riccone che aveva in valle una casa per le vacanze.
    Mi sono ripromesso di tornarci una volta con la bella stagione, ma certamente non in piena estate. Mi hanno detto che ad agosto è un via vai incontrollato di quod..in un posto dove non arriva strada alcuna…mha!!

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