Spunti di letteratura – 2

Spunti di letteratura – 2 (2-2)
Il periodo critico
di Enrico Camanni (1981)
(già pubblicato su Scandere 1981-1982)

Il periodo è critico, ma questa analisi pecca di acriticità. È il risultato di un’indagine personale, appassionata, troppo ricca di amore e di speranze verso gli anni descritti per poter risultare del tutto obiettiva e distaccata. Le certezze e gli ideali del periodo eroico sono stati sepolti. A noi resta il mistero e l’insicurezza di fronte a un futuro che già percepiamo, ma ancora non riusciamo a esprimere.

La seconda metà degli anni Sessanta segna una svolta fondamentale, sociale, economica, di costume, di mentalità. L’alpinismo non è che uno dei mille settori che registra e beneficia di questa formidabile spinta innovativa. Non è una coincidenza che proprio in concomitanza con i movimenti rivoluzionari del ’68 si registrino le prime nuove tendenze nel campo della montagna, segno che i tempi stanno cambiando per tutti e che, volenti o nolenti, il grande mito del benessere industriale è ormai cosa passata. Tra gli studenti del maggio francese si urla giustamente: “anche se voi vi sentite assolti, siete per sempre coinvolti».

Gli effetti sull’alpinismo non sono così automatici come si potrebbe semplicisticamente supporre, ma il legame c’è ed è importante: se in un senso si cerca di “politicizzare” la montagna, inserendo cioè anche l’arrampicata nella sfera del sociale, nell’altro la contestazione diffusa tende a “problematicizzare” in modo nuovo il tempo libero, coinvolgendo cioè le motivazioni più riposte dei giovani che arrampicano.

Gian Piero Motti

Nei protagonisti italiani del nuovo alpinismo e nelle nuove ideologie, e quindi nella letteratura che essi cominciano a esprimere, assistiamo a un processo molto significativo, di cui gli schemi espressivi di Messner sono, ad esempio, un caso emblematico: da Ritorno ai monti, visione idealizzata dell’alpinismo come alternativa toccasana contro la vita disumanizzata della città (quindi ancora una fuga, anche se con la pretesa di un valore universale), agli ultimi racconti di spedizioni solitarie (vedi Nanga Parbat in solitaria) dove la ricerca si fa esclusivamente individuale, completamente disincantata, in piena linea (anche se personalissima) con i tempi. Ma Messner è un caso a sé, per cui ne parliamo in un capitolo a parte.

Tre personaggi ci sembrano caratterizzare in pieno le spinte di rinnovamento degli anni Settanta, tre alpinisti che sanno registrare le ansie e le tensioni del loro tempo e che riescono in questo modo a proiettarsi veramente nel futuro. Sono Alessandro Gogna, Gian Piero Motti e Andrea Gobetti, tre esperienze molto differenti sul piano della realizzazione in montagna, segno tangibile che il volume quantitativo della propria attività alpinistica ha un valore relativo, almeno per quanto riguarda la presa di coscienza di ciò che si vive e di ciò che poi si vorrebbe trasmettere agli altri tramite lo scritto.

Il merito dei tre è appunto quello di saper esprimere i valori e le speranze di quello che sarà definito da Motti il Nuovo mattino (l’alpinismo anni Settanta). In questo sono veramente unici: Gogna e Gobetti con libri completi che, attraverso l’autobiografia, danno tutto il senso di quegli anni; Motti, filosofo dalla percezione acutissima, attraverso articoli e interventi che alimentano e indirizzano tutta una linea di pensiero. La sua Storia dell’alpinismo (vedi https://gognablog.sherpa-gate.com/introduzione-alla-storia-dellalpinismo-1/ e https://gognablog.sherpa-gate.com/introduzione-alla-storia-dellalpinismo-2/) è un’opera interpretativa completa, anche se personale, che propone un’analisi dal valore insuperato. Gogna, Motti e Gobetti vengono da ambienti geografico-culturali racchiusi nel triangolo Genova-Torino-Milano, fulcro della cultura alpinistica tradizionale, ma anche triangolo industriale per eccellenza, con tutti i fermenti, le contraddizioni e le spinte di rottura che ne derivano. Solo per Gobetti il ’68 ha un’importanza centrale nel senso di una partecipazione diretta, ma è indubbio che per tutti le ripercussioni di quegli anni sono ben evidenti, anche se l’impegno totale dell’arrampicata offuscava forse allora la problematica politica in senso stretto. Emerge fortissimo il senso critico che condiziona ogni azione; poco per volta, al seguito di grosse crisi e sentimenti irrealizzati di cambiamento, emerge l’inutilità dell’arrampicata e del successo fini a se stessi, anche se vissuti in modo intenso e apparentemente gratificante. Si scopre con angoscia che il senso della propria vita non è per nulla legato al valore delle proprie imprese e che quindi tutta quella crescita unilaterale che sembrava una giusta e definitiva maturazione (spesso, negli anni precedenti, si è parlato appunto di alpinismo come scuola di vita), non era in realtà che un progresso fittizio, di valore molto limitato sia per sé che per gli amici al di fuori del ristretto clan alpinistico. Nell’ormai celebre suo articolo intitolato appunto I falliti (Rivista Mensile, 1972, vedi https://gognablog.sherpa-gate.com/i-falliti/), Gian Piero Motti rileva con coraggio l’immaturità e il disinserimento sociale di molti suoi compagni (e di se stesso), incapaci di sostenere un qualsiasi rapporto nella vita, alienati in senso inverso da una montagna che li fa sentire inutili e incompresi.

Guido Machetto

Da questa presa di coscienza, lucida e radicale in Motti, più lenta e combattuta in Gogna, immediata e trascinante in Gobetti, nascono nuove esperienze, tentativi, gruppi e amicizie diverse, tutte intensissime, vitali, ricche di espressività e contagiose verso l’esterno. I primi anni Settanta sono segnati da molto entusiasmo, di cui oggi cogliamo i segni nei valori e nei modelli di arrampicata che si sono scoperti proprio in quegli anni. Il Gruppo Alta Montagna (GAM) di Torino raccoglie dapprima gli alpinisti degli anni Sessanta più proiettati verso il futuro poi, con la riscoperta dell’arrampicata libera ispirata a quella californiana (una vera riscoperta creativa per allora), si forma sempre a Torino il gruppo chiamato da Gobetti Mucchio Selvaggio, che realizza effettivamente per un certo tempo gli ideali nuovi e trascinanti di vita in parete espressi da arrampicatori illuminati come Motti, Galante e Grassi. In Italia questa resta la prima fondamentale esperienza del genere. Poi viene per forza il ridimensionamento, davanti a una realtà che non riesce a far proprie queste proposte di vita, un po’ perché ottusa e privatizzante, un po’ perché forse si tratta di un gioco bellissimo per cui i tempi non sono maturi. Oggi sta iniziando il momento della sintesi, almeno per coloro che vedono più distante e che hanno vissuto sulla propria pelle tutte le fasi precedenti. Motti, ha chiarito più che esaurientemente il suo pensiero sui modelli espressivi attuali con Zero the hero (Rivista della Montagna n. 42-1980, vedi https://gognablog.sherpa-gate.com/zero-the-hero-1/ e https://gognablog.sherpa-gate.com/zero-the-hero-2/), un articolo che non può esistere; una pagina completamente bianca rappresenta il clou del discorso, segno che è ora di una riflessione profonda, che occorre liberarsi sul serio da condizionamenti, modelli dati per vincenti, voci di tutte le provenienze che credono di aver finalmente individuato il vero alpinismo, la certezza, la pace.

Ma è riduttivo limitare un periodo storico-culturale a pochi nomi, senza guardare ai personaggi minori che stanno loro intorno e soprattutto ai modelli a cui essi si ispirano. Alla fine degli anni Sessanta, in effetti, sono un certo numero coloro che posseggono una visione lucida del proprio alpinismo, in coerenza con se stessi e con i tempi che vivono; pochissimi però riescono a esprimere sulla carta questi sentimenti, perché molti li provano, ma li alterano con i retorici modi espressivi di sempre, e altri, per non travisarli, evitano per scelta ogni tentativo letterario. Un’eccezione importante è Guido Machetto, uomo dalla sensibilità fuori dal comune, critico inflessibile con se stesso e con l’alpinismo che si sviluppa attorno a lui; di cui fa un’esperienza di vita essenziale, ma in perenne revisione creativa. Il suo libro Tike Saab (per completezza non andrebbe dimenticato anche Annapurna, realizzato con la consulenza tecnica di Gianfranco Bini) è un esempio di essenzialità nella linea narrativa, con la costante preoccupazione di delineare i valori irrinunciabili presenti nelle avventure descritte, spesso momenti drammatici, proposti uno dopo l’altro con immagini realistiche che nulla tolgono alla dolce poesia di fondo. Un esempio: Machetto ritiene che uno dei valori fondamentali sia il rapporto intenso che si realizza (spesso) con i compagni di cordata; per questo lascia parlare gli amici (i pochi veri amici) nella prima parte del libro, fa rivivere le sue avventure nel racconto dei compagni. È un modo molto bello di non voler porsi sempre al centro delle situazioni:
I miei compagni di cordata hanno scritto il commento di sei scalate fatte insieme. Sono sei qualsiasi tra le ultime e tra le tante. Mi è sembrato bello che fossero loro a raccontarle. Gian Piero ha la stessa delicatezza sia nell’arrampicare che nello scrivere, Gianni racconta di una discesa nella tormenta dalla parete del Picco Muzio al Cervino. Leo era appena sposato quando aprimmo quella nuova via sulla Tour delle Jorasses e dalla parete vedeva casa sua a Courmayeur. Ho fatto molte cose strane, su alcune ho anche insistito ma poche sono selvagge come una scalata invernale e Alessandro scrive di un tentativo alla Grande Cresta di Peuterey. Al Pilastro a Tre Punte sul Mont Blanc du Tacul abbiamo fatto la ripetizione di una via; Beppe dice “è molto bello”. E anch’io come il Carmelo quando passo per la strada che porta a Courmayeur guardo a lungo la Grivola. Quattro giorni sono solo quattro giorni in mezzo a moltissimi altri passati in parete ma quella compagnia sorridente, quel capirsi profondamente al di là della “prima invernale” e quel luogo solitario, mi permettono di dire: se uno scala vuol dire che è un tipo, e un giorno il suo occhio si sofferma su un posto che non può essere che suo e dice che la vita che ha vissuto intimamente fino adesso è lì riflessa; non vi è altro specchio per un uomo che un posto che gli dia la sensazione giusta. Sulla Nord della Grivola ho trovato il mio, o gli somigliava molto, “un posto pulito, illuminato bene” (da Tike Saab, Arti Grafiche Persico Dante, 1972)».

Viene da chiedersi come mai improvvisamente alcuni alpinisti si esprimano in forma nuova, secondo determinati modelli (indubbiamente si tratta di modelli già ben presenti nella letteratura, anche se nuovi per quella di montagna).

Kurt Diemberger

Si nota in particolare un apparente distacco nel racconto, nel senso che la considerazione morale e sentimentale resta ai margini, a volte con cinismo voluto che non vuole l’autore coinvolto in pieno dalla situazione (di solito estrema) che sta vivendo. In realtà questo forse significa semplicemente che in quel momento le valutazioni sulla propria vita e su quella degli altri non c’entravano, per cui è falso inserirle a tutti i costi nel racconto. Al contrario le considerazioni personali ed esistenziali compaiono eccome, molto più che nella letteratura passata, ma sono inserite in un contesto molto più vasto che comprende tutta la vita dell’autore e non soltanto i momenti passeggeri della sua azione in montagna. Quindi, se si cerca di capire e di spiegare, lo si fa cercando di collocare l’alpinismo nella sua giusta dimensione, indubbiamente centrale ma non esaustiva di tutta una vita. Più che altro, non si attribuisce alla montagna quella meccanica azione di causa ed effetto, per cui ogni osservazione cadeva sempre in una retorica scontata di ciò che, sempre e comunque, l’alpinismo offre e pretende (non che con questo non ci sia il rischio anche oggi di ricadere in nuove forme di retorica; un libro o un racconto personale restano pur sempre un mezzo di successo e facilmente si avvalgono di imperativi e canoni espressivi che tra una ventina d’anni passeranno come retorica degli anni Settanta). Infine, perché il racconto sia più sincero, disincantato ma allo stesso tempo profondo per osservazioni e intuizioni, si ricorre spesso a un linguaggio secco, spezzettato, essenziale ma aperto comunque sempre alla conclusione poetica e simbolica. Un esempio straniero fondamentale: Kurt Diemberger (Tra zero e ottomila, Zanichelli, 1971), il primo autore di montagna che abbia introdotto una prosa realistica e moderna, tra l’altro molto valida sotto il profilo poetico-letterario. Alcune pagine, apparentemente contorte e poco scorrevoli alla lettura, lasciano alla fine una percezione chiara e affascinante di ciò che l’autore ha vissuto, vicende ricche di umanità e di partecipazione affettiva. È esattamente il contrario di quanto accade in certa letteratura di montagna formalmente scorrevole e perfetta, ma in fondo vuota e priva di ogni comunicatività. Diemberger è tra i primi scrittori alpinisti che possono permettersi di non parlare esclusivamente di scalate e di azione, appunto grazie alla sua capacità critica e interpretativa: ogni momento, piccolo o grande che sia, fa parte di una ricerca di vita mai limitata da questo o quel traguardo particolare. Ecco la conclusione del primo (e per ora unico) libro di Kurt: “… Percorro l’ampia Meseta. Solo. Un perfetto rettilineo attraversa l’immensa regione. Mi sento preso da una gioia selvaggia. Canto, in gara con il vento che continua a infuriare intorno alla macchina.
… Tutto è dovunque, dappertutto… Le bianche Sierre lontane… Che un mio avo abbia vissuto un tempo su di un arido monte, come questi? Le Sierre lontane.
Luce di sole scintillante! Nugoli di sabbia volteggiano nell’aria, scompigliati boschetti d’ulivo grigio-verdi, montagne grigio-rosse a gradini, in cerchi vaganti di luce. Deserto… Tutto è dovunque, dappertutto… Il vento ha strappato dal suolo cespugli rotondi, che rotolano, dondolano sulla Meseta; fantasmi in moto perpetuo: come palle, ruote di un carro.
La mia macchina vibra impaurita. La mia buona, vecchia
Giovanna, ormai prossima ai 200.000 chilometri; tutta arrugginita; coperta di ammaccature. Imparerò mai a parcheggiare?… Buche, una curva, chilometri che danzano, puntini luminosi nella notte, c’è vita tra i rami… Canto a squarciagola, il cuore colmo.
… Tutto e sempre…”.

Bernard Amy è il primo, tra i francesi, a trasferire nel racconto quella visione allegorica e indagatrice che diventerà quasi un rituale per tutti gli anni Settanta. Attraverso il simbolo e alcuni chiari riferimenti autobiografici, Amy riesce con grande intuizione ad allontanarsi dai binari del frusto e sempre più scontato raccontino di impresa, seguito dalla altrettanto ricorrente filosofia spicciola. Uno dei primi esempi che faranno scuola è il celebre racconto intitolato Il più grande arrampicatore del mondo (Rivista Mensile del CAI, 1972, vedi https://gognablog.sherpa-gate.com/la-trilogia-di-bernard-amy-1/). Un brano mi è rimasto particolarmente impresso: “… Verso la metà di agosto ci fu un periodo di bel tempo. Potei fare qualche salita. Poi ritornai a Chamonix per riposarmi alcuni giorni. Era un mattino. Il sole stava spuntando sopra il Monte Bianco e le Aiguilles in un cielo perfettamente puro. Le strade erano quasi deserte. Erano tutti in montagna. Solo, sulla piazza della posta, assaporavo questo momento con la certezza che mi attendeva una bella giornata. Stavo godendone, senza preoccupazioni, e abbandonandomi all’inazione, conservando sulle dita il ricordo del granito e del vento delle altezze.
Tronc Feuillu uscì dall’albergo. Aveva un piccolo sacco da montagna e capii che partiva per una delle sue misteriose escursioni. Mi passò accanto, si arrestò e abbandonò il suo silenzio abituale.
– Non è andato in montagna?
Lo guardai sorridendo.
– Oh! Sa, il bel tempo non costituisce un obbligo…
– Comunque sia, non fa bello così spesso.
– Non è sempre necessario toccare la roccia per goderne!…”.

Andrea Gobetti e Bernard Amy

Nella smitizzazione, nell’annullamento del senso eroico dell’azione, ha infine un ruolo importante la letteratura alpinistica anglosassone (Chris Bonington, Pete Boardman, Dougal Haston, Joe Tasker, solo per citare gli autori di libri e articoli tradotti in italiano). Si sente la fresca ventata derivante dall’assenza di tutta la stantia cultura italiana, imbrigliata da schemi e luoghi comuni che condizionano i giovani alpinisti-scrittori. L’arrampicata si riappropria della dimensione sportiva a lungo occultata nei pantani della retorica, si scoprono i veli da sempre celati riguardo ai falsi rapporti tra i compagni di cordata, si attribuisce la sua vera importanza alla molla dell’ambizione e del successo. È un apporto di cultura diversa, pienamente avvalorato sul piano delle realizzazioni da ciò che la scuola inglese e americana ha espresso sulle pareti californiane e sulle Alpi. Una cultura che diventa in Italia ideologia diffusa, fondendosi con il rifiuto dell’arrampicata artificiale (tipico elemento dell’alpinismo eroico: la meta ad ogni costo!) e la ricerca della scalata pura, su qualsiasi terreno, senza bisogno di candide vette da calcare per sentirsi qualcuno; insieme al rifiuto della fatica, dell’ambiente ostile, delle alte quote.

Sarebbe interessante verificare se siano state cultura e letteratura a condizionare quest’evoluzione dell’alpinismo, oppure viceversa. Di sicuro i due fattori hanno interagito fra loro scambievolmente, ed è difficile stabilire a quale vada attribuito il ruolo dominante: senza influssi culturali nuovi (specie esteri) non ci sarebbe stata evoluzione; allo stesso tempo, però, senza modelli ed esperienze diverse in montagna, la nuova letteratura sarebbe risultata asettica e vuota di contenuti. Semplificando molto, la letteratura prodotta dall’alpinismo moderno si esprime attraverso una ricerca che possiamo definire fantastica: si cerca di scavare nel sogno, nel subconscio, nelle più riposte motivazioni e sensazioni dell’individuo. Tutto ciò in contrapposizione con la vecchia letteratura dagli attributi tipicamente romantici, con le sue tendenze eroiche e tenebrose, molto più attenta all’azione, all’emozione e alla lotta che alla ricerca e all’intuizione personale. La differenza è che la vecchia letteratura seguiva schemi e modelli molto radicati, con una base e una cultura che affondava le sue radici nei secoli; oggi, al contrario, si procede per esperimenti e ci si affida al caso e all’illuminazione di pochi. È il tempo dei falsi predicatori e dei veri profeti.

Due esempi     
Un alpinismo di ricerca
(Dall’Oglio, 1975): Alessandro Gogna
Il primo libro di Alessandro Gogna è stato edito nel 1975 ma, come è naturale, riporta fatti e pensieri che riguardano tutta la decade precedente. È, senza tema di smentita, il primo lavoro italiano di autobiografia alpinistica che tratti il tema del vissuto in forma evolutiva e disincantata: evolutiva, perché è proprio nelle intenzioni dell’autore l’obiettivo di fare emergere dai vari racconti (riportati fedelmente così come sono stati scritti in periodi differenti) le crisi, i ripensamenti, gli errori, i come e i perché sempre rinnovati; disincantata, perché non si cerca di fingere, di nascondere, di barare, per non fare ancora una volta della figura dell’alpinista un blocco marmoreo e inattaccabile che matura magicamente la sua sicurezza in un mondo troppo piatto e codardo per lui. Per Gogna si può dire che accada esattamente il contrario, cioè che nel suo mondo maturino incertezze, paure, ribellioni, che i momenti di vittoria ed esaltazione non siano altro che la punta di una nevrosi che non dà tregua. La sua è una ricerca difficile, talvolta disperata; non mancano i momenti di gioia, ma sono sempre proiettati in un incerto futuro, verso nuove esperienze che verranno a modificare le conquiste del passato. Ma è soprattutto una ricerca vera e, per questo semplice presupposto, densa di umanità: si tratta di un salto qualitativo molto importante nella letteratura alpinistica, in cui l’eroe aveva di solito ben poco di umano, proprio in qualità delle sue doti eccezionali che gli permettevano di “aleggiare” sui problemi di ogni comune mortale. Non che nella realtà tutti costoro fossero superuomini o si presentassero come tali, ma probabilmente i canoni stessi della cultura e della tradizione facevano in modo che sulla carta risultassero sempre e soltanto le loro caratteristiche poco ordinarie. È raro infatti che questi personaggi risultino simpatici all’uomo della strada che sia un minimo disincantato.

In Un alpinismo di ricerca il tema è al novanta per cento quello della montagna e, in particolare, dell’alpinismo estremo. Non vi sono capitoli in cui Gogna si soffermi su esperienze che con la montagna non abbiano rapporti; ma tutto ciò è molto coerente, in quanto l’alpinismo di questi suoi dieci anni di vita assume davvero un carattere esaustivo. Non rappresenta però una visione unilaterale della montagna: si legga il toccante capitolo intitolato Un mantello che avvolge il passato.

Solo chi ha maturato una visione molto più cosciente dell’ambiente in cui opera può scrivere parole così dense di significato. È chiaramente sottinteso un atteggiamento di autoironia verso le superficiali passioni dell’uomo moderno, quando l’alpinista cittadino passa accanto al vecchio montanaro avvolto nel suo nero mantello e nella nebbia del primo mattino: «Avvolto in un mantellaccio nero, è accovacciato sulla cima di un sasso e non sembra scorgermi. Il silenzio intorno a noi è uguale e nulla significa che dentro di me ci sia il terremoto. Essere messo a confronto con il proprio passato, forse addirittura con la propria coscienza, ma in un modo troppo violento per non soffrirne, per riuscire a non sentirsi inferiori…”. Il problema delle motivazioni: più che mai è presente una dimensione evolutiva, nel senso che in Gogna si passa dalla fede cieca e incondizionata nell’alpinismo, tipica dei primi anni, alle grandi crisi tra i 20 e i 25 anni, in cui si incrinano molte certezze e si delineano altri problemi che la montagna non riesce a risolvere. Per un alpinismo sereno (vedi il capitolo Per il resto dell’inverno) emerge il bisogno di un equilibrio nella vita di tutti i giorni, che comprenda le grandi scelte dello studio, del lavoro, della vita affettiva; diversamente anche un’attività in montagna ai massimi livelli, che in teoria dovrebbe elargire le massime soddisfazioni, viene a perdere di senso: “… Non sono mai riuscito a separarmi dal mio orgoglio, che ormai alimentava una finta perfezione, ad avere un minimo di fiducia vera in me stesso, teso com’ero a mete materiali: montagna, studio, donne…». Questa problematica di fondo si riallaccia al discorso delle soddisfazioni dopo le salite più riuscite: anche qui la gamma delle reazioni descritte è molto variabile e profondamente legata alle situazioni umane vissute. Dall’euforica e giustificata soddisfazione dopo il successo sullo Scarason o sul Badile, alla narcisistica sicurezza dopo le Jorasses, alle mature vittorie sulle Pale di S. Lucano, al tragico e disastroso epilogo sull’Annapurna: la maturazione e la ricerca di un alpinista passano attraverso questi momenti finali, in cui si dovrebbe (in teoria) raccogliere la summa di tutti i rischi, gli sforzi e i sacrifici.

Alessandro Gogna

Nel capitolo dedicato all’Annapurna si coglie fino in fondo il significato della tragedia che, ci pare, assume in Gogna dei toni altissimi; in quanto non c’è nessuna ricerca di giustificazione di fronte alla morte degli amici ma, anzi, traspare tutto il senso di vuoto e di disperazione che colpisce l’alpinista in simili momenti. Gogna scriverà poco dopo il ritorno in Italia: “… Durante il bivacco non sogno neppure e i miei compagni mi credono ancora forte. È come un automa che la mattina dopo riprendo i soliti gesti. Quanti morti avrà fatto questa primavera l’Himalaya?”.

Sono le ultime frasi del libro. Si può dire che in questo caso sia lo scritto a percepire ed esprimere pienamente il senso dei ricordi e delle reazioni, mentre forse nella realtà lo stesso autore stenta a essere se stesso fino in fondo. È questo il valore essenziale di un libro: quando appunto riesce a trasmettere, attraverso la sensibilità di una persona, ciò che in molti viviamo e sentiamo ma che siamo incapaci di cogliere ed esprimere compiutamente. E proprio per questo salto qualitativo possiamo parlare di letteratura nuova.

Un’ultima considerazione riguardante i compagni di cordata, un tema fondamentale e ricorrente in tutta la narrativa alpinistica: in Gogna essi fanno parte integrante della storia; accompagnano con la loro presenza insostituibile tutti gli sforzi individualisti dell’autore e vengono sempre chiaramente inquadrati quando ne influenzano le scelte e gli entusiasmi. Purtroppo la presenza più significativa nel libro è quella dei compagni che non arrampicano più perché caduti in montagna (Armando, Cerruti, Rava, Machetto).

Una frontiera da immaginare (Dall’Oglio, 1976): Andrea Gobetti
L’anno successivo (il 1976) Andrea Gobetti pubblica il suo lavoro autobiografico. Ciò che lo distingue da Gogna è il fatto che, speleologo di nome e alpinista di medio livello, Gobetti interpreta e vive il successo in modo molto più discontinuo e dissacrante, grazie al suo carattere, alla sua famiglia, alle varie esperienze che matura negli anni giovanili.

Andrea Gobetti

L’impegno sociale ha un peso notevole, anche se nel libro il racconto retrospettivo è condotto in senso più ampio, dai ricordi di infanzia alle movimentate esperienze scolastiche. Le grotte divengono via via elemento essenziale, con tutto il sapore dell’avventura e della scoperta che caratterizza la ricerca di Gobetti. Ma anche in questo caso il titolo è significativo: «frontiera da immaginare» non significa avventure, discese in grotta e arrampicate senza una linea, senza una “fede” ; significa al contrario un cammino ricco di momenti ideali verso quella frontiera dove l’uomo si fa veramente uomo per poter vivere fino in fondo la propria esistenza.

Elementi base di questo cammino sono le amicizie, intese come legami trascinanti e intensissimi: l’esperienza più unica che rara del Mucchio Selvaggio, che Gobetti sa rendere ancora più affascinante attraverso la sua prosa profonda, ricca ed essenziale al tempo stesso, di ampio respiro e di alto contenuto poetico. Spesso, leggendo queste pagine, si ha l’impressione di vivere un sogno e verrebbe voglia di non conoscere mai i personaggi della storia nella realtà, per non ritrovarseli di fronte, uomini come tutti gli altri. Senza dubbio nella vita di tutti noi esiste uno spazio dedicato al sogno: Gobetti ha la rara capacità di farcelo rivivere. Al di là di ogni giudizio più realistico sulle sue vicende e sulle sue imprese speleologiche, questo resta un grandissimo merito. Andrea non ama il pathos che di solito precede ogni avventura rischiosa, così come si sofferma di rado sulle sensazioni successive alla conquista.

Il racconto dell’impresa è valido in senso compiuto solo se, oltre ai particolari tecnici e agli avvenimenti in sé, si guarda alla dimensione umana dei vari protagonisti. La vita si ripropone in ogni esplorazione (perché anche l’arrampicata è in fondo un’esplorazione delle proprie possibilità di superare la parete) come un bellissimo gioco che vale la candela solo se si riesce a viverlo come tale. Naturalmente non sempre è così e talvolta si sfiora la tragedia, come nel piccolo capolavoro intitolato Alla ricerca di Gian Piero Motti (parte sesta). Qui si fondono amicizia, speranza e rassegnazione, senza un filo di quella retorica in cui è facilissimo cadere descrivendo situazioni del genere. Scrive alla fine del capitolo, a ritrovamento effettuato: «… Abbiamo vissuto il libero, gioioso, favoloso ASSURDO. Mi prende per mano una gran voglia di vivere mentre esco nel sole dalla camera di Gian Piero e trovo Angelo appoggiato al bancone del bar. Lavoriamo allora insieme alla più meritata “insummiatura” della nostra vita, visto che è così difficile per l’uomo reagire in maniera fantastica di fronte al fantastico». Una frontiera da immaginare non è un libro di imprese. È il susseguirsi di una serie di flash scritti da un giovane sulla propria vita. E in questa vita si collocano in un tutto organico avvenimenti, sentimenti, uomini e cose: se fossero considerati separatamente perderebbero tutto il loro significato. Così Gobetti descrive le emozioni che si provano ripensando a una famosa traversata nelle Calanques di Marsiglia: “A En Vau, a un metro dall’acqua, c’è una via disegnata da un uomo. Una via che non sale verso il cielo, che si tiene alla stessa altezza sul mare, difficile come è difficile star fuori dalle cose, senza scappare lontano, e lasciare che facciano il loro corso, restando a guardarle vicino. È la strada di un uomo chiamato pazzo, che non sarebbe caduto dalle rocce e per questo era invidiato, e per questo era odiato. Per questo è rimasto solo. Solo e ubriaco, fino a spararsi, una sera sulle rive di un lago dal nome di donna”. In questa dolce poesia è racchiusa tutta l’affascinante e misteriosa immagine di Gary Hemming. E in quest’immagine, una delle tante, si rispecchia un cammino autobiografico denso di umanità.

Un caso a parte: Reinhold Messner
È difficile inquadrare l’ideologia e gli scritti di Reinhold Messner in uno dei due periodi che abbiamo assunto a modello del secondo dopoguerra: cronologicamente egli si inserisce nel periodo critico, ma con un’evoluzione personale e una produzione letteraria tali da renderlo veramente un caso a parte. È curioso come la sua immagine di primo alpinista mondiale abbia condizionato tutti gli ultimi quindici anni senza però, a mio avviso, costituire le basi per un modello che possa valere nel futuro. Nel senso che Messner tende a incarnare sempre di più la figura del mito e dell’eroe moderno adattando ai tempi un modello che ritengo ormai superato; senza per questo togliere nulla alla coerenza e all’intelligenza di questo alpinista solitario per vocazione, che ha sempre conservato il coraggio e la forza di mantenere una propria linea, senza l’appoggio di un gruppo o di un’ideologia. Per un’analisi dell’opera letteraria di Messner è necessario definirne la linea di pensiero; a partire dalla cultura tipicamente tedesca che ha filtrato fin dall’inizio i suoi orientamenti alpinistici e culturali creando quella determinazione e quella saldezza mentale che sono caratteri tipici delle sue scelte giovanili. Pur studiando a Padova e condividendo per mesi le esperienze cittadine degli anni Sessanta, Messner non è intaccato dalla problematizzazione diffusa che fa seguito ai movimenti di rivolta. Egli vive la crisi sociale e politica a modo suo, investendo nella montagna, con lucida intuizione, tutti i suoi ideali di rinnovamento. Il suo primo libro Ritorno ai monti (Athesia, 1971), sapientemente impostato nella forma del racconto poetico, ottiene un’eco imprevista grazie ai pensieri attualissimi che sviluppa. La montagna, e l’alpinismo in particolare, diventano i mezzi leali e naturali per sfuggire alla società disumanizzata delle macchine. Cito alcuni titoli: Alpinismo, una maniera di realizzare noi stessi, L’alpinismo non è un surrogato, Lo spirito d’avventura, L’essere soddisfatti, Vita semplice, L’importanza sociale. Lo stile è molto efficace, toccante e umano: “Quali sono i miei progetti per il domani, e anche per adesso, mi chiedono i giornalisti. Nessuno. Che progetti dovrei avere? L’orario è prestabilito. I piani per la mia casa li studia (o li copia) l’architetto. Il programma di lavoro professionale altri l’hanno elaborato per me. Il computer calcola i tempi, io non ho che da rispettarli. Il corso degli studi è già fissato e non si può mutare. Il conto consuntivo si farà soltanto alla fine. E io, contro tutte le pianificazioni, me ne sto sdraiato sull’erba di un prato di montagna, sorrido pensando alla tabella di marcia dell’escursionista che mi passa accanto e pongo ogni mia cura nel farmi il solletico sotto il naso con un filo d’erba». Il tono è profetico, basato sull’antitesi (anche fotografica) tra il mondo inquinato della civiltà e quello puro della montagna. Questo modello fa presto il suo tempo poiché, come sarà chiaro negli anni successivi, si trattava di una fine intuizione dal valore passeggero che, in buona fede, recava in sé l’inganno: non è vero che in montagna le azioni siano sempre più vere, i rapporti più autentici, le soddisfazioni più complete. Se l’uomo-alpinista non sa cambiare la qualità della sua vita anche al piano, la montagna resta una fuga e un palliativo.

Ma restiamo a Messner. Nel 1972 scrive quello che resterà il capolavoro del suo tempo: Il settimo grado (Görlich, 1974) rappresenta una sintesi di vita dal fascino irresistibile, l’ideale di realizzazione e l’etica nuova per tutta una generazione. Il tema è la conquista dell’impossibile (appunto un grado più in alto del tetto della scala Welzenbach) e i mezzi per raggiungerlo sono costituiti da una vita rigorosa, basata su allenamenti scientifici, calcoli razionali, stile e personalità incrollabili. La fine del libro resta una pagina emblematica: «… Dopo alcuni mesi l’allenamento era diventato un vero piacere, mi rattristavo quando dovevo rinunciarvi e qualche volta percorrevo di corsa tratti molto lunghi. Le docce fredde quotidiane erano diventate un’abitudine, cui ancor oggi non posso rinunciare. Con un allenamento autogeno tentavo di rallentare i battiti del cuore e di migliorare la circolazione sanguigna delle mani e dei piedi. Mi preoccupavo anche di seguire con il pensiero i movimenti che avrei fatto nella zona della morte. La muscolatura superiore si indeboliva a favore delle gambe grazie alle corse d’allenamento. Le pulsazioni erano diminuite fino a 42 al minuto. Ero soddisfatto del successo di questo allenamento, sebbene avessi rinunciato a qualsiasi ascensione quattro mesi prima della partenza.
Contemporaneamente studiavo l’itinerario su delle fotografie, mi sprofondavo nella lettura di ciò che riguardava il Nanga Parbat e parlavo con persone che vi si erano già recate. Tutto ciò rafforzò la mia convinzione che doveva essere pressoché impossibile raggiungere la cima del Nanga per la parete Rupal. Alla partenza i dubbi erano pari alla fiducia in un possibile successo. L’entusiasmo era grande. Mi sentivo però incredibilmente piccolo a confronto del Nanga Parbat. Sei mesi dopo ero con mio fratello Günther sulla vetta. Imprevisti motivi ci costrinsero a scendere sul lato ovest, che si presentava più facile. Ai piedi della parete Günther fu sepolto da una slavina, lo cercai disperatamente, mi trascinai per giorni con le dita dei piedi congelate per la valle del Diamir. Avevamo dovuto attraversare, impreparati e senza itinerario, la montagna nuda. Ero rimasto senza bere per tre giorni, senza mangiare per cinque; avevo trascorso tre notti in mezzo al ghiacciaio senza alcun rifugio, alla fine strisciavo verso valle perché non riuscivo più a reggermi in piedi. Allora gli alpinisti di tutto il mondo dissero che era stato un miracolo che mi fossi salvato. Però io non credo nei miracoli
».

Reinhold Messner

Quali sono le differenze rispetto a Ritorno ai monti? È scomparsa l’idealizzazione e l’umanizzazione forzata della montagna. Ma, nonostante il secco e duro stile tedesco, ne il Il settimo grado si scopre tra le righe una grande sensibilità nascosta, inconsciamente o volutamente ottenebrata dalla pericolosa ricerca della perfezione. Il salto successivo è quello più sinceramente umanizzante. In Due e un ottomila (Dall’Oglio, 1977) si riscopre con grandissimo piacere un Messner scrittore e un uomo dall’animo profondo, attento a tutte le speranze, le sofferenze e le illusioni che lo portano prima all’insuccesso sul Lhotse e poi alla conquista dell’Hidden Peak. In molte di queste pagine la narrazione tocca davvero i vertici della poesia e colpisce l’attenzione costante e primaria verso i compagni, elemento quasi del tutto assente nel Messner che scrisse Manaslu (Görlich, 1973) pochi anni prima. Non si tratta più dell’eroe che vince ogni difficoltà e sembra non curarsi degli uomini e dei problemi che lo circondano; al contrario, è un alpinista come gli altri che afferma di aver bisogno di questi uomini per vivere e per arrampicare. La figura femminile di Uschi conferisce un ulteriore tocco di umanità a tutto il racconto: “… Piuttosto che alla parete, avrei preferito dedicarmi a Uschi. Pazzo che ero! La sfida al Lhotse era diventata più importante del mio amore per lei? Forse ero stato troppo superbo, troppo ambizioso ad accettare di partecipare a questa spedizione. Ma così, niente amore”.

 

Accanto a questi sentimenti di dolcezza e di amore, Messner non abdica mai alla schiettezza che è tipica della sua ricca personalità; ne è un esempio l’inizio del capitolo intitolato Alla deriva nel Braldo: “… Ormai assomigliavamo più a volpi del deserto che a Romeo e Giulietta, come ci aveva soprannominato un nostro amico alla partenza da Monaco. Romeo e Giulietta in spedizione! Anche Peter (Habeler, NdR) aveva riso. Tuttavia il paragone non era del tutto sbagliato, basti pensare all’eccezionale sincronia della nostra azione, mantenuta anche durante il ritorno. Non ci volevamo particolarmente bene, parlavamo molto raramente tra di noi, eppure ognuno sarebbe andato incontro alla morte insieme con l’altro, se le forze della natura non ci avessero lasciato alcuna via di scampo”.

E, infine, la montagna domina ancora sovrana sopra i sogni e le nostalgie degli uomini: «… Quell’apparizione armoniosa e riposante fu un attimo dopo spazzata via dalle rive sfuggenti del fiume. Levai gli occhi di nuovo verso l’alto. Tutt’intorno, nella luce opaca del mattino, mi passava accanto tremolante il paesaggio: montagne che non davano requie».

Nanga Parbat in solitaria (Istituto Geografico De Agostini, 1980) è l’altro grande esempio della maturità di Messner (nel 1979 era uscito Everest, Istituto Geografico De Agostini) racconto di spedizione che segue abbastanza fedelmente i canoni tradizionali): la sua è diventata un’esperienza solitaria, separata per scelta, vocazione e condanna, da quelle che sono le strade di quasi tutti gli uomini. Scrivevo nel 1980 (anno dell’uscita del libro) sulla Rivista della Montagna: «… Un uomo solo di fronte a un ottomila, così come di fronte a qualsiasi altra situazione della vita. Messner accetta fino in fondo la regola del gioco, sembra quasi che la esasperi in una forma di misantropia voluta, ma chi sa cogliere dalle righe i particolari più significativi della vicenda del Nanga si accorge che non è affatto così; il quadro è sempre profondamente umano, anche nelle sue manifestazioni di maggior rigore etico e alpinistico ogni azione è mossa da considerazioni reali e perfettamente conseguenti che Messner ha il coraggio di metterci davanti in tutta la loro cruda verità; non sono escluse le sue debolezze e le folli paure che lo colgono alla vigilia del primo tentativo solitario. Ne esce un personaggio molto differente da quello che, ai tempi del Il settimo grado, aveva già attraversato il Nanga con il fratello Günther in circostanze allucinanti. Colpiscono frasi come “Ora rifiuto completamente l’allenamento. La mia vita mi è troppo cara per mortificarmi in qualsiasi cosa, esercitarmi giornate, settimane, mesi, fare qualcosa che non faccio volentieri solo per poter fare meglio qualcos’altro”, oppure “Ho un’enorme fame di vita. Vorrei essere dappertutto nello stesso momento. Mi sono liberato dal vizio della filosofia e della morale… Non so cosa mi dia questa forza e non voglio neanche chiedermelo; la sfrutto”. È l’immagine di un uomo maturo, ma in costante ricerca; di un grande alpinista che ha però saputo costruirsi un modello tutto proprio di vita e rinnegare per sempre ciò che non poteva andare per lui. Con le sue realizzazioni in montagna e la popolarità di cui gode, non sarebbe stato difficile per Messner trascinare la propria stanca immagine di superuomo per anni, ricavandone i benefici di una tranquilla e sicura affermazione sociale. Ma in questo libro appare più che mai evidente che egli non intende barare né con sé né con gli altri, e questo è indubbiamente un merito che va al di là di ogni giudizio sulle sue posizioni e sulle sue scelte.
Ciò che mi ha colpito è la logica incomunicabilità che Messner mette in luce nei suoi rapporti con chi gli sta vicino al campo base. Da un lato emergono spontanei e chiarissimi gli atteggiamenti dei suoi compagni, le loro ansie e il loro aiuto, ma l’amicizia che nasce e si sviluppa è limitata da differenze insuperabili, su cui la solitudine aleggia come forza superiore. Non è — si badi bene — l’atteggiamento ricercato di superiorità tipico dell’eroe dell’alpinismo, ma la necessaria e naturale conclusione di una storia individuale che non mira a nessun obiettivo predeterminato; Messner supera così anche la sua prova sul Nanga, sognata molti anni prima e per nulla definitiva neanche dopo il successo, e ricomincia il suo vagabondaggio per il mondo. È duro il prezzo da pagare per un’indipendenza totale, ammesso che questa sia possibile
”.

I fatti e gli scritti recenti di Messner (Il limite della vita, Zanichelli,1980, è un discorso a parte) sembrerebbero dimostrare che, se questa indipendenza è stata per lui possibile, la sta purtroppo scontando con la triste condizione di superman e di forzato del successo. Non è certo quella bellissima e sincera immagine che sembrava propagarsi dalle sue pagine migliori. Concludo con un sentimento di delusione.   

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Spunti di letteratura – 2 ultima modifica: 2017-05-31T05:30:20+02:00 da GognaBlog

1 commento su “Spunti di letteratura – 2”

  1. 1
    Paolo panzeri says:

    Un caso a parte Messner?
    Direi la massima espressione alpinistica, quasi italiana, di quegli anni.
    Gogna e Machetto ogni tanto gli si avvicinavano, ma gli altri erano lontani anni luce.
    Kurt è stato infinito.
    Messner era un orientale, perché viene citato solo lui?
    Vicini a lui ce ne erano altri, sopratutto stranieri.
    Un articolo che non capisco, mi sembra molto parziale, quasi provinciale, spiegatemi.

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