Storia della SUCAI Torino – 2

Storia della SUCAI Torino – 2 (2-2)
(dal dopoguerra all’inizio degli anni ’90)
di Carlo Crovella (gennaio 2013)
Foto tratte dall’Archivio di Crovella, salvo dove espressamente precisato.

Continua da https://gognablog.sherpa-gate.com/storia-della-sucai-torino-1/

Nell’articolo Récit d’ascension al TFR (a firma Mentigazzi, Scandere 1993) viene narrata la salita all’Aiguille Verte per l’Arête du Moine da parte dei due alpinisti, Narodla e Oiez (Arnaldo ed Ezio): pare un’anticipazione del destino che li ha accomunati nella scomparsa durante escursioni solitarie, ma è anche il suggello di una delle tante profonde amicizie del Mondo SUCAI.

Bric Boscasso, Val Maira, gennaio 1976. Si intravede il gruppo di apertura, in alto a sinistra sulla cresta contro il cielo: a scalare, si snoda tutto il serpentone della comitiva SUCAI, forte appunto di almeno duecento componenti.

La mia frequentazione della SUCAI si inserisce in quel periodo, che va dai primi anni ’70 fino all’inizio dei ‘90, periodo nel quale la Scuola SUCAI raggiunse il massimo storico delle sue dimensioni. Nelle uscite invernali ci si muoveva con quattro pullman da 50 posti, più alcune vetture: facilmente si raggiungevano i 210-220 partecipanti.

Non era infrequente che, al momento dei preparativi per la partenza in sci a fianco dei pullman, arrivassero delle auto di sconosciuti, i quali, spaventati dall’immensa folla, facessero immediatamente dietro front, cambiando completamente destinazione. La partecipazione calava leggermente nelle gite primaverili (due giorni con pernottamento in rifugio), ma restava comunque ben superiore alle dimensioni medie degli altri gruppi, dimostrando la capacità organizzativa delle varie Direzioni, che hanno sempre saputo seguire criteri di massima sicurezza.

Con il passare del tempo risalgo il plotone della SUCAI, e arrivo a far parte dell’apertura.

Ecco l’apertura alla Cima di Collalunga (aprile ’79). Si riconoscono (dall’alto) Carlo Giorda (tutt’ora presente nell’Organico Istruttori), Marco Camanni detto Mela, Ezio Mentigazzi (con il berretto) e Roberto Mesturini detto Mestu.

Sul finire del decennio dei ’70 si formò un gruppo di sucaini che si rivelarono, oltre che degli appassionati scialpinisti, anche dei valentissimi arrampicatori.

In questo passaggio “storico” dell’alpinismo torinese (datato prima metà anni ’70) il Mondo SUCAI non fu direttamente coinvolto, ma l’attività dei suddetti climber sucaini può essere considerata come una nostrana “coda della cometa” del Nuovo Mattino.

Questo gruppo di climber sucaini annoverava personaggi del calibro di: Enrico Camanni (noto giornalista e scrittore di montagna, nonché Direttore SUCAI nel 1979), Giovanni Bosio (istruttore nella Scuola), Biagio Merlo, Paola Mazzarelli (qualche anno dopo istruttrice della Scuola), il duo Mela-Alfredo Ghio e, infine, Andrea Giorda, ancora attivo ai giorni nostri, come conferma la sua apertura (estate 2012) di una via nuova su difficoltà estreme alla parete ovest del Becco di Valsoera (Piantonetto, Valle dell’Orco).

La foto (Arch. Alfredo Ghio) immortala Marco Camanni sulle placche finali della Via Itaca nel Sole al Caporal (Valle dell’Orco), uno dei capolavori di Gian Piero Motti, l’ideologo del Nuovo Mattino.

Tra l’altro Andrea Giorda appartiene al CAAI, ovvero è un accademico: Andrea e l’altro “nostro” accademico, Enrico Pessiva (ancora in Organico Istruttori) costituiscono un binomio che dà molto lustro alla Scuola.

In epoche più recenti, possiamo dire che non si è mai interrotta l’attività alpinistica dei sucaini: brilla in particolare la cordata costituita da Carlo Ravetti e Marco Faccenda, capaci di mettere nel carniere, fra le mille altre salite, anche la prestigiosa ascensione del Pilone Centrale al Monte Bianco.

Carlo Ravetti e Luciano Ratto (uno dei promotori del Club 4000) sono i sucaini che, ad oggi, hanno salito tutte le 82 vette superiori ai 4000 metri delle Alpi. Nell’elenco soci del Club 4000 si rintracciano i nomi di molti sucaini del presente o del passato: Marco Bongiovanni, Andrea Bonomi, Riccardo Brunati, Massimo Giuliberti, Flavio Melindo (socio onorario), Marco Orecchia, Enrico Pessiva (attualmente a quota 76 vette di 4000 metri), Alberto Pessiva (figlio di Enrico), Michele Portigliatti, Enrico Rizzetti, Lino Rosso, Mario Schipani, Paolo Stroppiana e Marco Tatto. Non va dimenticato Arnaldo Caroni che ne faceva parte.

Tornando invece al gruppetto di climber a cavallo fra ’70 e ’80, è bene sottolineare che della loro attività ne beneficò anche il Mondo SUCAI in termini di ricadute organizzative: in quelle estati, infatti, vennero realizzate importanti settimane arrampicatorie in Dolomiti e fu strutturata, in modo sistematico, l’iniziativa del Corso di Invito all’Alpinismo, un insieme di quattro uscite finalizzate ad ampliare la frequentazione della montagna anche oltre le “sole” giornate in sci, pur mantenendo i tradizionali parametri SUCAI.

Enrico Camanni durante la settimana SUCAI in Brenta (a sinistra svetta il Campanil Basso): è l’estate del 1980. Foto: Andrea Giorda.

La già citata foto di copertina di Scandere, l’annuario della Sezione del CAI Torino pubblicato fra il 1949 e il 1999, consente di collegarsi alla diffusa e profonda collaborazione che i sucaini hanno sistematicamente offerto nella gestione della Sezione torinese, la sezione “primigenia” del CAI, cioè quella originariamente (1863) fondata da Quintino Sella e compari. Una sezione molto complessa da gestire, per la mole di soci e per le relative problematiche: si pensi solo che il patrimonio dei rifugi assomma a circa 30 unità, con tutti i rompicapo del caso. Nei decenni di mia memoria, vi sono stati tre sucaini Presidenti della Sezione del CAI Torino (Pierlorenzo Alvigini, Ezio Mentigazzi e Roberto Ferrero) e innumerevoli sono stati quelli coinvolti nel Consiglio e soprattutto nelle varie Commissioni, in particolare nella Commissione Rifugi. Attualmente (2012-‘13) vi sono tre sucaini in Consiglio: Ernesto Wüthrich, Nicoletta Marchiandi e Riccardo Brunati, che ricopre il ruolo di Vice Presidente del CAI Torino.

Un altro “ricordo” che ci innesca la copertina di Scandere è espressamente legato alla figura di Ezio Mentigazzi che, negli anni della sua Presidenza della Sezione, ha anche svolto, praticamente da solo, il ruolo di “Redazione” della pubblicazione. Innumerevoli sono gli scritti a sua firma, ma anche quelli di altri sucaini (fra gli altri: Tizzani, Ratto, Camanni), la cui disponibilità a scrivere è stata sicuramente “invogliata” dal redattore capo Ezio. Il ricordo di Ezio “scrittore” apre il sipario su un altro importante punto della storia sucaina: la pubblicazione del libro Dalle Marittime al Vallese, in occasione delle celebrazioni per i 30 anni della Scuola.

Copertina del libro per i 30 anni (1981) della Scuola di scialpinismo della SUCAI.

Si tratta di un testo che fece “epoca” perché in questo libro (uscito a nome dell’intera SUCAI, ma di fatto curato da tre importanti istruttori di quel periodo: Ezio Mentigazzi, Roberto Marocchino e Roberto Scala) gli autori hanno saputo travasare il loro estro esplorativo, proponendo cento itinerari (molto dei quali appunti inediti e/o con caratteristiche molto “particolari”) tutti allocati nell’arco alpino nordoccidentale, già allora ampiamente battuto da quattro precedenti libri, che costituirono i “testi sacri” per intere generazioni di scialpinisti: i due libri francesi di Philippe Traynard e i due italiani editi dal CDA (quello sulle Marittime e quello dal Monviso al Sempione). Personalmente sono molto grato ai tre autori del libro SUCAI, perché è proprio a loro tre che posso ricondurre la mia vena “esplorativa”, assecondando la quale, alcuni anni dopo (a cavallo del ’90) sono giunto ad elaborare e realizzare tracciati in sci inediti o quanto meno mai percorsi in forma di traversata (tra tutti spicca il Tour della Dent Blanche nel Vallese).

Il libro degli itinerari SUCAI, pubblicato nell’ambito dei festeggiamenti per i 30 anni della Scuola, si collega ad un altro rilevante libro, quello pubblicato per i 50 anni della Scuola (2001).

Copertina del libro per i 50 anni (2001) della Scuola di scialpinismo della SUCAI.

Anche in tal caso il testo è uscito a nome SUCAI, ma si tratta dell’egregio lavoro di tre istruttori: Lorenzo Bersezio, Marco Faccenda e Roberto Mazzola. È un libro ricchissimo di aneddoti e statistiche su ogni anno dell’attività della Scuola fino al 2001 e che quindi non può mancare nello scaffale di qualsiasi sucaino, se non addirittura di ogni scialpinista torinese.

Completano le interconnessioni fra SUCAI e libri di montagna i nomi di Mario Grilli (autore di una guida “enciclopedica” di itinerari), Gaspare Bona (editore che, con il marchio Blu Edizioni, ha prodotto numerose raccolte di itinerari scialpinisti, fra cui spiccano quelle curate da Jean-Charles Campana e da Lorenzo Barbiè), Nanni Villani (editore che, ritiratosi nella provincia granda, pubblica Alpidoc , il trimestrale dedicato alle Alpi del Sole), Lorenzo Bersezio (cui accennerò più approfonditamente fra qualche riga) e, non ultimo, Enrico Camanni, fondatore e per molti anni direttore di Alp, nonché attualmente giornalista di montagna e autore di molti libri di successo.

Tornando invece ai “compleanni” della Scuola SUCAI, per i suoi 60 anni (2011), l’intero mondo sucaino ha deciso di impegnarsi in un’impresa ciclopica: la completa ricostruzione della capanna Gervasutti, nel bacino glaciale del Freboudze (Val Ferret): una vera “rivoluzione” nel campo dell’architettura dei bivacchi.

Il nuovo (2013) bivacco Gervasutti al Freboudze. Foto: Gian Paolo Pittatore.

Questa iniziativa, originatasi da un’intuizione di Gian Maria Grassi, si è estesa a coinvolgere decine e decine di sucaini nei diversi risvolti: dalle problematiche tecnico-progettuali (dove spicca il nome di Luca Gentilcore, istruttore in Organico) a quelle di copertura finanziaria, per non dimenticare tutta l’attività di promozione ed immagine (dove brilla la stella di Elena Cottini), il tutto sapientemente coordinato, fra gli altri, da Guido Vindrola e da Riccardo Brunati. La nuova struttura, intorno alla quale è nato un acceso dibattito nell’ambiente internazionale degli appassionati di montagna, potrebbe essere destinata a tracciare una nuova via nella concezione dei bivacchi e piccoli rifugi in alta quota. Ancora una volta il Mondo SUCAI esprime la sua vocazione innovativa anche nei comparti collaterali alla pura e semplice conduzione di una gita. A proposito di bivacchi, è interessante ricordare che già nel 1946 la SUCAI aveva costruito al Col des Clochettes 3477 m, sull’omonima cresta della Grivola) il bivacco Mario Balzola, dedicato al giovanissimo socio travolto da una valanga nel vallone di Vermiana nel dicembre del 1945.

Tornando invece ai “compleanni“ in casa SUCAI, è bene sottolineare che i 70 anni della Scuola non sono poi così distanti: viene naturale chiedersi cosa mai potremmo augurarci per celebrare degnamente un appuntamento del genere. Personalmente coltivo un augurio molto particolare: quello che la Scuola SUCAI sia la prima ad annoverare un Direttore “in rosa”, cioè che sia prospetticamente guidata da una donna.

Le date chiave della SUCAI in rosa sono:
– Nel 1978 Mirella Malfatto è la prima donna ad essere ammessa nell’organico Istruttori della Scuola (si noti che sono trascorsi 27 anni dalla fondazione!);
– Nel 1982 Elena Bollini è la nostra prima istruttrice titolata e la prima donna ad entrare nella Direzione della Scuola;
– Nel 1985 Paola Cinato diventa Presidente della Sottosezione SUCAI;
– Nel 1986 Luisella Guidoni assume il ruolo di Vice-Direttore della Scuola;
– Nel 1989 Paola Cinato e Roberta Seren Rosso assumono la Direzione del Corso di Sci Fuoripista.

Manca quindi il tassello conclusivo di questo trend: ragazze datevi da fare!

In ogni caso, non si può proprio dire che il tema “ragazze” sia del tutto estraneo alla storia della SUCAI. Da che mondo è mondo, i circoli di appassionati di montagna funzionano egregiamente da “agenzie matrimoniali”, perché mettono in contatto persone che hanno in comune un interesse profondo, come è appunto l’andar in montagna.

La SUCAI non è mai venuta meno a questa sua implicita “funzione”. Ma l’elemento femminile ha anche arricchito le “rudi” giornate alpinistiche o le esaltanti serate di Direzione (almeno a partire dalla fine dei ’70), in cui ci si scontrava fino a notte tarda sul proprio turno nel poter annoverare, in gruppo con sé, questa o quella Perla.

Riprendendo il filo del discorso storico, sottolineo che nei primi anni ’80 due sono stati gli eventi rilevanti, con riflessi sulla mia esperienza personale: da un lato ho contribuito, da giovane aiuto istruttore, ad organizzare delle uscite private in sci nelle “domeniche dispari” (come chiamavamo i week end non impegnati con le gite della Scuola) e dall’altro la Sottosezione ha continuato la tradizione delle settimane estive, durante le quali molti di noi hanno affinato l’esperienza in alta montagna.

Foto di Gian Paolo Pittatore alla Punta del Villano, primavera 1981

L’attività di gite scialpinistiche private inizia un po’ timidamente sulle montagne di casa, ma presto si allarga a “vacanze” anche di più giorni in rifugio.

Questa fase culmina con la “spedizione” in sci sulla vetta del Monte Bianco (maggio 1982), nata come un’iniziativa privata e arricchitasi via via col passare del tempo di nuove adesioni, fino a costituire un gruppetto di una trentina di partecipanti. Grazie all’abile regia logistica di Leonardo Reyneri, allora Presidente della Sottosezione, vennero garantiti a ciascuno un posto in funivia e, soprattutto, in rifugio. Di fatto la “spedizione” si trasformò in una gita sociale SUCAI, che raccolse quindi anche questo successo, dopo che la Scuola aveva calcato la vetta del Bianco (Secondo Corso) nell’aprile del 1980.

Nella foto in vetta al Monte Bianco si riconoscono da sinistra: Giuseppe De Donno, Gianluca Argano, Paola Cinato e Carlo Crovella. Foto Gianluca Argano.
Sul Rateau de la Meije (Delfinato), settimana in rifugio dell’estate 1982. Foto Gianluca Argano.

Ripristinando la tradizione delle settimane alpinistiche estive, il gruppo di quegli anni organizzò tre importanti appuntamenti: nel 1982 al refuge Chatelleret in Delfinato, nel 1983 al refuge du Couvercle (versante francese del Bianco) e nel 1984 alla capanna Giannetti al Badile in Val Masino.

La foto del “rompete le righe” a Courmayeur alla fine della settimana estiva del 1983 conferma la “preziosa” presenza di numerose Perle. Foto: Gianluca Argano.

Negli anni ’80 dire SUCAI non significava solo intendere “montagna”, perché il gruppo iniziò ad organizzare una serie di iniziative collaterali, sempre caratterizzate dalla stesso spirito, ma sovente inaugurando nuovi territori di attività.

Pausa di relax durane la G.T.T. (Gran Traversata della Toscana) in bicicletta, estate 1983. Foto: Gianluca Argano.

Normalmente queste iniziative nascevano con un carattere del tutto privato, ma ben presto coinvolgevano numerosissimi partecipanti (quasi tutti del bacino SUCAI) e venivano quindi “fagocitate” dalla macchina organizzatrice SUCAI, rimanendo in calendario ancor oggi, magari con i dovuti accorgimenti del caso. Esemplare a tal fine è la tradizione dei giri in bicicletta, di cui il primo della lista, flagellato dal maltempo, è noto con la sigla G.T.T (Gran Traversata della Toscana) e risale all’estate del 1983.

Il gruppo del giro della Sardegna del 1984: riconoscibile (primo da sinistra in piedi) Giuseppe Mosca, dal cui archivio è tratta la foto stessa.

Gli appassionati dell’attività ciclistica sono stati numerosi, ma sicuramente tra i più entusiasti si possono citare Leo Reyneri, Michi Filippi, Federico Bollarino, Giorgio Malaguzzzi detto Giors, Gabriele Olivieri e i due fratelli Mosca: Francesco e, appunto, Giuseppe detto Peppe. L’attività ciclistica prosegue attualmente nel cartellone dei programmi estivi SUCAI con una fitta rete di appuntamenti di Mountain Bike.

Canyoning nel Briançonnaise

Un’altra attività che ha seguito lo stesso cammino è costituito dal canyoning, “strano” sport che consiste nella discesa di torrenti e forre in ambiente acquatico. Vestiti con mute in neoprene e forti dell’esperienza nelle manovre di corda, alcuni sucaini iniziarono questa attività nella seconda metà degli anni ’80, sia in Val Sesia che nel Briançonnais. Il gruppetto di sucaini, fra cui si distinsero Guido Croci e Carlo Crovella, coniò il nickname collettivo de Le Trote Guizzanti e, negli anni successivi riuscì ad inserire le proprie uscite nel calendario ufficiale della Sottosezione, come ancora oggi accade nel periodo estivo.

Una lunga tradizione ufficiale ha invece sempre contraddistinto la festa di Carnevale, organizzata dalla Sottosezione nella Sala degli Stemmi al Monte dei Cappuccini. A questo importantissimo appuntamento (aperto naturalmente a tutti!), il gruppo degli anni ’80 affiancò una numerosissima serie di altre feste, spesso organizzate per il Capodanno. In un’occasione del genere, i maschietti della compagnia saltarono fuori vestiti soltanto di sacchi neri a mo’ di saio, pensando così di “spaventare” (!) le fanciulle presenti.

Una festa di Capodanno a Vandorno (Biella), metà anni Ottanta. Foto: Gianluca Argano.

Mescolando ancora il sacro con il profano, dai momenti festaioli saltiamo nuovamente in ambito scialpinistico, per ricordare che nella prima metà degli anni ’80 un gruppetto di sucaini ruotava intorno a Lorenzo Bersezio, tutt’ora inserito nell’Organico Istruttori della Scuola.

In quel frangente Bersezio riuscì a pubblicare il suo primo libro, dedicato ad itinerari scialpinistici nel massiccio del Monte Bianco, e con tale obiettivo si realizzarono non poche puntate fra i ghiacciai anche in pieno inverno, seguendo una moda lanciata dai francesi proprio in quel periodo. Tale approccio infrangeva però una legge non scritta dello scialpinismo, legge secondo la quale i ghiacciai vanno frequentati solo in primavera, quando i crepacci sono perfettamente riempiti dalle precipitazioni e i ponti sono più sicuri.

Il primo libro di Lorenzo Bersezio (1982)

Questa attività, seppur svolta esclusivamente durante uscite private nelle “domeniche dispari”, innescò una certa dialettica all’interno dell’Organico Istruttori della Scuola. Tuttavia i componenti del gruppo ebbero la fortuna di vivere momenti indimenticabili, come la notte condivisa alla capanna Leschaux con Christophe Profit (allora astro nascente dell’alpinismo francese di punta), che, con un compagno, era in partenza per un’ascensione invernale alla Nord delle Jorasses. Le cronache, piuttosto confuse, sulla serata narrano di un infortunio in cui incapparono i sucaini: quello di rovesciare la minestra bollente sul pile tecnico dell’astro francese.

La foto ritrae Carlo Crovella e Joelle Gambaro nel bacino d’Argentière, gennaio 1983. Foto: Gianluca Argano.

A proposito di vita ufficiale della Scuola, anche negli anni ’80, la SUCAI non viene meno al suo DNA di “pionieri” nel mondo didattico dello scialpinismo nazionale. Proprio ad inizio decennio, sotto la Direzione di Gaspare Bona, viene introdotto e reso obbligatorio nelle uscite ufficiali della Scuola l’uso di un “apparecchietto” arancione che allora chiamavamo PIEPS, dal nome del primo modello austriaco di colore arancione, e che oggi si chiama invece ARTVA: si tratta del localizzatore dei travolti da valanga, senza il quale oggi non saliremmo neppure alla Cima del Bosco. Poco dopo, con i Direttori Ravetti-Vindrola, a tutti gli istruttori vengono fornite (con obbligo di portarle appresso nelle uscite ufficiali) le pale da neve, altra novità che oggi diamo assolutamente per scontata. Considerato che le sonde da sempre facevano parte del materiale della Scuola, con tali innovazioni si perfezionò quello che oggi si chiama il “kit sicurezza” (ARTVA, pala, sonda) che viene considerato una irrinunciabile dotazione per ogni uscita di scialpinismo.

Degli aspetti assicurativi, la SUCAI si era invece già preoccupata fin dal 1961, stipulando una polizza che copriva la responsabilità civile verso terzi nello svolgimento delle attività sociali, Corso di Scialpinismo compreso. Non esistevano precedenti in materia, tanto che la Compagnia di assicurazione contattata non sapeva come calcolare l’importo del premio!

La caratura pioneristica delle SUCAI nell’impostazione didattica prosegue con l’invenzione del “Secondo Corso”, originariamente (già da fine dei ’70) organizzato in modo sporadico (una o due gite più “toste” per allievi grintosi, a fine stagione).

A metà degli anni ‘80 il Secondo Corso viene introdotto sistematicamente nell’annualità organizzativa e successivamente collegato (con l’appellativo di Corso di Perfezionamento) in modo propedeutico con il Primo Corso (o Corso di Introduzione). L’attuale impostazione organizzativa, che è resa obbligatoria per tutte le Scuole di scialpinismo dalla Commissione Centrale, prevede l’SA1 (introduzione) e l’SA2 (perfezionamento), dimostrando che le scelte SUCAI hanno lasciato il segno. Questo cammino si completa con l’organizzazione, sempre durante gli anni ’80, di un Corso di perfezionamento per aiuto-istruttori o aspiranti tali, l’antesignano dell’attuale SA3 previsto dalla Commissione Centrale.

Nella foto di Carlo Zamiri, detto Zam, è raffigurata la bellissima discesa su firn primaverile dalla Dent d’Hérens: qui poco sotto al rifugio Aosta (maggio 1987).

Il Secondo Corso SUCAI degli anni ’80 comprendeva una serie di sistematici appuntamenti didattici, di cui uno dei più rappresentativi, e temuti dagli allievi, era costituito dal pernottamento in truna (cioè in una “caverna” scavata nella neve). Nell’ambito di una gita di due giorni, il gruppo del Secondo Corso, con zainone contenente materiale da bivacco (fornello, materassino e sacco a pelo), dopo un certo avvicinamento nel pomeriggio, si vedeva impegnato nella costruzione delle trune, all’interno delle quali, trascorreva la notte. La mattina successiva, dopo un’abbondante (!) colazione (autogestita dai singoli), si realizzava una “normale” gita primaverile. L’acquisizione di familiarità con la prassi e la fatica di un bivacco in truna tornerà molto utile ad un gruppettino di sucaini che, durante un raid privato sul versante svizzero del Massiccio del Bianco, fu costretto ad un bivacco di fortuna (marzo 1988), affrontato con cognizione di causa, anche grazie alle frequenti esercitazioni.

La foto (aprile 1986) riprende il gruppo del Secondo Corso alle Montagne di Entrelor, al ritorno (domenica pomeriggio) dopo la classicissima gita all’omonima cima: nei dintorni delle baite si erano costruite le trune, dentro le quali il Corso aveva pernottato. Il primo in piedi da sinistra è Giuseppe Mosca, che ha saputo rivelarsi, oltre che infervorato ciclista, anche un grande appassionato di gite in sci. Nella foto, ad eccezione di tre componenti, “istruttori” dell’uscita (Mario Schipani in piedi con il berretto rosso e, fra gli accosciati, Carlo Crovella in centro e Stefano Ferraris, detto Ginger, secondo da destra), tutti gli altri presenti erano al tempo degli “allievi”.

Per confermare l’elevato livello dei quel Secondo Corso basta evidenziare che molti partecipanti sono successivamente stati, o sono tutt’ora, degli “istruttori”. Per esempio Massimo Bonzanino (nella foto sopra terzo da sinistra in piedi), Carlo Zamiri (secondo da sinistra fra gli accosciati) e, ultimi ma non ultimi, i due loschi figuri in piedi a destra: Riccardo Brunati (con il berretto) e un giovane allievo taciturno, che risponde al nome di Marco Faccenda, detto Fax. Riccardo e Fax saranno fra i principali gestori della Scuola nel corso degli anni ’90, dividendosi le responsabilità fra Direttore del Primo e del Secondo Corso!

A metà degli ’80 è stato il mio turno di svolgere il compito di Direttore. Chi ricopre ruoli di responsabilità in montagna sperimenta sulla sua pelle quanto, in situazioni particolari, risulti “antipatico” agli amici che, in altri frangenti, gli si rivolgono con familiarità e allegria.

Mont Telliers (G.S.Bernardo), febbraio 1986. SCENDERE! Tipica è la situazione che matura in vetta: il gruppone è disteso al sole, sta gozzovigliando e cantando, ma occorre che qualcuno ricordi a tutti che… la fiòca ven mòla!.
Col di Melle (Val Varaita), febbraio 1986. Durante i “miei anni” si sono alternati momenti ludici, come questa gita (con parrucca!), sotto la neve, durante il Carnevale (in un’altra occasione otto sucaini si camuffarono da Biancaneve e i Sette Nani)…
… con altri “spazi” di impegno tecnico-didattico: qui siamo sotto alla seraccata della Tribolazione, reduci dalla Torre del Gran San Pietro (con crestina finale alpinistica e discesa diretta in sci del canale dal colle) durante un’uscita del già citato Corso di formazione per aiuto-istruttori, l’antesignano dell’attuale SA3 (maggio 1987).

Gli anni ’80 sono stati caratterizzati dall’effervescenza dei francesi, che hanno “inventato” o, spesso, “reinventato” molte discipline di montagna, condendole con la loro congenita dose di “bollicine di champagne”: erano gli anni del cosiddetto Edonismo Reaganiano e ogni occasione in montagna era un ottimo pretesto per vivere tale predisposizione d’animo. In questo scenario ideologico prese piede, sempre provenendo d’oltralpe, lo sci di canale, una versione decisamente più addomesticata dello sci estremo che, fino ad allora, aveva coinvolto soltanto pochissimi nomi di levatura mondiale. Lo sci di canale, che oggi ha quasi assunto una dimensione autonoma (cioè esistono appassionati che si dedicano quasi esclusivamente ai canali), allora si presentava come il completamento tardo-primaverile di un’intensa stagione sciistica.

Ecco Ginger, mio compagno di giornata insieme a Stefano Carabelli, al Couloir Davin in Delfinato (600 metri a 40-45 gradi): siamo nel giugno del 1987. Oggi si tratta di una discesa entry level del settore.

Un’altra moda lanciata dai francesi durante gli anni ’80 è stata quella dei Raid in sci: l’idea è vecchia come il mondo, ma ripropone, in chiave moderna ed “effervescente” (come tutti gli anni ’80) il concetto di haute route sciistica.

Copertina del libro di Michel Parmentier

Il libro di riferimento di quegli anni era il frutto della passione di un parigino giramondo, Michel Parmentier, poi scomparso al K2 nel 1986. La moda prese facilmente piede e a noi sembrava che una stagione scialpinistica non fosse “degna” senza almeno un raid in carniere. Dalle Marittime al Bernina, non c’è gruppo occidentale che sia “scappato” alla nostra caccia.

Foto di vetta al Piz Palu (raid del Bernina, aprile 1987): in piedi da sinistra: Nicola Bonzanino (berretto rosso), componente della Direzione, e Gianluca Argano. Accosciati: Monica Bonzanino, Carlo Crovella e Joelle Gambaro. Foto: Archivio Gianluca Argano.
Dietro ad un azzimato Marco Faccenda, il versante nord del Mont Dolent indica che siamo fra i ghiacciai svizzeri del massiccio del Monte Bianco (marzo 1988).

Durante il raid del Mont Dolent si è verificato il già accennato bivacco di emergenza: la compagine era costituita da baldi sucaini, tutti molto allenati e tecnicamente all’altezza della situazione. Tuttavia l’elevato numero di partecipanti creò un certo ritardo in alcuni passaggi obbligati, per cui si giunse troppo tardi all’attraversamento di un ripido pendio proprio sopra al refuge du Saleina (dove era previsto il pernottamento). La neve marcia, scaldata dal sole per l’intero pomeriggio, “suggerì” la rinuncia ad una confortevole notte in rifugio.

Trune per il bivacco di emergenza: Gran Lui (Val Ferret svizzera), marzo 1988.

Applicando quanto imparato nelle esercitazioni, con un mulinare di pale, i quindici sucaini hanno presto scavato alcune trune (di cui si vedono le “entrate”), dove hanno trascorso un accettabile pernottamento. Il giorno dopo, come se nulla fosse, il gruppo ha ripreso l’itinerario del raid, che prevedeva ancora tre tappe in alta montagna.

Durante il Tour della Dent Blanche (Vallese, giugno 1989), davanti alla deserta Schönbielhütte (più di 100 posti a disposizione solo per noi!), Guido Vindrola, detto Il Vindro, e Guido Maccarrone, detto Mec, discettano sulla parete nord del Cervino che incombe direttamente sul rifugio.

Nel raid della Vanoise (1984), oltre ad entusiasmanti giornate al cospetto della Grande Casse, i partecipanti sono stati impegnati nell’imprevisto recupero dal crepaccio di una certa Pilar, tratta in inganno dalla neve del tardo pomeriggio primaverile. Ancora una volta la familiarità con le esercitazioni ha permesso di fronteggiare una situazione di emergenza, che avrebbe potuto evolversi anche in modo spiacevole.

Luisella Guidoni (tuttora presente nell’Organico Istruttori) e la Grande Casse (Vanoise), aprile 1984. Foto: Lorenzo Bersezio.
Questa foto (Arch. Marco Faccenda) immortala l’uscita “patagonia” sulle Terrazze del Gelas dal versante francese, durante un raid (primavera 1987) negli isolati valloni sopra al bellissimo rifugio Nizza, incustodito in quei giorni. Eravamo a un tiro di schioppo dal mare, eppure proprio in questo raid, dove era presente anche Gavino Boringhieri (altro importante istruttore di quegli anni), abbiamo sperimentato che non è necessario andare “lontano” per vivere intense giornate di “sci selvaggio”. Un raid in piena autonomia è infatti un’inebriante “navigazione” in quell’oceano bianco che è la montagna innevata.
Couloir Coolidge al Pelvoux (Delfinato), giugno 1989. La foto evidenzia il look tipico in quel periodo. Foto Stefano Ferraris.

Negli stessi anni ci siamo spesso impegnati in gite un po’ “particolari”, come questa al Pelvoux (Delfinato): primo giorno 1400 m di dislivello su sentiero fino al rifugio; secondo giorno altri 1400 m, sempre con gli sci sullo zaino (ramponi ai piedi), compresa la risalita del Couloir Coolidge; poi discesa in sci direttamente dalla vetta (anche nel canale); infine divallamento sul sentiero, di nuovo senza sci…
Si usavano camicia e salopette “bonattiane”, scarponi San Marco Condor e soprattutto sci Dynastar Vertical, un vero must di fine anni’80, evoluzione degli attrezzi usati nelle gare di slalom speciale di Coppa: due “putrelle” lunghe 195 cm, rigide come l’acciaio, pesanti come il piombo, sottili come grissini… Eppure non era più gratificante arrivare a “sciare” con un’attrezzatura così, piuttosto che con quella dei nostri giorni? Per non parlare dei nostri Padri Fondatori, che affrontavano i pendii innevati con sci di legno, attacchi col cavo e pelli di “vera” foca…

Per questo motivo va portata infinita gratitudine a chi, nelle difficoltà del periodo post bellico, impostò e, successivamente, razionalizzò la “struttura” che ancora oggi ci ospita.

La nostra attività privata ha potuto svolgersi grazie alla crescita tecnica che ciascuno di noi ha coltivato all’interno dell’ambiente SUCAI. In particolare la tradizione didattica della SUCAI ha avuto applicazione specifica in alcune situazioni pratiche (bivacco in truna, recupero da crepaccio…), sottolineando quanto sia importante avere sempre le manovre tecniche “sulla punta delle dita”.

Proprio questo concetto ci permette di addentrarci nelle considerazioni conclusive. Spero che queste righe da un lato non abbiano annoiato il lettore e dall’altro siano riuscite a confermargli due concetti fondamentali: che la Scuola SUCAI è la punta di diamante di un retroterra di attività molto varie (dall’alpinismo ai giri in bicicletta) e che questo mélange di attività ha un evidente fattore comune. Si tratta del famoso “timbro SUCAI”, quel modo di affrontare la montagna (e non solo la montagna), che ha caratterizzato l’attività di oltre sessant’anni. Un “timbro” costituito da un metodico e serio approccio, condito però dalla costante presenza dell’elemento socializzante. Con gli sci o con i ramponi, nei torrenti o sulle spiagge mediterranee, proprio questo è l’elemento che contraddistingue la “sucainità”: un valore comune che si è tramandato di generazione in generazione.

Verso la Cima del Bosco (Valle Susa), metà anni ’90.

Non è qui possibile stilare l’elenco dei nomi di chi si è succeduto nel tempo a gestire le attività SUCAI. Però, prendendo come riferimento la Scuola di scialpinismo, possiamo ricordare a grandi linee la sequenza storica delle generazioni di “manager”. Nei primi dieci anni di attività del Corso, hanno agito i fondatori, cui sono poi subentrati i già ricordati Savi Anziani, che hanno impostato la Scuola secondo criteri che “reggono” ancora oggi. A cavallo fra ’60 e ’70 si è affacciata una nuova generazione, con Direttori del calibro di Flavio Melindo, Andrea Cavallero e Mario Schipani. Nella seconda parte dei ’70 la gestione è stata appannaggio di Gaspare Bona, Ernesto Wüthrich ed Enrico Camanni. Con l’inizio degli ’80 si profila una nuova fase storica: Carlo Giorda, Pierre Giacomelli e il “biunvirato” Guido Vindrola – Carlo Ravetti. La gestione Crovella fa da cerniera con la fase successiva ancora, caratterizzata dai nomi di Giuseppe De Donno, Stefano Ferraris, Marco Poma. Negli anni ’90 la Scuola è abilmente condotta da una nuova schiera di giovani leoni, fra cui cito (scusandomi con gli altri) Riccardo e Mario Brunati, Marco Schenoni e Marco Faccenda (Fax), cioè l’“allievo prediletto” che ha abbondantemente superato il (presunto) maestro.

Non sono invidioso di questo fatto, anzi. Guai a quella struttura che vive per troppo tempo senza passaggi di testimone a nuove generazioni più evolute: è una struttura destinata alla stasi, se non addirittura all’estinzione.

Infatti anche il decennio dei ’90 è risultato a sua volta propedeutico per una successiva era, quella del nuovo millennio, prima con la gestione di Gian Maria Grassi e poi con la nidiata degli attuali “manager”: Enrico Pons, Flavio Blakovic, Marco Bongiovanni, Mario Ciriolo, Beppe Serrao, solo per citarne alcuni (scusandomi con chi rimane fra le righe).

Del periodo sucaino a cavallo con il nuovo millennio io “so” poco in prima persona. Infatti con l’inizio degli anni ’90 il mio destino personale ha previsto un cambiamento strutturale, che mi ha portato dapprima a svolgere il compito di istruttore presso la Scuola UGET e poi addirittura ad interrompere l’attività in montagna o, quanto meno, a dedicarmi ad altri “allievi”.

Ho però ritrovato il Mondo SUCAI a partire dal 2010. Molti visi sono stati per me una novità, molte cose sono profondamente cambiate nella tecnica e nella didattica, ma una costante ho immediatamente riconosciuto: il timbro SUCAI. Merito di chi ha contribuito alla gestione del Mondo SUCAI nel suddetto intervallo temporale, un Mondo SUCAI che, oggi, come nei “miei” anni (per non dimenticare i decenni a me precedenti), si conferma sempre florido e ricco di entusiasmo. Non si è perso, anzi si è particolarmente rivitalizzato, il clima di fittissima interconnessione fra la Scuola e le altre attività della Sottosezione, interconnessione che è la peculiarità specifica del Mondo SUCAI.

Non potendo ringraziare tutti i “miei” maestri SUCAI (numerosissimi), mi limito a citare tre nomi: Carlo Ravetti e Guido Vindrola sono stati i Direttori che mi hanno immediatamente preceduto e nella cui Direzione mi sono fatto le ossa come “giovane di bottega”. A loro, affianco Mario Schipani (Skip) che, in una delle sue innumerevoli rentrée in Direzione, grazie alla sua sconfinata esperienza, ha svolto il ruolo di mio interlocutore privilegiato nel varo delle riforme organizzative di metà anni ’80. Mario Skip è forse la quintessenza dell’essere sucaino, capace di occuparsi a più riprese della Scuola e, contemporaneamente, di risultare per decenni un attento ispettore della capanna Gervasutti.

Come siano davvero andate le cose nei vent’anni di mia assenza (1990-2010), qualcuno ce lo racconterà, prima o poi: io stesso sono curioso di scoprirlo.

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Storia della SUCAI Torino – 2 ultima modifica: 2019-12-28T05:44:19+01:00 da GognaBlog

51 pensieri su “Storia della SUCAI Torino – 2”

  1. Perchè dovrebbero scandalizzare i legami fra andare in montagna e la vita civile (e quindi “politica”)? Da sempre io sostengo che il “vero” andare in montagna è una scelta ideologicamente impegnata e, in quanto tale, è una scelta politica e quindi si porta dietro i collegamenti con la quotidianità. Guarda che conosco di persona “quel periodo”, cui ti riferisci (dialogo con Pasini). Per ragioni anagrafiche io NON ho vissuto in prima persona il ’68 (sono nato nel ’61), ma tutto il resto sì e sono molto contento di esser stato catapultato dal destino nel bel mezzo dei cortei studenteschi/sindacalisti e nei cosiddetti “anni di piombo”. Il mio primo intervento pubblico, di contenuto politico, fu in una gremitissima (circa 300 individui, seduti per terra, sui davanzali interni, molti in piedi…) assemblea nell’aula magna del Liceo D’Azeglio (corrisponde, mutatis mutandis, al Manzoni milanese), da me frequentato. L’Ordine del Giorno riguardava un fenomeno chiamato degli “indiani metropolitani”… lo ricordi? sicuramente lo ricordi, Milano ne era l’epicentro. Da sinistra lo si salutava come il “nuovo ’68”: a quel punto si era nel ’77 e io avevo 16 anni. Chiesi di mia iniziativa la parola e, di fronte alla folla inneggiante con falce e martello, gagliardetti della FIGC, megafoni impazziti e stridenti, esposi le mie critiche al fenomeno. Curioso che più o meno siano le critiche che, oggi, rivolgo al contemporaneo fenomeno delle sardine: semplice espressione (legittima, per carità) di voglia di festeggiare, di fare goliardate, di starnazzare insieme. Da solo fronteggiai la folla inferocita, ma non ho avuto problemi, sono ancora qui a raccontarlo. Non stupitevi, quindi, se a 58 anni di età non ho timore a dire pubblicamente quello che penso: non lo facevo neppure a 16 anni!
    —-
    Torniamo invece alle scuole (di montagna) di consolidata fama e alla loro natura di élite intellettuali. Credo che alcune considerazioni siano estendibili ad altre importanti scuole (Parravicini, Righini, Gilardoni, CAI ligure…), ma io parlo con assoluto fondamento storico per quel che riguarda la SUCAI. C’è una cosa importante che non è stata ancora detta. Non la troverete scritto da nessuna parte e nessuno la riconoscerà (neppure sotto tortura), ma il vero scopo di scuole di tale natura NON è il semplice insegnare ad andare in montagna. Lo scialpinismo (o l’alpinismo per altre scuole) è un banale espediente per addestrare i futuri esponenti della classe dirigente (nel nostro caso torinese). In questo vedo il collegamento più profondo con le università dell’Ivy League: è un’impostazione molto british, l’ho rivista anche in persone che hanno frequentato Oxford o Cambridge (non a caso le univesità dell’Ivy League sono nel cosiddetto New England). Ovvero: l’impegno in attività sportive o di outdoar serve per forgiare le personalità, per far emergere e poi affinare le  caratteristiche individuali come leadership, carisma, autorevolezza (anche autoritarismo, perché no), capacità organizzative, di programmazione, di gestione dei team di lavoro. In una parola si affinano i futuri manager. Non è un caso se, qui a Torino, nei principali organigrammi cittadini, prima o poi, ci si imbatte in un sucaino (magari del passato, ma sucaini lo si resta per sempre). Scorrete l’ordine degli Ingegneri, dei commercialisti, degli avvocati, addirittura fra i magistrati, fra i primari ospedalieri… ebbene c’è sempre un sucaino. La SUCAI è collegata a doppio filo con il contesto sociale della borghesia torinese: preleva i giovani rampolli, li svezza e li addestra ad essere efficaci manager (ma anche mariti attenti, padri premurosi, cittadini responsabili) e li restituisce all’impegno civile quando sono ben “corazzati”.  Non è casuale tutto questo: organizzare e gestire un gruppo di oltre 200 persone, che si muovono su terreno potenzialmente molto pericoloso, è come amministrare una piccola (neanche tanto piccola) azienda. L’organigramma è molto simile a quello aziendale: c’è un Amministratore Delegato (il Direttore), un Consiglio di Amministrazione (la direzione, da 8 a 12 componenti a seconda degli anni), poi ci sono i top manager (istruttori titolati o di grande esperienza e prestigio), i quadri intermedi (gli istruttori giovani e giovanissimi), gli operai specializzati (i distintivati: il distintivo viene riconosciuto agli allievi che concludono il ciclo didattico di 3 o 4 stagioni) e infine le maestranze (gli allievi). Salendo di carriera, affini progressivamente le capacità organizzative e ti preparati al mondo. Quante volte, in 35 anni di attività professionale, ho applicato metodologie organizzative e ragionamenti manageriali che ho affinato nella mia esperienza in una scuola importante e numerosa! Praticamente ogni giorno. Lo stesso vale per tutti gli altri che hanno frequentato il mio stesso ambiente. Per questo motivo, io sono immensamente riconoscente nei confronti di tale ambiente, anche se ora come ora, per mia scelta personale, preferisco fare gite private in pochi o addirittura da solo.

    Infine una considerazione (davvero) conclusiva: chi “cresce” in ambienti del genere non potrà mai approvare il modo superficiale e scanzonato che caratterizza l’alpinismo di massa degli ultimi 15-20 anni. A vivere la montagna come semplice “sport” si spreca un’occasione d’oro per migliorarsi come cittadini, come genitori, come lavoratori. In qualche commento precedente mi è stato rinfacciato, come sintomo di meschinità e grettezza d’animo (cito a memoria, ma più o meno è così), il fatto che osservo e annoto mentalmente gli altri individui, anche gli sconosciuti, che incontro durante le gite. Un po’ dipende dall’occhio professionale del direttore (se devi “governare” 200 persone, ti si affina l’occhio clinico e le “cose” le vedi al volo…), ma un po’ agisce un principio del genere: “come ti muovi in montagna esprime come vivi nella realtà di tutti i giorni”. Guardo gli individui che incontro in gita, come camminano, come impugnano i bastoncini, come sono vestiti, che zaino hanno, se il loro comportamento è adeguato alle condizioni del momento…e in poche battute so dire, con elevata probabilità, che individui sono, che vita fanno, che pregnanza hanno le loro giornate. La montagna è spietata: ti mette a nudo come personalità. Se hai i moschettoni agganciati all’imbragatura in modo rigoroso, magari soggettivo, ma secondo una “logica” che, a colpo d’occhio, emerge al volo in chi ti osserva, ebbene sei rigoroso, ordinato, efficace anche nella vita, come lavoratore, come genitore, come cittadino. Se invece agganci i moschettoni a casaccio, una volta di qua e una di là sulla tua imbragatura, e’ molto probabile che tu sia disordinato, sconclusionato, incoerente anche nella vita di tutti i giorni. In tal caso è irrilevante che tu faccia o meno il 9c: ai mie occhi sei un cannibale. Viceversa chi “esce” da scuole di prestigio, cioè da scuole (di montagna) che costituiscono una ideale Ivy League, ebbene non potrà mai essere un cannibale. Non resisti per anni ed anni in scuole del genere, se non hai la corretta mentalità e se non ti presti ad essere forgiato. Forgiato come alpinista, ma soprattutto forgiato come lavoratore, genitore, cittadino. Una volta che sei forgiato, lo resti per sempre: il conoscente che ho incontrato qualche giorno fa è uno scialpinista/alpinista di medio livello (non scia sui 50 gradi, non fa il 9c), ma a distanza di 35 anni dimostra che si “muove” abitualmente come gli abbiamo insegnato. Questa è la grandezza ideologica delle scuole di prestigio.

  2. Così arriviamo a 50. Bingo. Crovella sollevi temi grossi e apri ferite: Juventus/Milan ; Torino/Inter; comunisti gramsciani torinesi, miglioristi milanesi. Roba non da gognablog. Se vuoi capire quel passato leggi “La rossa provvidenza” apparentemente un giallo by Ludovico Festa, mio compagnuccio migliorista poi diventato berlusconiano come il gramsciano Ferrara, responsabile fabbriche del PCI torinese.
    ps. Anche in Italia esiste una Ivy League de facto con tutte le sue luci e ombre. Appendino, Sala, Giorgetti sono bocconiani. Anche Salvini era partito così facendo il liceo Manzoni (i milanesi mi capiscino) poi altri oggetti del desiderio probabilmente lo hanno portato fuori strada. Il 40% degli Amm. Delegati italiani viene da 4 università: Bocconi, Politecnico Milano, Politecnico Torino, Economia alla Sapienza Roma. Ricerca SDA Bocconi a cui ha collaborato un mio stretto familiare e pubblicata sul numero 3 del 2019 di economia e management. Ci insulteranno per questo dialogo. Prometto che da oggi mi disintossico.
     
     
     

  3. Ho dovuto attendere di transitare in ufficio per disporre di una connessione “professionale” e fare una ricerca come si deve. mi sono informato su un concetto espresso da Pasini (mi pare sempre nel commento 4), di cui non ero al corrente (come vedete, il dibattito è sempre utile). in effetti il parallelismo delle scuole di prestigio con le università USA della  Ivy leage è molto azzeccato. Le scuole di prestigio, specie in campo scialpinistico (in alpinismo, invece, è già un po’ diverso) non si propongono come target strutturale quello di  formare elementi di punta (cioè singoli soggetti “al top”), bensì quello di creare un elevato livello medio di chi si “laurea” al termine del loro ciclo didattico. Per rendere comprensibile a tutti: non interessa che ci siano pochissimi laureati con  110 e lode (magari controbilanciati da molti 90 e da tantissimi abbandoni), ma interessa che tutti si laureino esclusivamente  nel range 105-110, pagando il prezzo implicito di evitare che qualcuno esca con voti inferiori. Per puntare a questo obiettivo, storicamente ricercato nell’esperienza della SUCAI (in modo più o meno inconscio), si crea un ambiente che va “oltre” la semplice attività sul terreno (nel caso, lo scialpinismo): si crea un ambiente culturale, di elaborazione di idee, di dibattito, anche ad ampio raggio, di sperimentazioni, di innovazioni, di invenzioni o introduzione pionieristiche. In poche parole: una élite intellettuale (ecco il collegamento con l’Ivy league). chi si “laurea” in ambienti del genere (a maggior ragione se poi ne diventa anche  “rettore pro tempore”) è talmente intriso di tale mentalità che prosegue anche in futuro lungo quella linea.

    tuttavia, vorrei tornare all’interessante matrice di Pasini.
    non voglio fare nomi espliciti, ma conosco fior di istruttori (tendenzialmente di alpinismo),  non solo torinesi, che magari hanno votato per tutta la vita PCI (e quindi a prima vista sembrerebbero propensi ad una visione collettiva o “riformista” per dirla alla Pasini) , ma ciò nonostante sono estremamente “selettivi” in montagna, non  perdonano nulla e implicitamente determinano una selezione naturale che punta SOLO  a generare nuovi alpinisti al top, lasciando per strada chi non ha i numeri. altro che “collettività”: in quel clima vige una filosofia da “pietà l’è morta” molto più che nelle élite intellettuali.
    sinceramente non so quale impostazione abbia meno”difetti” agli occhi di chi , invece, ama la plebeizzazione dell’andar in montagna. Per me non sono difetti, né gli uni (élite intellettuali) né gli altri (“pietà l’è morta”) perché il mio DNA cultural-alpinistico li valuta come elementi positivi (e, viceversa, vedo come negativa la plebeizzazione della montagna).
     

  4. Lo leggerò grazie. Lui però era il capo del servizio d’ordine di Lotta Continua. Io amo le classificazioni: la sinistra è fatta da tre tribu’ : i riformisti (Amendola); i sognatori( Bertinotti) ; i paranoici (capitale =oggetto fobico: Sofri). Io sono sempre stato nella prima. Brindiamo.

  5. Sinceramente me ne sto a casa tranquillo a leggere. Ho sempre fatto così da almeno 30 anni. Detesto la feste comandate, anche quella laiche come Capodanno o San Valentino. Qui in montagna leggo una media di un libro-un libro e mezzo al giorno. A proposito di montagna e impegno politico vi suggerisco un libro che ho letto qualche g fa: Impossibile di Erri De Luca (Feltrinelli). È nota la frequentazione dolomitica di De Luca, napoletano trapiantato in Veneto per lavoro. Cosi come è nota la sua fede comunista. Il libro coniuga, seppur indirettamente, il modo di muoversi in montagna con l’impegno politico (un po’ “malsano”). Piacerà molto a Pasini, se ho imparato a conoscerlo da ciò che scrive. Buonanotte!

  6. Penso che dovremmo accettare che certe zone diventino dei climbing e trekking park come fanno altrove e proteggerle in modo professionale per evitare il degrado e garantire ragionevole sicurezza. Altre zone dovrebbero essere difese nella loro natura selvaggia con le unghie e con i denti. Questo ho visto fare ad esempio nelle montagne rocciose. Ma questo è un punto di vista ”riformista” nella matrice che ho proposto e penso avremo modo di discuterne nel 2020 in seguito ad altri stimoli.

  7. A proposito delle scuole italiane, per quel che mi ricordo penso alle guide dei ministeri del recente passato: Moratti, Mussi, Gelmini, Carrozza, Fedeli e ora a un ministero con doppia guida (come per le automobili la scuola guida?), ma anche ai vari personaggi con ruoli importanti nel cai e in altre associazioni dette di volontariato.
    Ora capisco un poco di più gli “incidenti” un po’ dovunque con feriti e morti, in montagna almeno quasi sempre persone certificate e esperte.
    Se poi ci si concentra su persone che condividono proclami e socializzano in piazza inneggiando alla libertà, allora mi preoccupo parecchio.
    Anno nuovo, chissà, io ci spero.
    (il top è la propaganda sulla sicurezza, ora giunta ai sentieri cardioprotetti)

  8. Giuseppe, su con la vita! E sorridi alle battute innocenti. Si vive una volta sola. ???
    … … …
    Ma Carlo, stasera, ci sarà o no?

  9. Ho già precisato in un precedente commento, mi pare il n. 35, che le analisi sui fenomeni sociali di massa prescindono dai singoli casi particolari, altrimenti non si potrebbe elaborare alcuna considerazione, visto che eventuali eccezioni esistono in ogni fenomeno della vita. In ogni caso le mie valutazioni sul fenomeno sardine, ancorché elaborate autonomamente, coincidono con molti articoli pubblicati sui più disparati quotidiani nella ultime settimane. Aggiungo poi che tutto ‘sto entusiasmo per le piazze riempite è ridicolo  a maggior ragione da parte di sponenti di sinistra (o similia), sia normali cittadini che giornalisti o intellettuali, come per esempio Massimo Giannini. Infatti sde per riempire le piazze è necessario ricorrere all’autoconvocazione via social, ciò dimostra il totale fallimento del PD come contenitore delle istanze social-umanitarie. Che nostalgia per il PCI, che pure ho aspramente avversato sul piano politico fin dagli anni ’70! Il PCI berlingueriano “allevava” con estrema attenzione i suoi giovani virgulti, che, attraverso una faticosa gavetta interna co  relativa e spietata selezione, si fermavano come capaci esponenti politici. Oggi invece è lasciato tutto all’improvvisazione, ma ciò significa che ci sono praterie libere per altre tipologie di voto. Non ci si stupisca, allora, se gli operai oggi votano massicciamente per la Lega: se le proposte contro disoccupazione e crisi aziendale sono… il concerto all’arsenale della pace…beh il risultato politico non può che essere quello descritto. (Non sia considerato fuori luogo questo “sconfinamento” di temi per due motivi: 1 ho risposto a una richiesta 2 anche come si approccia l’andar in montagna è un atto politico).

  10. D’altronde “ci sarà sempre un Bertoncelli, un prete a sparare cazzate” (Cit.)

  11. Caro Carlo, io ti apprezzo anche se non condivido, ma se posso permettermi e con il dovuto rispetto come dicono gli anglosassoni penso che siamo sempre allievi e maestri nel corso di tutta la nostra vita. Tu forse, essendo stato un buon maestro, tendi un po’ troppo a pendere per questo lato. È un fenomeno che ho visto anche nelle aziende: molti fondatori spesso fanno fatica a cambiare ruolo nella seconda parte della vita. Barry Lyndon del maestro Kubrik inizia con la frase “Spesso le qualità che portano un uomo al successo nella prima parte della vita sono le stesse che lo portano alla rovina nella seconda parte”. Non penso sia il tuo caso ma è un avvertimento che non dobbiamo dimenticare mai. Ho visto nel corso della mia carriera l’effetto Barry Lyndon fare un sacco di vittime tra manager di successo, alcuni oggetto di cronaca contemporanea. Non posso fare nomi per vincoli di riservatezza professionale, ma credimi sulla fiducia. Buon 2020.

  12. Carlo, qui corre voce che tu oggi interromperai le tue vacanze in montagna per scendere a Torino. Lí, stasera, all’Arsenale della Pace, chiederai scusa alla giovane “sardina” Penotti.
    … … …
    In ginocchio sui ceci?

  13. Il coinvolgimento nel dibattito del termine “aristocratico” consegue dalla matrice elaborata da Pasini (commento n.4). In precedenza io non lo avevo mai usato. Ma riconosco, con piacere, che la matrice di Pasini è molto arguta e intelligente. Rende molto bene l’idea della distribuzione di ideologie in funzione delle due variabili. Rileggete il commento 4 per comprendere meglio. Non avevo mai utilizzato tale termine (aristocratico), ma le connesse prese di posizione sì. Uno dei miei primissimi scritti di montagna, inizio anni ’80, descriveva – già 40 anni fa, io avevo 21-22 anni – il mio pensiero sulla finalità delle scuole (nella fattispecie di scialpinismo, ma in generale valeva per tutte le scuole del CAI) come meccanismo di selezione ideologica dei frequentatori della montagna. Quindi non sono idee che ho messo insieme ieri sera. Risultati? Al momento siamo nel pieno del boom opposto (perché la società consumistica nel suo complesso spinge in tale direzione), ma ho visto sgonfiarsi tante di quelle “bolle” negli ultimi decenni che non dispero che la moda passi e si torni ad una montagna meno frequentata e più da intenditori: una boutique al posto degli hard discount. L’importante è tenere le posizioni ed “esserci” quando girerà di nuovo il vento. Nel frattempo mi bastano i tanti ringraziamenti che mi esprimono ancor oggi gli allievi formatisi grazie ai miei insegnamenti. Buon anno a tutti!

  14. Il mio capo è stato per anni un baronetto inglese che ha sposato un’italiana e vive adesso ovviamente in toscana. Io vengo da una famiglia operaia comunista e partigiana dell’Ossola. Mi voleva bene e mi ha insegnato cosa vuol dire essere un vero aristocratico. Mi portava sempre a colazione in un piccolo ristorante di Brera e mi ascoltava con attenzione, io giovane consulente venuto dal nulla. Da Michael ho imparato che un leader deve saper imparare e insegnare al tempo stesso. Per imparare bisogna essere umili e positivi e avere mente aperta. C’è sempre da imparare da chiunque, anche da proprio autista, mi insegnava Michael. Purtroppo alcuni sviluppano solo una delle due capacità oppure ne perdono una nel tempo e questo mi rende triste, perché lo trovo uno spreco di potenzialità. Ho superato i 70 e misuro il mio invecchiamento non dai gradi che ancora riesco a fare ma da quanto riesco ad imparare e guardare al futuro e non al passato. Spero che questo mi garantisca una buona vecchiaia e il rispetto dei ragazzi che incontro e che trovo pieni di qualità e a volte mi fanno vergognare delle caxxate che ha fatto la mia generazione. Magari altre ricette funzionano ma io mi trovo bene così e volevo testimoniarlo agli amici di questo blog nel giorno di Capodanno che qui da me arriva dopo causa fuso.

  15. Qui non e’ questione di offendersi. Il punto e’ che c’e’ qualcuno che quando sente un’idea sulla quale non e’ d’accordo allora la giudica automaticamente una sciocchezza. Quando inveve, pur rimanendo solido sulle proprie convinzioni, c’e’ chi prova ad intravedere qualcosa di buono anche nell’idea altrui, magari alla fine per avere convinzioni ancora piu’ solide. Tutto qui.
    non credo valga piu’ la pena confrontarsi con chi stigmatizza il pensiero altrui come stupidita’. I pensieri che abbiamo letto su presunti cannibali, giovani, entusiasmo ecc. si commentano da soli.
    mi piacerebbe in ultimo sapere quali risultati concreti ha portato la filosofia della montagna per pochi, per i soli aristocratici, a maggior ragione visto che si dice che sono anni che questa filosofia viene promossa. Ma vabbe’, lasciamo stare.
    saluti
     

  16. ——  All’amico perduto ——
    “Grazie a tutte queste ascensioni vi ho ritrovati, compagni miei di tante avventure.
    Insieme abbiamo faticato sulle morene, abbiamo tremato di freddo nei bivacchi. Il sole ci ha riscaldati e poi bruciati, il vento accarezzati e poi sferzati. Ci siamo spellati contro il granito e le nostre ginocchia si sono ‘rotte’ scendendo lungo i ghiaioni. Le corde doppie, bagnate, sono state dure da recuperare; a volte si sono incastrate. Il fulmine ci ha frastornati e impauriti. Insieme abbiamo conosciuto e condiviso l’ansia, l’incertezza, la paura. Ma è proprio lassù che abbiamo scoperto in fondo a noi stessi tanta gioia di vivere.
     
    E poi c’è l’amicizia.
    Ai Clocher-Clocheton come al Pic de Roc, alla Sans Nom come alla Peutérey, vi ho ritrovati, solidi compagni. Qui Jean mi è servito da scala, là con Lionel ho diviso un limone; sulla cresta Edouard recupera la corda doppia; altrove Henri mi ha insegnato a scalinare…
    Henri, soprattutto, per molti non sei nulla, ma per me sei ‘il fratello maggiore della Montagna’.
     
    Mi auguro che tutti gli alpinisti abbiano un ‘fratello maggiore’ a cui si guarda con stima e affetto, che sorveglia il modo in cui ci si lega e che, pur iniziandoci a una vita dura, ha per noi premure quasi materne.
    È lui che vi fa partecipi della sua sovranità di qualche istante a quattromila metri e che vi presenta alle cime d’intorno come un giardiniere ai suoi fiori. È lui che si ammira, poiché il rifugio è la sua casa e la montagna il suo regno.
    L’amicizia di un essere così ricco non si compera.”
     
    (Gaston Rébuffat, L’apprenti montagnard ) 
     
    Cosí, Silverio, io ti ricordo.
     Forse un giorno noi saliremo di nuovo il Canalone Neri,
    ma non ancora… non ancora…
    … … …
    P.S.  Lo scritto risale a una decina di anni fa, in memoria del mio fraterno amico Silverio Leporati. 
     
    Il Canalone Neri alla Cima Tosa fu il nostro esame di ammissione all’alpinismo. Io ero giovanissimo. A Madonna di Campiglio avevamo chiesto consiglio al “grande vecchio” Bruno Detassis: «La via è in buone condizioni. Potete andare».
    Pieno di meraviglia per il paesaggio idilliaco, durante una sosta sul sentiero della Val Brenta esclamai: «Che pace quassú…». E Silverio, di rimando, preoccupato per la prova che ci attendeva: «Sí, ma che tormento dentro il cuore!».
    Sapevamo bene che la montagna è una maestra severa. Sapevamo che cosa avrebbe potuto comportare una bocciatura in alpinismo. Tuttavia partimmo ugualmente per il nostro “grande gioco” (“Le grand jeu” di Samivel).
     
    Però allora non disponevo della guida di Buscaini, le informazioni erano scarse e nebulose, e l’equipaggiamento primitivo. “Nani”, il mio ex istruttore del CAI di Modena, qualche mese prima aveva sentenziato: «Chi vuole diventare un ghiacciatore deve salire il Canalone Neri». Il suo commento mi aveva colpito come un verdetto senza appello; a forza di rimuginare, nel corso della primavera quella via si era trasfigurata nelle mie personali colonne d’Ercole, oltre le quali si distendeva l’oceano ignoto.
    A monito, in testa mi riecheggiava l’epilogo dell’Ulisse dantesco: « […] infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso». I nervi erano tesi come corde di violino; la concentrazione era la stessa, totale, che mi assorbiva per i miei esami di ingegneria. Tra l’erba della savana avrebbe potuto non esserci nulla oppure, al contrario, una famelica leonessa in agguato, pronta a sbranare la gazzella. Chi poteva saperlo? Chi può saperlo?
     
    «E domani? Chissà…»  In quel fatidico pomeriggio ai Brentei ero comunque ben determinato, perché sapevo di avere scoperto la mia strada.
     
    Il rifugio era ancora chiuso e cosí ci sistemammo nel ricovero invernale. Eravamo soli nella valle, al cospetto della nostra meta che si slanciava maestosa verso il cielo, di bellezza impressionante. Io sentivo l’alpinismo come un’avventura dello spirito e, piú fortunato di Diogene con la sua lanterna, avevo già trovato ciò che andavo cercando.
    Ricordo che ci procurammo l’acqua da un rivolo nei pressi, rammento il sopralluogo lungo il percorso di accesso, ripenso all’emozione dell’attesa, rivivo ogni momento.
     
    Dopo poche ore di riposo, quasi insonne per la tensione nervosa, a mezzanotte e mezzo suonò la sveglia e sotto le stelle ci incamminammo per dare inizio al grande gioco, serio e spensierato al contempo. La neve si era davvero assestata, grazie all’alternanza del gelo e dei tepori primaverili, e l’ascensione si svolse con facilità sorprendente, quasi tutta nel buio profondo di una notte senza luna. «È tutto qui?», avrebbe sogghignato un barbaro. Spuntò il sole, e gli ultimi passi ci portarono sulla cima solitaria.
    Il sogno si era avverato.

  17. Alcune precisazioni. Non è che mi sforzo ad annotare ciò che mi accade intorno, in montagna come nella vita di tutti i giorni: ho sempre avuto propensione a coltivare la capacità di analisi. Non mi costa nessuno sforzo ed è invece una caratteristica positiva, perche’ mi fa sempre riflettere su ciò che mi capita intorno (in montagna come nella vita). Il riferimento alle sardine si impernia sulla corrispondenza fra la loro assenza di espliciti programmi politici (fenomeno peraltro abbondantemente sottolineato dai commentatori del settore) con la superficialita’di fondo che caratterizza l’approccio di massa alla montagna, specie degli ultimi 15-20 anni. Il sorriso stereotipato del loro portavoce è stato arguramente “illustrato” dal comico Gene Gnocchi in una recente puntata della trasmissione Di Martedi (La7). In analisi di fenomeni di massa non si sta a sindacare sul caso del singolo individuo. Baumann, quando ha scritto sulla società liquida, mica si è preoccupato, ad ogni riga, di verificate se eventualmente “offendeva” o meno la figlia di Tizio o il nipote di Caio. Non si potrebbero fare ragionamenti di quella natura se si fosse frenati da timori personali. Non essendoci nulla di personale e diretto, non c’è nulla di cui scusarsi. Sarà anche che, come Jepp Gambardella ne La Grande Bellezza, ho raggiunto un’età in cui non ho più interesse a preoccuparmi di questi risvolti. In realtà chi mi conosce da molto tempo sa che non me ne preoccupavo neppure a 15 anni. Antipatia non significa necessariamente incompetenza, anzi spesso c’è relazione diretta fra i due concetti. Il giornalista Marco Travaglio (tra l’altro torinese pure lui) e’ noto per la spiccata antipatia e presunzione, eppure ha una competenza come pochi altri suoi colleghi. Le mie idee sulla montagna, in particolare su una monagna per pochi, non le ho elaborate solo da qualche mese in qua, ma le esprimo e le metto in pratica da tempo immemore. Chi mi conosce lo sa. Infatti anche in un ambiente concettualmente “aristocratico” come quello in cui sono cresciuto, io sono sempre stato uno degli esponenti più radicali dell’ala più aristocratica (il termine va sempre inteso in termini ideologici). Le mie posizioni politiche (politiche e non partitiche) sulla montagna sono quindi esclusivamente personali e non devono essere estese all’intero ambiente in questione. Infine non è che “solo” adesso viene fuori che “cannibali” è il termine gentile da me usato per indicare la stupidità (nella fattispecie in montagna). È sempre stato sottinteso. Absit iniuria verbis. Ciao!

  18. Non saprei se definire triste o patologico il trascorrere una solare giornata con pelli e sci, accompagnato dalla famiglia, ad osservare gli altri gitanti, annotando nel taccuino mentale gli errori osservati, le sequenze degli altri, i riti e la loro ortodossia secondo il messale SUCAI.
    Ma avendo del tutto ceduto il posto al suo personaggio, Crovella mostra perfino orgoglio nel raccontarcelo e ripetercelo. Ora i cannibali sono diventati stupidi. Credo che Ginesi abbia ragione, il problema centrale e’ il non saper invecchiare. Ma e’ roba comune e di per se’ ce la si potrebbe cavare con qualche innocua mania. Invece qui si unisce ad una immodestia piuttosto singolare per un torinese, che sballa totalmente il senso della misura, sopratutto di se stesso. Blaterare di artistocrazia, di scuole di elite, di nobilta’ essendosi totalmente autoassegnato i titoli travalica ampiamente il ridicolo. Dovrebbe sorvergliarsi, ma non lo fara’. Temo che continueremo a leggerne delle sue. Urgerebbe un nipotino da accudire. 
    Tuttavia suggerisco a Enri e Penotti di non prendersela, non vedo come un tale personaggio possa essere prese sul serio…
     

  19. L’accenno di Bertoncelli e’ molto  pertinente e lo ringrazio di cuore per averlo fatto. Non a caso si è già parlato anche in questo blog de L’apprenti montagnard proprio a mia firma (19/5/18)
    https://gognablog.sherpa-gate.com/lapprendi-montagnard-di-rebuffat/
    Il binomio di Rebuffat: “Entusiamo e lucidita’”. I vari Enri del caso continuano a fare riferimento solo al primo elemento, entusiasmo, snobbando invece il secondo, lucidità, che invece fra i due e il più importante. Ed è quello che, purtroppo, è stato oscurato.

    Sintetizzando in conclusione. Ciò che sfugge ai vari Enri del caso è il seguente principio: ciò che rileva in montagna non è la passione (più o meno intensa), né l’età o l’appartenenza a questa o a quella generazione storica. Ciò che rileva è la contrapposizione intelligenza/stupidità.

    Nei decenni pre 2000 la montagna era relativamente scomoda e questo funzionava da deterrente contro l’invasione incontrollata della stupidità. Purtroppo negli ultimi 15-20 anni la montagna è stata resa estremamente più comoda: più rifugi, dotati di tutti i comfort, più impianti, più strade, soprattutto maggior evoluzione tecnologica di materiali, abbigliamento, alimentazioni ecc. La conseguente plebicizzazione della montagna ha aperto le porte ad un’orda di stupidità incontontrollata. Il termine cannibale è un mio modo “gentile” per indicare gli stupidi (esempio quello delle soletta al sole di ieri). Non provo nessuna invidia verso i cannibali (come insinuato dai vari Enri), semmai provo compassione, fastidio, disprezzo. È che oggigiorno i cannibali in montagna sono in numero così esteso che producono danni alla montagna e ai non cannibali. Questo è il problema ridotto all’osso. Come fare selezione? Sempkice: tornare a una montagna meno comoda. In automatico si ripropone il deterrente anti-stupidita.
    —–
    Le grandi scuole di montagna, grandi di dimensioni ma soprattutto di prestigio e tradizioni, funzionavano (e funzionerebbero ancora, se volessero) da apparati selettivi anti stupidità in montagna. Ho raccontato che volavano certi “cazziatoni” dopo i quali subentrano solo due situazioni: o non ti facevi piu’ vedere o imparavi per sempre. Tertium non datur. Le scuole di montagna corrispondevano alla funzione sociale dei grandi partiti tradizionali (DC, PCI, PSI ecc): chi emergeva, dopo lunga e faticosa  gavetta, aveva doti di leader politico e sapeva governarci. Pasini può confermare. Abbiamo salutato, a suo tempo, Mani Pulite come la crociata che ci ripuliva dai ladri e corrotti. E invece, col senno di poi, è stata una jattura: la corruzione sopravvive anche oggi (es fondazione di Renzi o i 49 ml della Lega) e in cambio non abbiamo più l’implicita scuola politica dei grandi partiti, per cui siamo governati dall’ignoranza, dall’impreparazione, dalla stupidità.

    Il principio cardine (almeno in Italia) della società liquida, ovvero “uno vale uno”, ha permesso alla stupidità di emergere fino ai posti di comando, ma è del tutto privo di fondamento sia nella vita di tutti i giorni, sia soprattutto in alcuni risvolti specifici dell’esistenza. Ovvero quelli dove valgono le leggi della natura, come andar per mare, per deserti, in montagna. Torniamo al nostro specifico: pretendere che, sui temi della montagna, ogni opinione abbia lo stesso peso specifico è come aver portato a ruolo di Ministro degli Esteri uno che chiama “Ross” il suo omologo statunitense, che invece si chiama “Mike Pompeo”. E’ la stupidità istituzionalizzata.

    Contro il proliferare incontrollato della stupidità, dell’ignoranza e della impreparazione mi sono sempre battuto e sempre mi batterò, che sia nell’agone politico come sui monti. La montagna è una cosa troppo bella, troppo eletta, troppo “nobile” (d’animo) perché sia infestata dai “Gigino prima di tutto” che oggi si incontrano a ogni passo.

  20. Caro (si fa per dire) Carlo Crovella, ti dò una notizia. Mia figlia è una “sardina”. Anzi è nel comitato organizzatore delle sardine di Torino che ha portato in piazza Castello 35.00 persone. Era a Roma il 14 dicembre in Piazza san Giovanni e all’incontro nazionale del giorno dopo. In questo mese di dicembre ha studiato, dato quattro esami in mese, lavorato (perchè vuole mantenersi autonomamente) e seguito l’organizzazione del movimento delle sardine, dormendo in media 5 ore per notte. Ha una laurea triennale presa con ottima votazione e in anticipo di tre mesi. Frequenta la Magistrale con la media del 30 e ha le idee chiarissime sugli argomenti che citi, ma ha anche la modestia per comprendere che non ha le competenze per dare ricette universali alle problematiche che citi e che con protervia pensi di avere tu. Quindi “il sorriso stereotipato e un pò ebete” il ” svagati, viziati, superficiali e poco intelligenti e poco colti” lo dici a tua nonna o al massimo ai tuoi figli. E qui mi fermo per ragioni di decenza.
    Qui non parliamo più di visioni diverse sulla montagna. Giuro che in 57 anni di vita e trenta di lavoro non ho mai incontrato una persona supponente e arrogante come te.
    Crovella, mia figlia stasera è al concerto di capodanno all’Arsenale della Pace a Torino, invitata per questo suo impegno sociale, la trovi lì per chiederle scusa.
    Ma roba da matti.
    Alessandro Gogna, punzecchi con Marco Lanzavecchia che ha ben altre capacità culturali e di pensiero ma con Crovella  siamo veramente oltre il discutibile e l’accettabile e mi chiedo come sia possibile accettare tale comportamento verbale.
     

  21. Come dicevo in precedenza, mi arrendo. Non c’e’ modo di confrontarsi con chi dice che “ancora una volta non ho capito nulla”. Ammiro chi ha sempre la verita’ in tasca e della vita ha capito sempre tutto, a differenza degli altri che non hanno capito niente. Mi inchino infine a chi ha il metro per misurare il grado di illuminazione altrui. E magari su quello costruirci un modo per selezionare chi in montagna puo’ andarci e chi no. 
    saluti

  22. Giochiamo di anticipo…..
    Un’odore stantio di massoneria alpinistica si alza da questo blog! Vecchi stambecchi maschi dalle lunghe corna ? egoisti, verbosi, autocentrati, permalosi e rissosi, Stanno a parlare della preistoria e di come erano forti e puri e non un commento alla tenera storia di mamma orsa e dei suoi cuccioli e soprattutto nessun accenno alla vera notizia dell’anno destinata a cambiare il mondo della montagna.
    FREE SOLO CERCA CASa
    Lo statunitense lo ha annunciato in questi giorni di festa attraverso i suoi canali social“Sanni McCandless ha accettato di sposarmi”. Honnold ha poi concluso con un divertente “Marry Christmas” (anzichè Merry Christmas”).
    Il commento di Sanni: “Mi ha chiesto, vuoi continuare a fare quello che stiamo facendo? E ho risposto sì”.
    E con questo buon fine 2019 

  23. Enri, ti consiglio di leggere “L’apprenti montagnard”. 
    Lo trovi nel libro “Il massiccio del Monte Bianco. Le 100 piú belle ascensioni” di Gaston Rébuffat, ed. Zanichelli.
     
    Un messaggio piú chiaro non esiste. Meglio di quelli del buon Crovella. ???
     
    Lí si impara, se ancora lo si ignora, che cosa deve motivare il giovane alpinista nelle sue ascensioni.

  24. Per Enri: ancora una volta, non hai capito proprio niente… eppure gli esempi di oggi sono chiarissimi (commento 24). Non c’entra l’allenamento o la performance o se corri o se scali, se vai piano o se vai forte… Non c’entrano queste variabili. Però c’entra quanto uno sia “illuminato” o meno.

  25. Pensare questo dei giovani e’ un grave peccato mortale. Soprattutto i giovani se infischiano delle elucubrazioni qui presenti. 
    Mi arrendo, ho letto gli ultimi commenti contro i giovani e i cosiddetti cannibali. Non ho altro da aggiungere: viva chi si allena, chi spende la vita per un 8b, chi si allena per il Tor, chi semplicemente si mette un paio di scarpe e corre in salita, chi va sul Breithorn di corsa. Viva tutti questi cannibali.
    in ultimo, ho capito cosa sta’ alla base dei commenti retrogradi e medioevali che si leggono qui: costoro non accettano, piu’ o meno inconsciamente, che le nuove generazioni abbiano prestazioni sportive migliori. Tutta invidia, tutto qui.
    saluti.

  26. I giovani li osservo eccome e lo facciò con profonda attenzione, sia in montagna che in città (credo che in pochi abbiano analizzato le sardine con efficacia e attenzione come ho fatto io in pochissimo tempo). Ma, salvo rarissime eccezioni, li trovo svagati, viziati, superficiali, poco o nulla intelligenti, poco colti, per nulla curiosi…insomma non mi interessano per niente. Ma non è un problema per me, io sono tendenzialmente un solitario, non  ho particolari esigenze di socialità. Ma, limitiamoci alla montagna, i giovani  lì guardo eccome (intendo non solo i 18-20 enni, ma anche fino a 35-40 anni: sono cmq più giovani di me). Constato che, come media aritmetica ponderata, l’attuale modo dei giovani di andare in montagna è superficiale, poco attento, poco cosciente, in una parola e’ un modo complessivamente stupido. La critica che portò loro non riguarda il mancato rapporto con me, bensì il fatto che, con l’aumento generale dell’accesso antropico, siamo invasi dai cannibali. La mia visione “aristocratica” mi fa vedere ciò come un insulto alla montagna, che, in quanto tale, è un cosa eletta, nobile, “superiore”. Una cosa da pochi, che andrebbe tenuta per pochi e non datz in pasto a questa folla insignificante.

  27. Che sfiga Carlo. Incontri solo allievi o cannibali. Io sono fortunato. Incontro fantastici giovani maestri. Mi hanno insegnato a tallonare e a lateralizzare, così non mi sdereno le braccia quanto affronto quei modesti strapiombi che ancora mi permetto in parete. Io gli ho insegnato l’autobloccante Garda e come cavarsela a scendere se perdi sia discensore che moschettoni(massimo della sfiga “worst scenari”) Non ci credevano che il mio istruttore mi avesse lasciato ustionare la spalla insegnandomi la Piaz: “coglione! Così ti ricorderai per tutta la vita a proteggere palle e spalla” 90% allievi maschi , 100 % istruttori. Nella mia azienda lo chiamavano “reverse mentoring” ovviamente senza avere la più pallida idea di chi fosse Mentore e che compito gli avesse assegnato Ulisse prima di partire. Con questo meccanismo ci siamo evoluti finora come specie e come sottospecie alpinistica.

  28. Vi rubo ancora due minuti magari tre. In questi gg trascorro una piccola vacanza in montagna (Val di Susa). Scrivo al mattino e poi da metà pomeriggio, perché tutti i gg vado a fare gite con gli sci. Mica 2000 m di dislivello! Gite da 1000-1200 m, ma tutti i gg, fa bello da una settimana e conto di stare ancora un po’. Cerco di evitare itinerari affollati, ma in inverno le alternative sono poche e poi spesso ho con me moglie e figli e quindi non mi caccio in valloni sperduti. Sulle puntarelle invernali c’è sempre un po’ di gente. Mi diverto ad osservarli. Esempio di cannibale, incontrato proprio oggi: uno ha calzato gli sci per la discesa e, volendo aspettare l’amico, si è messo al sole, seduto sulla neve. Quindi ha piantato le code nella neve e teneva gli sci verticali, con le solette che ci cuocevano al sole. Nessuno insegna più che non  si fa mai. Appena costui si è rizzato in piedi, sotto le solette si è formato uno zoccolo immenso di neve. Sembrava sui trampoli. Sarà ancora là a metà discesa. Tipico esempio di uno destinato a fare caxxate in serie: anche se gli correggi questa, ne ha subito un’ altra in serbo. Perché? Perché non ragiona, perché è superficiale, perché per lui la montagna è divertimento e svagatezza. Faccia pure, ma prima o poi commetterà una caxxata più grave delle altre… viceversa per muoversi con efficacia in 200 prrsone, ognuno sapeva a memoria che cosa fare in qualsiasi momento e in particolare che sequenza seguire appena arrivati in vetta: 1) cambiarsi maglia sudata e vestirsi 2) togliere pelli e pulire sci e attacchi da neve e ghiaccio 3) mangiare e solo per 4.to sbracarsi e cazzeggiare (se le condizioni lo permettono). Ogni singolo individuo del gruppo di 200 sapeva a memoria che si deve fare così e solo così  perché in tal modo ti puoi spostare anche con gruppi di quelle dimensioni in piena sicurezza. Chi non  seguiva la sequenza si beccava un  cazziatone da cui o non veniva più o imparava per sempre (ecco cosa intendo quando dico che le scuole devono fare selezione. Selezione ideologica, non necessariamente tecnica). Ebbene tutto sto preambolo per raccontare che l’altro ieri, su una delle tante punte qui intorno, ho incontrato un mio vecchio allievo, cioè uno che frequentò la scuola quando io ero direttore. Parentesi: dire “mio” allievo è sbagliatissimo, perché il lavoro didattico era svolto, anche in quel frangente, da un organico di 35-40 istruttori, tutti molto compatti nell’impostazione. Però ho detto mio allievo per far capire ai lettori che costui è uno dei tanti che ha imparato ad andare in montagna in quel preciso periodo. Ebbene, io ero già in vetta e mangiucchiavo il mio pezzo di toma con  pane casereccio, quando lui è arrivato, ci siamo messi a chiacchierare (in genere ci vediamo una o due volte l’anno in situazioni del genere), lui mi ha chiesto dei mie famigliari e io dei suoi. Senza particolare malizia, ho osservato il suo comportamento da arrivo in vetta. Ebbene a 35 anni di distanza, ha replicato la sequenza che gli avevamo insegnato. L’ha fatto chiacchierando, quindi significa che è un riflesso automatico. Sono assolutamente convinto che lo faccia in ogni sua gita. Beh, vi confido che mi ha dato uno sprazzo di felicità. Ecco uno che “sa” andare in montagna perché ha imparato in quel periodo. Come vedete non c’entra il 9c, non c’entrano la performance di punta, c’entra invece il modo in cui si muovono, con o senza sicurezza, i normalissimi alpinisti/scialpinisti medi. Questa forma mentis era quello che insegnavano le scuole dei decenni scorsi e che invece si e’ perso nell’attuale modello didattico CAI, incentrato su nozionismo esasperato, prassi, tabelle, definizioni, manuali e cose così. È un male trasversale a tutte le scuole e non  a questa o quella istituzione. Non mi stupisco se da questo modello falsamente moderno escano allievi che continuano ad avere delle magagne di fondo. Magari discettano a perfezione della ricerca arva, ma lasciano le solette al sole e non riesconi a scendere per lo zoccolo. Ho fatto ezpkiciti esempi di scialpi simo perché in questi gg svolgo questa attività, ma mutatis mutandis, i concetti valgono anche per alpinismo, arrampicata, escursionismo. Insomma per l’ “andare in montagna”

  29. Ho fatto la Parravicini a Milano negli anni 70 e so di cosa parli Crovella. Erano i famosi corpi intermedi che strutturavano la società civile, come i partiti di massa. Con i loro modelli,valori e disciplina, meccanismi di selezione. Oggi quel mondo non esiste più e dubito possa essere ricostituito nella società “fluida”. Anche il mondo della montagna si e articolato in modo diverso. Io vedo Milano: le scuole rimangano anche se con minore prestigio, poi c’è sempre il Cai che ha comunque numeri importanti, poi ci sino le palestre e poi c’è internet. Ad esempio io vedo che le palestre sono diventate un luogo importante di aggregazione e di trasmissione di valori. Io conosco una delle due grosse realtà milanesi, Via Fantoli, e vedo istruttori bravi e appassionati, scambi generazionali e  eventi interni ed esterni cin grande partecipazione. Bisognerebbe scriverci sopra. Certo lo stile e tutto il resto è molto diverso ma io sono un ottimista. Forse sarà il pragmatismo ambrosiano. In altri paesi esistono comunità importanti a livello locale e a livello nazionale con dimensione sia fisica sia internet che svolgono un ruolo chiave. Ho tradotto un articolo su alcune di queste in USA che dovrebbe essere pubblicato qui prossimamente. Quindi il quadro si muove e i futuri storici dovranno allargare al loro visione. Capisco che qualcuno si irriti nelle rievocazioni di un mondo che non c’è più.Ma forse è un problema di comunicazione. Io parlo molto con i ragazzi della palestra  e impariamo a vicenda.

  30. Non sono un fautore del vecchio a tutti i costi e mi piacerebbe molto che il  “nuovo” producesse solo effettivi passi avanti nell’alpinismo come hanno fatto, in altre epoche, tutti i nomi illustri citati nei commenti precedenti. Invece vedo, con desolazione, che l’estensione numerica dell’accesso ai monti ha aperto la porta a una smisurata folla senza capacità cognitiva. Sono questi i cannibali, non i corrispondenti odierni dei Profit o dei Boivin. Mi limito a guardarmi intorno, nella mie gite private, e registro una moltitudine di cannibali. È un fenomeno di massa, non di punta. La peculiarità delle Istituzioni di prestigio è che forgiavano (in rari  casi forgiano ancora) in ogni singolo partecipante un profondo senso della montagna. Figuratevi, oggi come oggi, portare in giro 200 cannibali! Invece era possibile muoversi in 200 (tra l’altro quando non esistevano cellulari, internet, GPS, e dove le uniche previsioni meteo erano quelle del Colonnello Bernacca… altro che i bollettini di oggi!), a volte in traversate complicate e anche su itinerari mai relazionati in precedenza, proprio perché ogni singolo individuo, anche il più imberbe degli allievini, sapeva sempre in autonomia cosa fare, come farlo, quando farlo. Questa è la ricchezza delle grandi scuole di prestigio, non solo scialpinistiche e non solo torinesi (potrei snocciolare un elenco smisurato, ma per ragioni di spazio lo rimando). Oggi sarebbe impossibile muoversi in quel modo, per certi versi “militaresco”, perché il dominante pensiero collega alla montagna un alone di spensieratezza, cioè di svagatezza, di superficialità, di ignoranza (nel senso latino del termine). In una parola un alone di cannibalismo. Non per colpa delle scuole, che cercano di arginare questo fenomeno (chi più chi meno), ma per l’evoluzione dei tempi. Oggi è il tempo delle “sardine” (che sono il corrispondente cittadino dei cannibali): si trovano in piazza per fare festa, cantare “bella ciao” e impegnarsi in balli gruppo. Provate a chiedere loro cosa farebbero sull’Ilva, sulla TAV, sulla prescrizione, sulla lotta all’evasione, sull’immigrazione… Provate a chiederglielo: vi guardano senza idee, con il mezzo sorriso stereotipato (e un po’ ebete) del loro portavoce. Il disimpegno elevato a sistema. Viceversa le grandi scuole insegnavano (e in alcuni casi insegnano ancora) a “impegnarsi”, come ci si “impegnava” nella vita civile appartenendo ai partiti tradizionali, sia di qua che di la’ (Pasini mi ha sicuramente compreso).
    —-
    Infine confermo che l’idea che infondono molti vostri commenti è quella dello starnazzar da oche, senza un costrutto, senza profondità di analisi né acutezza di valutazione. Legittimo che ci sia spazio anche per questo tipo di espressione, ma altrettanto legittimo che ci sia libertà di valutazione (da parte mia) circa le vostre prese di posizione.

  31. Massimo, con la tua richiesta di una definizione “di moralità e poi di moralità in contesto montano” ti stai arrampicando sugli specchi. Altro che 9c…

  32. premesso che io sono anagraficamente più vecchio che nuovo e che non sono ne un fan di chi fa il 9c nè le corse in montagna, mi sono limitato a dire che mai mi sognerei di catalogare gli uni dalla parte dei buoni e gli altri da quella dei cannibali.
    o peggio, di fare graduatorie morali (a colui che ha espresso questa perla, poi, chiederei di dare una definizione filosofica di moralità e poi di moralità in contesto montano…) 
    Sono  visioni vecchie e stantie e stanno rendendo vecchio e stantio questo luogo. non è un problema, semplicemente leggo e frequento meno perchè ultimamente prevale questa gruppuscolo di persone che si autoincensano e parlano solo fra di loro, ritenendosi gli eletti.
    A Crovella invece  rammento solo, visto il curriculum professionale che così spesso sbandiera,   che c’è una sostanziale differenza fra  criticare  idee e scritti (cosa che ho fatto io in maniera colorita) e, invece, qualificare l’interlocutore come ignorante e scemo (il contrario di colto e intelligente) o come  oca strarnazzante:  è una china pericolosa, con la quale ci si può fare parecchio male, laddove simili modalità vengano usate in un contesto pubblico. 
    bye bye

  33. Posso anche accettare la critica che chiede a taluni di impegnarsi di piu’ nella pubblicazione di articoli piuttosto che limitarsi a dissentire (dissentire, non starnazzare). Ma se in alcuni casi ho scritto cosa accade la’ fuori e’ solo per portare un po’ di realta’ in articoli che’, altrimenti, rischiano di profumare solo di chiuso e stantio. Il fatto che la diatriba fra vecchio e nuovo, cannibali e non, riemerga cosi spesso, e’ dovuto dal fatto che qui si scontrano vecchio e nuovo e ognuno vuol vedere solo il proprio orticello.
    mi spiace sporcare questo articolo, ma tutti coloro che criticano la modernita’ in nome di una montagna a numero chiuso mi direbbero che ne pensano di: Profit, Escoffier, Berahult, Edlinger, Sharma, Steck,  Ondra, Alex Puccio, Ansior Hauer, Kilian Jornet, Francois Cazzanelli, Huber, Honnold, Caldwell..? mi fermo. Tutti cannibali, maledettamente cannibali, tutti con un grado o un cronometro a cui riferirsi. L’alpinismo, la scalata, la montagna, la falesia e’ questo. Se vogliamo ne parliamo. Se no facciamo finta di essere rimasti al passato. E rileggendo i nomi che ho fatto posso dire che tutti o quasi si rifanno ai Bonatti, ai Preuss…. non sara’ la semplice evoluzione dell’umanita’? Caro Crovella io sono perfettamente d’accordo con lei sullo sperare un ambiente montano piu’ solitario e meno frequentato. Ma dobbiamo anche guardare la vita che va avanti. Proviamo a dialogare con chi va in montagna in modo diverso da noi senza colpevolizzarli aprioristicamente, senza dire ” io si e tu no”. Magari insieme si trova qualche buona soluzione. E comunque sappia che nel mentre che noi perdiamo il nostro tempo a digitare su una tastiera, qualcuno sta’ agendo, scala, si muove e quindi temo sia ormai fuori della portata di raccomandazioni o pistolotti che da qui vorremmo inviare. 
    Un buon anno a tutti

  34. C’è una spiegazione a tutto. Spesso contribuisco ad articoli a più voci che escono senza indicazione dei singoli autori, altre volte svolgo compiti di redazione (cioè rivedo articoli di altri, spesso dovendosi riscrivere da capo). Altre volte ancora, per scelta degli editori, non vengono citati i nominativi degli autori (è il caso di pubblicazioni istituzionali). In ogni caso per fugare agli occhi di Dino M ogni dubbio sulla fondatezza delle mie affermazioni, faccio un copia e incolla dell’elenco contributori di Quadrante Futuro:
    https://www.quadrantefuturo.it/altri-collaboratori.html?start=10
    In generale non comprendo le specifiche annotazioni, specie in questo contesto dove non mi pare proprio di aver citato alcun riferimento extra-montagna.

  35. Mi sono letto l’articolo di Crovella ( della cui linea di pensiero, non condivido nulla).
    Come al solito scrive bene e in maniera sciolta; il testo trasuda un profondo amore e orgoglio per la SUCAI. Ho letto di Crovella anche alcuni articoli di montagna e cercato sul web anche articoli o testi professionali per cercare di capire come in una persona con i suoi trascorsi, possano nascere e crescere posizioni, per me, non condivisibili relative alla montagna e alle scuole. Dai testi di montagna ho trovato articoli veramente gradevoli; altro non ho trovato. Perciò il modo di scrivere provocatorio che utilizza nel blog, su altri argomenti, mi è francamente incomprensibile. Le continue precisazioni, l’ostentazione dei successi professionali etc credo tolgano serenità ad un dibattito che potrebbe essere interessante. Pensi Crovella se ciascuno di noi, nel redarre un  post, facesse l’elenco dei suoi successi professionali o alpinistici…….
    Dino Marini

  36. Non ho mai fatto lo psicologo clinico ma qualche cosa mi è nota. Andare per mare, per monti, sport, impegno politico, sociale, religioso non risolvono i casi importanti. Servono come prevenzione di base a incanalare e sublimare. Vale per giovani e vecchi. La depressione senile è più diffusa di quella giovanile. Per quello continuo ad andare per monti e mare e a impegnarmi come posso. Ne uccide più la depressione che la repressione si diceva negli anni dei Nuovi Mattini. Mi dispiace di averti provocato l’orchite, vedrai che poi passa. Ecco la saggezza degli antichi.

  37. Mi dispiace profondamente “sporcare” l’articolo sulla SUCAI (Istituzione cui sono profondamente legato) con polemiche di cosi’ basso profilo. Resta il fatto che chi non condivide certi contenuti può semplicemente passare oltre senza protestare. Molto meglio il dibattito con interlocutori intelligenti e colti, ancorché su posizioni ideologicamente antitetiche, che con il “vuoto” della modernità. Ripropongo infine un concetto chiave: anziché  berciare come oche isteriche nei commenti, impegnatevi a stilare articoli comprendenti le vostre posizioni ideologiche. Alessandro Gogna non ha mai imposto censure di alcun tipo né sui contenuti né sugli argomenti, anzi sarà ben felice di avere altri testi cui dare spazio. Ridicolo invece limitarsi a scrivere commenti in cui si “pretende” che il blog sia come lo desidera il tal lettore o il tal gruppo di lettori.

  38. Si può dire che chi si dedica all’escursionismo nel silenzio della natura è moralmente superiore a chi romba nei boschi con la moto? ed è anche moralmente superiore a chi si droga? ed è pure moralmente superiore a chi esce ubriaco dalla discoteca alle quattro di mattina e con l’auto ammazza un innocente?

  39. ognuno è libero di fare quello che vuole come vuole, in questo paese. nei limiti delle norme che i consociati si sono dati e che raramente rispettano), ma questo è un altro discorso). 
    mentre lo fa, sarebbe auspicabile che riuscisse a non  frantumare parti intime e delicate degli altri consociati  concionando di continuo sulla elevatezza delle proprie vedute.

  40. Lammer o non Lammer, posso continuare ad andare in montagna come a me piace? Grazie.
     
    N.B. Beninteso, rispettando l’ambiente e senza disturbare il prossimo.

  41. Cari crovella&fans, siete semplicemente desolanti nel senso etimologico  del termine. 
    Quanto alla asserita aristocrazia,  quello che viene espresso è semplice e banale vecchiaia. neanche guido eugene lammer scriveva simili pipponi stantii. 
    L’associare invece la tragedia di ponte milvio ai benefici effetti dell’alpe è ancor più imbarazzante.
    La montagna in se non cura nulla, anzi… (quanti sono morti su per i monti dietro al drago che li divorava…?); se qualcuno porta dentro di se un malessere generazionale, morirà tanto a ponte milvio quanto sulla tsanteleina e non sarà certo  qualche gita sucaina lammeriana a fargli intravvedere il nirvana.
    ma andate ancora in montagna, vi guardate intorno, li vedete i ragazzi cosa esprimono e quale energia sprigionano? o pensate di essere il centro del mondo?
    Ma, soprattutto,  mi chiedo come mai  – se il Gogna che regge questo blog (che da qualche mese è diventato irrespirabile nei commenti) è lo stesso che ha scritto “cento nuovi mattini” – non vi abbia ancora chiesto cortesemente di piantarla.
    buon anno :o)
     

  42. La vita è a volte una dura maestra. L’amico/fratello con il quale ho arrampicato per vent’anni ha perso un figlio a 19 anni. Ho visto cosa significa. Adesso mi va bene tutto: Sucai, preti, sardine, Greta, blocchi di plastica…tutto quello che può aiutare, anche poco, chi rappresenta il futuro a fuggire dalla merda che gira in città e non solo. Senza pensare di poter attrarre con i miei gusti di bambino degli anni 50 e di ragazzo degli anni 60 chi è venuto 4o anni dopo. Se qualche casino in più nelle amate montagne crea disagio in me e in altri, lo sopporto e me ne faccio una ragione. In fondo è roba da poco. Qui dove sono ora, di fronte al Pacifico e alla sua immensità sento che siamo piccoli piccoli e che dobbiamo andare avanti senza perdere la rotta e guardando a ciò che è davvero prioritario. Buon anno.

  43. Molto, molto meglio il settarismo della tradizione, se il “nuovo” è rappresentato solo dal becero 9c o dal record del Tor o da mentalità come quella del commento precedente (n. 8). Sono queste (specifiche) nuove mentalità che comportano il peggioramento del quadro antropico sui monti. Sono queste visioni che io combatto convintamente.
    —-
    Viceversa apprezzo molto la matrice elaborata da Pasini. Con Pasini incrocio le lame sovente, a volte anche aspramente, ma colgo in lui una profonda intelligenza e una notevole cultura, elementi che innescano in me un significativo rispetto nei suoi confronti. Credo, da come scrive e da cosa scrive, che sia anche una questione di età.
    —–
    Sì, sono un aristocratico della montagna. Sul piano ideologico, intendo. Non sono aristocratico per estrazione sociale e neppure economica. Ma ideologicamente lo sono eccome, senza dubbio. Ma anche su questo punto la versione torinese dell’essere aristocratico è molto particolare. Avete presente la Juventus? Abbracciava contemporaneamente l’erre moscia dell’Avvocato e il sudore della sala prese di Mirafiori. Li univa, visceralmente. Sarebbe troppo lungo addentrarsi in questo discorso, ancorché molto interessante, ma io ho sempre sostenuto che ambienti come la SUCAI fossero, ai tempi del racconto, la Juventus della montagna. C’era un qualcosa di eletto che univa personalità anche molto diverse in altri risvolti della vita. Rivendico la mia libertà di portare avanti la mia azione politica (politica, non partitica) per un ritorno ad una montagna più “severa”, più nobile, più eletta.

  44. Te pareva che Crovella si autoincensava di aver incensato la Sucai e dava addosso ai cannibali. Quest’ultimo commento mi ha fatto piacere, ha definitivamente messo in chiaro quanto le opinioni di Crovella siano ottusamente di parte. Ed infine se all’alba del 2020 stiamo ancora a parlare di Sucai, senza pensare che la’ fuori c’e’ gente che si allena per il 9c o il Tor in tempo record, beh buon anno a tutti coloro che ancora parlano di Sucai, nel frattempo non si sono accorti che il mondo e’ andato avanti, magari con effetti negativi, ma lasciandosi alle spalle il settarismo ottuso del passato.

  45. Anche se da molto lontano mi ha coinvolto la tragedia dei ragazzi di Ponte Milvio e dei loro genitori. Riconoscenza eterna a tutte le organizzazioni/scuole come la Sucai che portano i ragazzi  in montagna, a qualunque quadrante della matrice appartengano e qualunque attività organizzino, comprese le gare. Anche se si crea casino. La montagna o lo sport non sono ovviamente la salvezza e la prevenzione dei nostri mali, ma aiutano, come hanno aiutato in passato altri giovani e sono meglio della movida urbana. Non me ne frega nulla di sembrare un buonista o un utopista demagogo, ma meglio una persona in più in giro per i monti, persino in moto, di una bara bianca o di un ragazzo vivo ma con la vita rovinata dai sensi di colpa. 

  46. Anche il ricordo unisce e fa gruppo: ”Chi vivrà questa giornata e arriverà alla vecchiaia, ogni anno….farà vedere a tutti le sue cicatrici, …..Da vecchi si dimentica, e come gli altri, egli dimenticherà tutto il resto, ma ricorderà con grande fierezza le gesta di quel giorno”

  47. “We few, we happy few, we band of brothers.”
    … … …
    E adesso non oserete criticare Shakespeare?

  48. Datemi una matrice e inquadrerò il mondo……Sull’asse orizzontale: meno montagna, più montagna. Sull’asse verticale: pochi, molti. Quattro posizioni. In basso a sinistra : gli astinenti (meno montagna per pochi); in basso a destra:  gli aristocratici (più montagna per pochi) ; in alto a sinistra i riformisti (meno montagna per molti); in alto a destra ; gli utopisti (più montagna per molti). Si potrebbe fare un referendum per vedere quanto cubano i quattro quadranti tra i lettori. 
    Nella posizione aristocratica le scuole di prestigio hanno un ruolo determinane per selezionare i pochi: “noi pochi manipolo di fratelli”. Un po’ come in USA le università della Ivy League. Non vedo quindi motivo di critica. C’è coerenza interna anche nel tramandare la “narrazione”,      come si dice oggi, e gli uomini e le gesta ?
     

  49. Ho già più volte spiegato in precedenti post che, oggi come oggi, sono giunto alla conclusione che comitive di 200 persone erano, probabilmente, un elemento di inquinamento oggettivo, ma che vanno assolutamente contestualizzate in un  preciso periodo storico (da metà anni 70 a metà anni 90 circa) in cui la frequentazione antropica era di molto inferiore rispetto a quella dei nostri giorni. Infatti la grande accelerazione dell’accesso antropico ai monti è un fenomeno degli ultimi 15-20 anni. Resta il fatto che le comitive SUCAI, anche quando numerose o addirittura molto numerose, erano caratterizzate da una efficacia senza confronti. Voglio dire che anche negli anni di maggiori dimensioni della SUCAI mi e’ capitato di verificare, in contemporanea, il maggior “casino” di altre comitive di poche decine di individui. Comitive di 40-50 persone spesso esprimevano un disorganizzazione e una serie di problrmatiche nei confronti delle nostre comitive di 200 persone molto efficaci nell’attivita’ sul terreno. Se vi snocciolassi l’elenco delle gite, spesso complesse, in traversata e su terreni di alta montagna, molti attuali direttori di scuole si rifiuterebbe di portarci anche solo 30 persone,  figuratevi 200. Proprio perché provengo da un ambiente dove grandi dimensioni umane hanno sempre convissuto, per imprinting ideologico, con profondo senso della montagna che, oggi  non sopporto quelli che io chiamo i “cannibali”. Il “timbro” SUCAI non convive con le caratteristiche dei cannibali. Purtroppo a livello generale della montagna negli ultimi 15-20 anni si registrano due fenomeni che io giudico negativi in assoluto: un incontrollato aumento degli individui e il fatto che la stragrande maggioranza di costoro non hanno la “testa” giusta, ma sono fondamentalmente dei cannibali.

  50. “Ahi, ahi, ahi, signor Crovella. Lei mi è caduto sull’[…].”
    (Libero adattamento da Rischiatutto, di Mike Bongiorno.)
    … … …
    Caro Carlo, con questo tuo scritto ti sei condannato ad almeno quarantasette commenti di critica senza pietà.
    Te lo sei meritato (“non svegliare il can che dorme”).
    ???

  51. non male, per chi combatte alacremente sovraffollamento e cannibalismo alpino, questa elegia che celebra  centinaia di persone intente a macinare pendii che altri potrebbero godere intonsi…

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